EDITORIAL: Lesione di interessi legittimi di diritto privato; Analisi e tutela delle singole figure (aggiornamento)
Analisi e tutela delle singole figure di diritto privato.
Si e’ detto che nel diritto pubblico l’interesse legittimo rappresenta una posizione giuridica soggettiva attraverso la quale il singolo puo’ far valere un proprio interesse personale, leso dall’illegittimo agire della pubblica amministrazione, soltanto nel caso in cui tale interesse coincida con altro di carattere generale e sul primo prevalente. Questo tipo di situazione non e’ di esclusivo appannaggio dell’ordinamento pubblicistico, essendo ravvisabili anche nel diritto privato fattispecie che integrano gli estremi dell’interesse legittimo.
Tale interesse non e’ configurabile in qualsiasi tipo di rapporto privatistico, generalmente s’individua nell’ambito di fenomeni comunitari, quelli in cui si ravvisa una coincidenza tra interesse personale di un singolo e l’astratto interesse collettivo di un piu’ o meno vasto gruppo d’individui.
Le societa’.
3.1.1. Invalidita’ delle delibere assembleari per eccesso di potere (art.2377 c.c.).
L’art.2377 c.c., al primo comma, stabilisce che “le deliberazioni dell’assemblea, prese in conformita’ della legge e dell’atto costitutivo, vincolano tutti i soci, ancorche’ non intervenuti o dissenzientiâ€. Essendo le delibere assembleari prese con il voto della maggioranza, tutti i soci sono vincolati alla sua volonta’ indirizzata al perseguimento del fine sociale, quello che i soci si sono prefissati al momento della stipula del contratto di societa’ (art.2247 c.c.).
Se invece le delibere sono in contrasto con la legge o con l’atto costitutivo, ovvero non sono dirette al perseguimento dell’interesse sociale, “possono essere impugnate dagli amministratori, dai sindaci e dai soci assenti o dissenzienti entro tre mesi dalla data della deliberazione†(2° comma art.2377 c.c.).
La disciplina prevista per le societa’ non e’ lontana da quella che regola l’agire della pubblica amministrazione finalizzato al perseguimento di interessi pubblici. Tutti i provvedimenti che attengono a finalita’ diverse sono considerati illegittimi, e l’illegittimita’ puo’ essere fatta valere da chiunque vanti un interesse legittimo; cosi’ anche nell’ambito del diritto societario s’individua un modulo “esercizio del potere – interesse legittimoâ€, caratteristico del diritto pubblico.
Quando la maggioranza assume una delibera che mira al perseguimento di un fine extra – sociale, il socio assente o dissenziente puo’ impugnarla facendo valere un interesse legittimo acche’ il fine sociale venga raggiunto ed acche’ l’atto costitutivo venga correttamente applicato. In tal modo il socio tutela in via indiretta un proprio personale interesse e tende ad evitare l’eventuale danno derivante dalla delibera illegittima.
Dottrina e giurisprudenza hanno delineato anche nel diritto privato societario, tra le cause di annullamento di una delibera assembleare, la figura dell’eccesso di potere, inquadrabile come una trasposizione nel diritto societario di una fattispecie tipica del diritto amministrativo, giustificata dall’esigenza di offrire una piu’ intensa tutela alla minoranza azionaria contro i soprusi della maggioranza .
Al fine di garantire, attraverso un equilibrato bilanciamento di poteri, il perseguimento del fine sociale, la giurisprudenza ha cercato di delimitare l’ambito d’applicazione dell’eccesso di potere, onde evitare il rischio di un abuso dell’impugnazione volto a paralizzare l’attivita’ assembleare.
Con la sentenza del 29 maggio 1986, n°3628 la Cassazione riconosce l’eccesso di potere tutte le volte in cui una delibera sia stata arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza per perseguire interessi divergenti da quelli sociali, derivando un danno per la societa’, o per alcuni dei partecipanti, nei cui confronti siano stati violati i diritti sociali. L’onere di provare il danno subito ed il fine extra – sociale grava su chi impugna la delibera, non solo per il generale principio dell’onere della prova, ma anche perche’ le deliberazioni sociali si presumono, fino a prova contraria, conformi all’interesse della societa’ (Cass.7 febbraio 1979, n°818) .
La prova consiste nel dimostrare la sussistenza di un fine diverso e contrastante con quello sociale, il che non e’ agevole in quanto l’assemblea dispone di una molteplicita’ di forme attraverso cui atteggiare la ricerca dell’interesse sociale e celare scopi diversi; si deve pertanto individuare il limite oltre il quale la volonta’ della maggioranza non puo’ spingersi per il rispetto del fine sociale.
In conclusione, dall’illegittimo comportamento della maggioranza puo’ conseguire un pregiudizio tanto per la societa’, quanto per i singoli soci, i quali non sono titolari di una posizione giuridica direttamente tutelata, ma possono solamente far valere la violazione dell’interesse sociale e tutelare indirettamente i propri interessi, laddove questi coincidano con quello generale della societa’.
3.1.2. Diritto di opzione (art.2441 c.c.).
L’art.2441 c.c., facendo riferimento al diritto d’opzione di cui i soci godono sulle azioni di nuova emissione in proporzione al numero delle azioni possedute, prevede una tutela per mantenere inalterata la posizione dei soci all’interno della societa’ e per conservare la proporzionale partecipazione al patrimonio sociale ed in seno all’assemblea.
Tale articolo stabilisce che i soci vantano un diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni, a meno che questo non venga escluso o limitato per l’interesse della societa’ (5° comma dell’art.2441 c.c.), esclusione che deve sempre intervenire in conseguenza di una delibera di aumento di capitale, approvata da tanti soci che rappresentino oltre la meta’ del capitale sociale.
Anche in questo caso si delinea la contrapposizione tra l’interesse di un singolo (il socio uti singulus) ed uno superiore non sempre con il primo coincidente (l’interesse della societa’); l’interesse del singolo all’opzione cede a fronte dell’interesse sociale.
L’interesse del socio all’opzione s’inquadra come un interesse legittimo, in quanto la maggioranza non ha un dovere o un obbligo, ma un potere discrezionale finalizzato al soddisfacimento dell’interesse sociale. Ove tale potere venga esercitato per scopi diversi, il socio di minoranza puo’ far valere l’interesse al corretto uso del potere, tutelando peraltro l’interesse all’opzione. Lo schema e’ quello dell’interesse legittimo, sia che si ritenga, secondo l’opinione prevalente, prima della delibera non sussistere alcuna posizione giuridica soggettiva, sia che si consideri sussistente un diritto soggettivo all’opzione degradato ad interesse legittimo dalla delibera stessa .
L’orientamento della giurisprudenza si e’ mostrato unanime nel ritenere che la statuizione “quando l’interesse della societa’ lo esigeâ€, di cui al 5° comma dell’art.2441 c.c., non vada interpretata alla lettera, in quanto il sacrificio del diritto d’opzione non rappresenta l’unico mezzo per attuare l’aumento di capitale e per realizzare l’interesse della societa’, ma deve ricorrere un interesse sociale serio, tale che la soluzione appaia preferibile e ragionevolmente piu’ conveniente (Cass.30 ottobre 1970 n°2263).
L’onere di dimostrare l’esistenza dell’interesse che ha portato all’esclusione o alla limitazione del diritto di opzione incombe su la maggioranza, la quale deve indicare le effettive ragioni che hanno determinato la decisione, per permettere al socio un riscontro continuo su la fondatezza dell’esclusione del suo diritto di opzione, anche prima di un eventuale giudizio.
La giurisprudenza, applicando la disciplina del controllo della discrezionalita’ e richiedendo che la scelta sia ragionevole, reputa viziata non soltanto una delibera volta a danneggiare i soci di minoranza, ma anche una delibera frutto di una valutazione irragionevole.
Nella pratica pero’, sia per la difficolta’ della prova, che per la ritrosia della giurisprudenza ad applicare ad attivita’ private l’istituto dell’eccesso di potere, le delibere di aumento di capitale con sacrificio del diritto di opzione sono state ritenute viziate prevalentemente per vizio di procedura o difetto di motivazione.
Dottrina e giurisprudenza si sono anche occupate del tipo d’invalidita’ (nullita’ o annullabilita’) che inficia la deliberazione viziata. Due diversi orientamenti si sono contrapposti: uno giurisprudenziale che prevede come sanzione la nullita’ per illiceita’ dell’oggetto ai sensi dell’art.2379 c.c., ed un secondo dottrinario che ritiene piu’ corretto parlare di annullabilita’ ai sensi dell’art.2377 c.c.. L’art.2379 c.c. limita le cause di nullita’ delle deliberazioni assembleari delle societa’ per azioni alle sole ipotesi di impossibilita’ o illiceita’ dell’oggetto, dovendosi intendere per impossibile qualunque oggetto che sia fuori della realta’ sensibile, e per illecito, cio’ che deroghi a disposizione di legge, d’ordine pubblico o buon costume.
In riferimento all’illegittima limitazione o esclusione del diritto di opzione pare difficile configurare un oggetto illecito o impossibile, dato che il codice prevede tale eventualita’ nel caso in cui l’interesse della societa’ lo esiga. L’unico vizio ravvisabile e’ dato dall’uso scorretto di tale strumento, valutandolo in riferimento al reale interesse sociale. Appare pertanto piu’ corretto parlare di annullamento della deliberazione assembleare piuttosto che di nullita’.
All’autorita’ giudiziaria e’ precluso qualsiasi giudizio sul merito delle decisioni assunte dall’assemblea, essendole consentito solamente un giudizio di legittimita’. In questo modo non puo’ sindacare l’opportunita’ della decisione di aumentare il capitale sociale, mentre puo’ valutare l’opportunita’ di procedere a tale aumento attraverso l’esclusione del diritto di opzione. La giurisprudenza ritiene che il giudice deve valutare se l’interesse che la societa’ fa valere sia tale da poter prevalere su una situazione individuale tutelata, quale il diritto di opzione per il singolo socio; si tratta sempre di un sindacato di legittimita’, in quanto il giudice non valuta se la scelta sia la piu’ opportuna, ma solo se sia ragionevole.
Distribuzione degli utili ai soci (art.2433 c.c.).
In base all’art.2433 c.c., i soci azionisti possono ottenere la divisione dei dividendi solo in seguito ad una delibera assembleare che disponga la devoluzione ai soci dell’utile accertato in sede di approvazione di bilancio. In considerazione di questo iter, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che sia sbagliato parlare in assoluto di diritto soggettivo al dividendo. Infatti mentre la giurisprudenza classifica la posizione del socio prima di questo momento come stato di aspettativa; la dottrina configura la posizione del socio antecedente alla deliberazione assembleare come interesse al dividendo, quella successiva alla delibera, come un interesse legittimo e quella conseguente alla distribuzione del dividendo, come un diritto soggettivo.
Anche in questo contesto si ripropone lo schema “esercizio del potere – interesse legittimoâ€. Il diritto agli utili non spetta ai soci automaticamente in seguito all’approvazione di bilancio, ma e’ necessario che la condizione economica sociale lo consenta, pertanto l’assemblea deve accertare con apposita delibera che non vi siano interessi sociali prevalenti cui far fronte con il sacrificio del particolare interesse del socio.
La giurisprudenza ha riconosciuto che a volte la decisione dell’assemblea di non procedere all’erogazione degli utili cela l’intenzione del gruppo di maggioranza di mettere in difficolta’ i soci di minoranza, privandoli degli utili, ovvero di perseguire finalita’ che esorbitano dallo statuto della societa’. In tutti questi casi si e’ configurato il vizio di eccesso di potere, cui corrisponde una posizione d’interesse legittimo a carico del socio pregiudicato.
Tutte le volte in cui il socio viene privato di un diritto che normalmente gli spetterebbe, subisce un pregiudizio, ma questo e’ ritenuto legittimo laddove sia volto a tutelare una situazione di difficolta’ della societa’ cui il socio aderisce. Se invece il sacrificio dipende da finalita’ extra – sociali o da intenti lesivi dello status di socio, la delibera e’ illegittima.
Diritto di recesso (art.2437 c.c.).
Altra forma di tutela prevista dal legislatore per le minoranze e’ contenuta nell’art.2437 c.c., in riferimento a radicali modificazioni di aspetti essenziali del contratto di societa’, quali: l’oggetto, il tipo di societa’, il trasferimento della sede sociale all’estero, la fusione o l’incorporazione. In tutti questi casi i soci dissenzienti hanno il diritto di recedere dalla societa’, in quanto tale cambiamento determina la modificazione dell’accordo originariamente stipulato, in funzione del quale il singolo ha aderito alla societa’ stessa.
Anche qui parte della dottrina ha ravvisato un intento fraudolento della maggioranza nella delibera di modificazione dell’originario contratto di societa’, nel caso in cui sia volta ad estromettere i soci di minoranza ed assumere il totale controllo della societa’.
Il diritto di recesso permette di tutelare il singolo socio, ma non e’ utile per combattere tale tipo di abuso; i soci dissenzienti, laddove ravvisino irregolarita’ o ritengano irragionevoli le modifiche, possono impugnare le deliberazioni ai sensi dell’art.2377 c.c., anziche’ usufruire del diritto di recesso.
Considerazioni comuni. L’interesse legittimo ed il problema della sua risarcibilita’.
Dalla analisi di questi diversi articoli emerge un contrasto tra il comportamento del gruppo di controllo della societa’ e la posizione del singolo socio , il quale puo’ trarre da tale comportamento un pregiudizio, che e’ ritenuto illegittimo se dipeso da finalita’ extra – sociali.
Parte della dottrina e della giurisprudenza, attraverso una trasposizione dal diritto amministrativo, applicano le figure dell’abuso e dell’eccesso di potere anche nella sfera privatistica tutte le volte in cui la maggioranza assembleare esorbiti dal potere e dalle competenze attribuitele nell’atto costitutivo , delineando i caratteri dell’interesse legittimo.
In tutte le disposizioni esaminate il rimedio approntato dal legislatore e’ l’annullamento della delibera assembleare che si presume viziata; questo non pare sufficiente ad escludere che il socio abbia titolo a chiedere il risarcimento del danno patito. Oramai puo’ ritenersi superata l’impostazione che considerava danno ingiusto, ai sensi dell’art.2043 c.c., soltanto il danno derivante dalla lesione di un diritto soggettivo assoluto , avendo la giurisprudenza ammesso la tutela aquiliana del diritto di credito , dell’aspettativa e della perdita di chance.
La giurisprudenza, al contrario della dottrina , e’ ferma nel non ammettere la tutela aquiliana dell’interesse legittimo del privato nei confronti della pubblica amministrazione, escludendone il risarcimento in ambito pubblicistico, purche’ il fatto dannoso non sia qualificabile come reato , ovvero la lesione non si traduca in quella di un diritto soggettivo, come nell’ipotesi di annullamento di atti ablatori o di provvedimenti negativi di secondo grado rispetto ad atti che hanno realizzato “l’espansione del diritto†(ad es., nell’ipotesi d’annullamento giurisdizionale, d’annullamento d’ufficio o di revoca illegittima della concessione rilasciata).
La ratio di tale rifiuto s’individua nella necessita’ di non depauperare l’amministrazione, condannandola al risarcimento di danni derivanti da un’azione finalizzata alla tutela della funzione pubblica. Sono pertanto l’emergenza economica, le esigenze di bilancio, la dilatazione della portata della norma di cui l’art.81, comma 4, della Costituzione, a costituire l’effettivo impedimento alla risarcibilita’ degli interessi legittimi in campo pubblicistico. Tali impedimenti non sussistono pero’ per quanto concerne la tutela aquiliana dell’interesse legittimo nel diritto privato.
Da un eventuale riconoscimento della risarcibilita’ degli interessi legittimi in diritto privato, fortemente osteggiato dalla giurisprudenza, derivano una serie di problematiche. In primo luogo si pone la questione dei soggetti legittimati all’esercizio dell’azione, anche se in realta’ la soluzione s’individua nello stesso codice che, in riferimento all’azione di annullamento della delibera viziata, considera legittimati ad agire i soci assenti o dissenzienti (artt.2377 e 2437 c.c.) che abbiano subito un danno ritenuto ingiusto ai sensi dell’art.2043 c.c. Sono esclusi tutti coloro che abbiano concorso all’approvazione della delibera viziata e dannosa, non potendone chiedere ne’ l’annullamento, ne’ il risarcimento per i danni a loro eventualmente derivati.
La seconda problematica attiene al soggetto destinatario di suddetta azione, se debba considerarsi la societa’ o piuttosto i singoli soci componenti la maggioranza. Da un certo punto di vista appare piu’ logica la prima soluzione, in quanto la societa’ e’ considerata dall’ordinamento giuridico come persona giuridica autonoma, svincolata dai singoli membri che la compongono, la sua volonta’ non si identifica con la somma delle volonta’ dei soci, ma, in base al principio maggioritario, coincide con quella della maggioranza. Essendo quindi ritenuta un autonomo centro d’imputazione di interessi, potrebbe essere vista come destinataria di un’eventuale azione di risarcimento.
Non puo’ tuttavia escludersi una responsabilita’ propria dei soci di maggioranza, specie nel caso in cui sia intervenuta una sentenza di annullamento della delibera viziata. In questo caso si delinea la rottura del rapporto d’immedesimazione organica, dal quale consegue una responsabilita’ personale e solidale dei soci di maggioranza, che e’ svincolata dalla responsabilita’ della societa’.
E’ necessario pero’ che una sentenza di annullamento della delibera vi sia stata, poiche’ in mancanza l’atto causativo del danno e’ da considerarsi legittimo e, quindi la stessa azione di risarcimento non trova fondamento. Infatti l’inoppugnabilita’ della delibera costituisce impedimento all’accoglimento dell’azione di risarcimento sia nei confronti della societa’, sia nei confronti dei soci di maggioranza, dato che la delibera inoppugnabile e’ atto della societa’ che si riconduce al contempo alla minoranza ed alla maggioranza.
Tutte queste considerazioni dimostrano come la tematica sia estremamente delicata, soprattutto in conseguenza del fatto che non esiste una casistica giurisprudenziale in materia, poiche’ la Cassazione si e’ sempre mostrata contraria ad ammettere in linea di principio che possano essere risarciti danni derivanti da situazioni diverse dai diritti soggettivi, ma comunque tutelate dall’ordinamento giuridico in maniera indiretta.
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