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EDITORIAL: Lesione di interessi legittimi di diritto privato; Analisi e tutela delle singole figure (segue: clausole vessatorie, Atti di emulazione, Il lavoro, Perdita di chance …)

10 Luglio 2002 Commenta

Clausole vessatorie e tutela del consumatore (artt.1469 bis – 1469 sexies).

Con la legge 6 febbraio 1996, n°52 (art.25), attuativa della direttiva comunitaria (del Consiglio) n°93/13, del 5 aprile 1993, “concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori”, e’ stato introdotto un nuovo capo (il capo XIV bis del libro quarto delle obbligazioni) dedicato ai contratti con i consumatori ed in particolare delle cd. clausole vessatorie, cioe’ quelle clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

L’esigenza di tutela nei confronti del consumatore trae origine dalla sua posizione d’inferiorita’ rispetto al professionista, di modo che tutte le clausole considerate vessatorie ai sensi degli art.1469 bis e 1469 ter c.c. sono inefficaci, mentre il contratto rimane efficace per il resto. L’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e puo’ essere rilevata d’ufficio dal giudice (art.1469 quinquies c.c.). Inoltre (comma 1 dell’art.1469 sexies) sono legittimate ad agire anche le associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e le camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura.

Tutta questa materia e’ stata peraltro oggetto di una recente legge (legge 30 luglio 1998, n.281, “Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”) in cui sono state puntualmente indicate le posizioni ed i diritti fondamentali attribuite ai consumatori, e dove e’ stato riconosciuto un grosso rilievo, anche e soprattutto dal punto di vista processuale, alle associazioni dei consumatori e degli utenti di servizi,  le quali possono agire direttamente per la tutela degli interessi collettivi, richiedendo sia di inibire gli atti ed i comportamenti lesivi, sia di adottare misure idonee a correggere o ad eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.

Si puo’ ravvisare nella posizione dell’aderente alle condizioni generali di contratto una posizione di interesse legittimo, tanto che la tutela prevista non e’ di esclusivo appannaggio del singolo, ma la legittimazione e’ estesa a chiunque abbia un interesse legittimo. In questo modo si spiega il riferimento alle associazioni di consumatori e di professionisti ed alle camere di commercio, in quanto e’ configurabile un interesse generale contro un abuso del potere economico, che produce conseguenze, non solo nei confronti del singolo contraente pregiudicato, ma si ripercuote anche su tutta la collettivita’.

Va sottolineato come il legislatore con questa disciplina si sia preoccupato di controbilanciare una situazione contrattuale squilibrata a causa dell’inserimento di clausole abusive, ma non si sia curato dei danni eventualmente prodottisi nella sfera del consumatore e, tanto meno, della questione della risarcibilita’ di tali danni.

Atti di emulazione (art.833 c.c.).

Gli atti di emulazione di cui all’art.833 c.c. sono quegli atti o comportamenti posti in essere dal proprietario che “non abbia altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. Per la loro realizzazione non e’ sufficiente che il comportamento del soggetto attivo (il proprietario) arrechi nocumento ad altri, occorre altresi’ che il fatto sia posto in essere per tale esclusivo intento, senza essere sorretto da alcuna giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico o sociale. L’atto emulativo non e’ configurabile qualora il proprietario realizzi comportamenti che, pur essendo contrari all’ordinamento e pur procurando molestia o nocumento ad altri, siano soggettivamente intesi a procurargli un vantaggio .

Devono cosi’ ricorrere un elemento oggettivo, la molestia subita dal terzo in conseguenza dell’esercizio del potere da parte del proprietario, ed un elemento soggettivo, l’animus nocendi, cioe’ l’esclusivo intento del titolare del diritto di recare pregiudizio ad altri. Tale animus non e’ ravvisabile laddove vi sia un interesse per il proprietario, interesse che puo’ essere economico ed attuale, ma anche futuro ed ipotetico e parimenti non economico, ma di carattere estetico o spirituale, puo’ cioe’ riferirsi a tutte quelle attivita’ che siano ritenute idonee a provocare al titolare del diritto un’attivita’ certa, non necessariamente qualificabile in termini monetari.

Sulla questione degli atti emulativi la giurisprudenza e’ sempre stata molto cauta e si e’ attenuta ad un tipo d’interpretazione restrittivo, mentre in dottrina si sono contrapposti diversi orientamenti dottrinari, tra cui Zanobini , il quale, occupandosi della posizione e del tipo di tutela prevista per il danneggiato, evidenzia come dalla disposizione in esame derivi un dovere a carico di un soggetto (il proprietario) al quale non corrisponde un diritto soggettivo. L’autore sostiene che “all’esercizio di un diritto da parte di un soggetto non puo’ opporsi, da parte di un soggetto diverso, un altro diritto, ma solo un interesse, l’interesse che il primo si astenga dall’esercizio del suo diritto. Non si puo’ pensare che tale interesse siasi trasformato in un diritto soggettivo solo in conseguenza di una limitazione imposta al titolare del diritto opposto, perche’ si tratta di una limitazione che non tocca l’estensione del diritto, ma solo la liberta’ del suo esercizio”. Si desume che anche in questo caso e’ possibile configurare la fattispecie degli interessi legittimi, in quanto “il privato che dall’esercizio di un altrui diritto riceva danno o molestia, non puo’ opporre un diritto proprio, ma solo un interesse che riceve indiretta protezione dalla norma che vieta il detto esercizio quando non sia rivolta a nessuno scopo utile per il soggetto che agisce”.

Tale orientamento e’ stato contestato dalla Bigliazzi Geri , la quale ritiene che “la norma in questione prospetta l’esistenza di un limite interno del diritto di proprieta’, un limite cioe’ connaturato alla stessa essenza di questo, in quanto situazione oggettiva tutelata e costituzionalmente garantita. Tale limite, quindi, riguarda l’estensione del diritto e provoca l’impossibilita’ (giuridica) di un comportamento da parte del proprietario, cioe’ di quel comportamento che va al di la’ del limite che esso segna. Ed e’ quanto basta ad escludere l’esistenza dell’interesse legittimo”.

Puo’ invece ritenersi che la norma di cui all’art.833 c.c. sia espressione di un principio generale, che trova un riconoscimento a livello costituzionale con gli artt.2, 41 (2° comma), 42 (2° comma) secondo cui qualsiasi atto, privo di utilita’ sociale, volto all’esclusivo fine di nuocere, e’ ingiusto ed il danno da esso prodotto deve essere risarcito. Quest’interpretazione rappresenta un altro elemento di apertura sull’ingiustizia del danno di cui all’art.2043 c.c., che nell’ordinamento
dei privati non appare essere riconducibile all’esclusiva lesione di diritti soggettivi assoluti.

Il lavoro.

Il maggior riscontro alla tematica in esame si trova in materia di lavoro privato, che rappresenta l’unico ambito in cui espressamente la giurisprudenza ammette l’esistenza e la tutela di interessi legittimi, ed in maniera indiretta ne prevede il risarcimento dei danni.

Al raggiungimento di tali conclusioni ha contribuito l’elaborazione dottrinale del concetto di potere privato come potere preminente collegato a fenomeni di collettivita’, con la connessa esigenza della regolazione dell’esercizio di esso a tutela di coloro che vi sono sottoposti. Nel quadro di tale elaborazione e’ stato costante e concorde il riferimento a poteri imprenditoriali come un caso emblematico di potere privato ed e’ stato esplicito da parte di alcuni autori il richiamo alla nozione di interesse legittimo come elemento essenziale di una strumentazione protettiva dell’interesse dei soggetti passivi del potere, strumentazione attuata appunto mediante l’assoggettamento dell’esercizio di questo a regole e mediante l’attribuzione ai soggetti passivi di un controllo, suscettivo di provocare un sindacato giurisdizionale, sull’osservanza, nell’esercizio del potere, delle regole in parola  .

Importante, in quanto segna un’inversione di tendenza dell’orientamento giurisprudenziale, e’ la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 2 novembre 1979, n°5688  , con la quale si stabilisce che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la cognizione sulle posizioni di interesse legittimo configurabili nel rapporto di lavoro privato.

L’imprenditore, e piu’ in generale il datore di lavoro, e’ titolare di poteri discrezionali nei confronti dei propri dipendenti, poteri che attengono alla materia disciplinare e a quella delle promozioni, cioe’ alla progressione intesa come accesso a qualifiche superiori. Suddetti poteri gli derivano dall’organizzazione e dalla assunzione del rischi e della responsabilita’ per il funzionamento dell’attivita’ economica cui e’ a capo.

Queste materie sono regolate da una pluralita’ di leggi (15 luglio 1966, n°604, 20 maggio 1970, n°300) che fissano i criteri che il datore di lavoro deve rispettare nell’esercizio dei poteri, ma cio’ non esclude che costui goda di un certo margine di discrezionalita’. Ed e’ proprio per tutelare i lavoratori dagli abusi del datore di lavoro che il giudice ordinario e’ competente a sindacare sul corretto esercizio del potere.

Nella medesima pronuncia le Sezioni Unite evidenziano come la disciplina del rapporto di lavoro privato presenti notevoli punti di contatto con la disciplina prevista per il pubblico impiego, cosi’ che il sindacato del giudice ordinario avente ad oggetto l’esercizio di un potere discrezionale, non puo’ divergere da quello del giudice amministrativo sull’esercizio del potere pubblico, ricomprendendo pertanto la figura dell’eccesso di potere (arbitrarieta’ o iniquita’ manifesta). In tal caso la sanzione prevista in ambito amministrativo e’ costituita dall’annullamento del provvedimento attraverso il quale tale abuso si e’ concretizzato, mentre nel diritto privato, non sempre il sindacato sull’esercizio del potere puo’ realizzarsi mediante la misura dell’annullamento dell’atto, ma spesso si realizza attraverso misure quali la pronuncia di nullita’ e la condanna al risarcimento del danno.

Secondo alcuni autori   questa sentenza rappresenta un primo timido passo da parte della Cassazione verso il riconoscimento della risarcibilita’ dei danni da lesione di interessi legittimi. La problematica e’ peraltro destinata ad ampliarsi a seguito della trasformazione del rapporto di pubblico impiego in rapporto di impiego privato (legge delega 23 ottobre 1992, n°421, e D.Lgs.3 febbraio 1993, n°29, parzialmente modificato dal D.Lgs.31 marzo 1998, n°80, che all’art.29 devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, salve le eccezioni contenute nello stesso articolo ).

La cosiddetta perdita di chance.

Per perdita di chance deve intendersi la perdita della possibilita’ o probabilita’ di ottenere un vantaggio, o meglio la vanificazione a causa del fatto di un terzo della possibilita’, concretamente sussistente al momento dell’evento lesivo, di conseguire un risultato utile. Il danneggiato quindi non perde un risultato favorevole gia’ acquisito, bensi’ la possibilita’ di conseguirlo  .

In questo caso la giurisprudenza ha ammesso il risarcimento dei danni subiti da un soggetto (il lavoratore) per il comportamento di un terzo (il datore di lavoro) che abbia determinato la perdita di chance (come nel caso di un concorso interno in cui i punteggi sono stati attribuiti in maniera discrezionale ). E’ necessario, affinche’ tale risarcimento venga concesso, che sia effettivamente configurabile un danno. Di danno si puo’ parlare solo se le chances perdute siano superiori ad un ipotetico 50 %, ovvero siano ragionevoli nel senso che il risultato sperato si sarebbe potuto realizzare con buone probabilita’  .

Anche nel caso di perdita di chance, cui consegue un danno derivante dall’abusivo esercizio del potere discrezionale del datore di lavoro, e’ configurabile una posizione del danneggiato meritevole di tutela, ma che non puo’ essere considerata diritto soggettivo, ma come un interesse legittimo vero e proprio (come nel caso del concorso, il lavoratore rivendica che le procedure vengano poste in essere correttamente, in modo da veder garantita la possibilita’ di venire assunto o di conseguire la promozione ).

La giurisprudenza in materia di lavoro rappresenta un’apertura alla configurabilita’ degli interessi legittimi ed al loro risarcimento, tanto piu’ che le Sezioni Unite stabiliscono che “negare la configurabilita’ di situazioni del tipo dell’interesse legittimo significherebbe ignorare l’assetto che il nostro ordinamento da’ a taluni fenomeni di organizzazione di collettivita’ (famiglia, comunioni, fatti associativi) e cosi’ lasciare notevoli vuoti di tutela”. 

Recesso per giusta causa (art.2119 c.c.).

Un discorso analogo puo’ essere fatto in riferimento all’art.2119 c.c., il quale si occupa del recesso per giusta causa nel rapporto di lavoro, sia a tempo determinato, sia a tempo indeterminato.

Tutta la materia sui licenziamenti individuali e’ stata regolata in maniera dettagliata da una serie di leggi (legge 15 luglio 1966, n°604; legge 20 maggio 1970, n°300; legge 11 maggio 1990, n°108), attraverso le quali si e’ cercato di circoscrivere il piu’ possibile il potere discrezionale del datore di lavoro, per evitare che questi ne faccia un uso arbitrario ed ingiustificato.

E’ considerato legittimo il recesso ad nutum del datore di lavoro quando vi sia una giusta causa, consistente in un qualsiasi fatto capace di far venire meno quella fiducia che e’ alla base della collaborazione del rapporto di lavoro, tale da determinare una impossibilita’ alla prosecuzione del rapporto stesso. Assumono percio’ rilevanza quei fatti della vita extra lavorativa che, in base ad una valutazione non arbitraria, facciano ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto; mentre non rilevano i comportamenti da questi tenuti nella sua vita privata, e che comportano solo un giudizio soggettivo di maggiore o minore stima del datore di lavoro nei suoi confronti  . E’ necessario che il venire meno della fiducia sia riferito a concreti fatti addebitati al dipendente e dimostrati nella loro oggettiva sussistenza, non bastando un mero apprezzamento soggettivo del datore di lavoro  . Non rileva invece che si tratti di una mancanza isolata del dipendente, dato che nessuna norma di legge o principio generale impongono al datore di lavoro di rinviare l’applicazione di tale sanzione al verificarsi eventuale o futuro di un altro episodio, in mancanza del quale la fiducia debba ritenersi ricostituita  .

Anche qui s’inquadrano gli estremi dell’interesse legittimo del lavoratore tutte le volte in cui il datore di lavoro, esorbitando dai parametri attribuitigli, agisca senza legittimo motivo; in realta’ la configurazione di suddetti interessi non e’ agevolmente riscontrabile, in quanto tutta la materia e’ stata oggetto di una dettagliata e specifica regolamentazione.


Mansioni del lavoratore (art.2103 c.c.).

Le osservazioni prima fatte valgono anche in riferimento allo ius variandi del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. L’art.2103 c.c. stabilisce che il datore di lavoro, nell’organizzazione dell’attivita’ lavorativa, non puo’ prescindere dalle mansioni per le quali il dipendente sia stato assunto o cui sia stato successivamente assegnato, a meno che non ricorrano “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, di modo che l’imprenditore, neanche in questo caso, gode di un effettivo e completo potere discrezionale, deve sempre agire nel rispetto degli interessi dell’impresa e di quelli del lavoratore.

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