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EDITORIAL: Il Trust – La pronunzia del 13 aprile 1984; Muta la prospettiva

24 Settembre 2002 Commenta

La pronunzia del 13 aprile 1984


Una cittadina inglese aveva istituito un trust for sale testamentario, nominando un trustee australiano per l’amministrazione e alienazione al momento opportuno dei beni del trust fund, tra i quali immobili ubicati in Italia. Dal disponente erano stati designati i figli quali beneficiari del reddito fino alla maggiore eta’ e poi, una volta maggiorenni, quali beneficiari finali del ricavato. Il trustee, in sede di volontaria giurisdizione, richiese la autorizzazione per la vendita di un immobile sito in Italia ex artt. 703 c.c. e 747 c.p.c. .
Il giudice ritenne applicabili gli artt. 22 (competenza territoriale del giudice italiano) e 23 (successione mortis causa regolata dalla legge inglese) delle preleggi come nella decisione di Oristano.

Il Decreto del 1984 affermava la compatibilita’ del trust con i principi del nostro ordinamento premesso che “l’executor trustee ha acquistato (…) la proprieta’ di tutti i beni”[1] ed escludeva la necessita’ dell’autorizzazione, poiche’ il Tribunale “visto l’art.747, si dichiara[va] incompetente ad emanare provvedimenti autorizzativi a vendere, essendo ormai proprietario, dei beni immobili di cui al ricorso, l’executor trustee”. La struttura del trust veniva ricondotta allo “schema di un negozio fiduciario[2], e precisamente quello della fiducia cum amico (si veda in proposito anche un’altra figura molto simile prevista dal nostro c.c.: art.627, fiducia testamentaria; nella fiducia cum amico vi e’ una vera e propria obbligazione per l’amico, nel caso previsto dall’art.627 vi e’ solo l’adempimento di una obbligazione naturale)”.

Con la pronuncia di Casale si e’ avuto, dunque, un riconoscimento a pieno titolo di un trust estero in Italia.

Muta la prospettiva


Come si e’ detto[3], la tesi che s’incentra sulla realita’ del diritto del beneficiario, prima della ratifica della Convenzione dell’Aja, ha condotto all’affermazione dell’incompatibilita’ del trust con un ordinamento di tipo civilistico come il nostro, retto dai principi dell’unicita’ e dell’assolutezza del diritto di proprieta’ e del numero chiuso dei diritti reali. Questo indirizzo gia’ nel 1984 veniva smentito dalla pronunzia esaminata, ma dopo la ratifica divenne del tutto insostenibile, tuttavia ha ispirato quella parte della dottrina che ancora oggi si schiera contro la riconoscibilita’ dei trusts “interni”. In effetti la dottrina si e’ interrogata se la Convenzione abbia in qualche modo “introdotto” il trust nel nostro ordinamento e se sia consentito costituire trusts “domestici”. “Sul primo punto il dibattito e’ ormai approdato a conclusioni di grande chiarezza, nel senso che la Convenzione non introduce nel nostro ordinamento un nuovo istituto[4], ma consente il riconoscimento di un trust regolato da una legge straniera che lo conosca. Sembra ormai superata in dottrina ogni incertezza anche circa la presunta contrarieta’ del trust a principi di ordine pubblico, quali il numero chiuso dei diritti reali, poiche’ la proprieta’ dei beni e’ unica in capo al trustee. Sul secondo punto va sottolineato come, inizialmente, i civilisti fossero istintivamente portati ad escludere la possibilita’ di un trust “domestico”, ma via via che le iniziative di riflessione hanno portato ad un approfondimento della tematica, sono aumentati i sostenitori di questa ipotesi”[5].

La Convenzione introduce norme internazionalprivatistiche uniformi volte alla individuazione della “legge[6] applicabile al trust” (art.1). Al contempo e’ estremamente rilevante notare come molti Autori siano convinti che la Convenzione in esame preveda, insieme alle norme uniformi di diritto internazionale privato, anche “una norma di diritto sostanziale uniforme enunciata nell’art. 11 par. 1, da interpretarsi in stretto collegamento con l’art. 2, in virtu’ della quale e’ indicato il contenuto minimo del riconoscimento degli effetti del trust in funzione di quanto disposto dalla sua legge regolatrice. [Nella Convenzione], infatti, si disciplinano direttamente ed immediatamente gli effetti minimi che, in modo uniforme, deve produrre il riconoscimento del trust in ogni ordinamento degli Stati contraenti. Pertanto, al contenuto di tale disciplina sostanziale uniforme, caratterizzata dall’obbligo di riconoscere effetti segregativi al trust relativamente ai beni in esso ricompresi rispetto alla residua parte del patrimonio del settlor ed agli altri beni del trustee, gli Stati contraenti sono vincolati e da tale contenuto possono prescindere nel solo eccezionale caso previsto all’art. 13: e cioe’, con le modalita’ ed i criteri in tale norma previsti, allorche’ si tratti di un cosiddetto trust interno ad uno Stato il cui ordinamento non prevede tali effetti. (…) Si vuole (…) porre in rilievo (…) l’effetto sostanziale diretto ed immediato che la combinazione delle norme di cui agli art. 2 e 11 della convenzione produce negli ordinamenti degli Stati contraenti ed in particolare in quegli ordinamenti di “civil law” che non conoscono l’istituto del trust ed il suo effetto “segregativo” sul patrimonio ad esso attribuito. Si tratta, cosi’, della legittimazione e del riconoscimento degli effetti del trasferimento dei beni al trustee da parte del settlor, impedendone, al tempo stesso, la confusione con il patrimonio del trustee”[7]. Invece il secondo paragrafo dell’art.11 elenca gli effetti meramente eventuali del riconoscimento, che si produrranno solo in quanto previsti dalla legge regolatrice del trust: la dottrina definisce tale disposizione come “norma di conflitto sull’ampiezza minima che l’applicazione della legge straniera deve ricevere nel foro”[8].
E’ da tenere in considerazione che, per alcuni, “il nucleo della Convenzione non e’ costituito dalla predisposizione di norme di conflitto uniforme, quanto dal riconoscimento da parte di un paese firmatario degli effetti di un meccanismo giuridico ancorche’ esso sia estraneo al suo sistema tradizionale”[9], cosi’ la Convenzione acquisterebbe significato solo se ratificata da un paese non trust. Per Gambaro “ parte rilevante della Convenzione e’ in realta’ quella relativa al riconoscimento e non certo quella relativa alle regole di conflitto”, questo porta all’affermazione che per i paesi che gia’ conoscono il trust la Convenzione non “costituisce fonte di novita’ giuridiche degne di rilievo”.

Non bisogna, pero’, dimenticare che la prima ratifica in ordine di tempo e’ stata quella depositata in data 17.11.1989 dal Regno Unito[10] e che, contrariamente a Gambaro, altri Autori[11] sono convinti che l’avvenuta introduzione di norme internazionalprivatistiche in tema di trust sia stata di grande utilita’ proprio per gli Stati di common law aderenti, viste le scarse disposizioni normative ed i precedenti giudiziari contraddittori.

Non v’e’ dubbio che la Convenzione risponda ad esigenze “commerciali” sia dei Paesi di common law, sia dei Paesi di civil law, essendo numerosi gli assetti patrimoniali regolati mediante trust ed essendo spesso la localizzazione relativa a Stati che non prevedono tale “istituto”. I Paesi i cui ordinamenti prevedono il trust hanno tutto l’interesse ad “esportarne” la validita’ e l’efficacia.
Non si rintraccia disaccordo in dottrina nell’individuare una specifica funzione della Convenzione: garantire lo sviluppo del trust, mediante la fissazione di norme internazionali di diritto privato volte ad introdurre criteri univoci per il riconoscimento dei trusts di diritto estero, dirette ad uniformare le norme interne di conflitto che stabiliscono se il giudice debba applicare le disposizioni della “legge regolatrice” o dell’ordinamento d’appartenenza o di un ordinamento terzo. Si ritiene che la Convenzione abbia un’efficacia universale, ossia non subordinata all’applicazione della legge di uno degli Stati contraenti[12]. Decisamente piu’ discussa e’ la questione se sia, quella del 1985, una convenzione di diritto uniforme che introduce norme materiali (sarebbe il caso suddetto dell’art.11 par.1) negli ordinamenti degli Stati contraenti, al fine di unificare la regolamentazione e la disciplina del trust.
E’ doveroso ricordare che la Convenzione di Roma sulle Obbligazioni Contrattuali del 19.6.1980 non si applica ai trusts (costituzione, rapporti tra settlor, trustee e beneficiary) per espressa previsione dell’art.2 lett.g: solo le obbligazioni contrattuali, contratte dal trustee nell’esercizio del suo ufficio, rientrano nella previsione della Convenzione di Roma. Cio’ coerentemente alla natura non contrattuale del trust.

Per poter studiare la posizione del beneficiario nel nostro ordinamento e’ indispensabile affrontare la portata dell’entrata in vigore della Convenzione.

[1] Tribunale Casale Monferrato (decr.) 13.4.1984, in Rivista del Notariato, 1985, 240-241.
[2] La sentenza della Corte di Cassazione 146/1971 afferma: “il negozio fiduciario, pur essendo strumentalmente diretto al raggiungimento di uno scopo diverso da quello tipico, non è un negozio simulato o meramente apparente, ma è un negozio effettivamente voluto, ossia reale e produttivo degli effetti che gli sono propri, appunto come mezzo idoneo a far conseguire al fiduciante il fine ultimo propostosi, alla realizzazione del quale è tenuto il fiduciario”.
[3] Cfr. pag. 6
[4] Tuttavia si rinvia alla tesi del tutto minoritaria di cui alle pagg.73-74.
[5] Piccoli Il trust: questo (sempre meno) sconosciuto, in Notariato, 1996, 391.
[6] “Ai sensi della Convenzione, il termine legge indica le norme di legge in vigore in uno Stato, ad eccezione delle regole in conflitto di legge”(art.17), quindi, quando la Convenzione fa riferimento alla legge regolatrice del trust deve intendersi limitato alle sole norme di diritto materiale vigenti nello Stato.
[7] Carbone Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, in Trusts e attività fiduciarie, 2000, 145-154.
[8] Lupoi Trusts, Milano, 1997, 444-446.
[9] Gambaro Voce “trusts” in Digesto-Discipline Privatistiche, sezione civile, vol. XIX,Torino, 1999, 464.
[10] Il Regno Unito ha effettuato la ratifica con estensione a varie colonie e territori, fra i quali figurano Bermuda, le Isole Vergini Britanniche, l’Isola di Man, Jersey, Gibilterra ed Hong Kong, e mediante una legge di esecuzione, il Trust Recognition Act del 1987, che non riproduce però gli artt. 13,16 paragrafi secondo e terzo, 19, 20 e 21; ad essa è seguito il deposito in data 21.2.1990 della ratifica dell’Italia (che l’ha effettuata con la legge 16.10.1989, n. 364) e poi quello della ratifica dell’Australia in data 17.10.1991. La Convenzione è stata poi ratificata, oltre che da Malta mediante adesione, anche dal Canada per quasi tutti i suoi Stati Federati (in data 20.10.1992, con vigenza dal 1.1.1993) e dai Paesi Bassi (in data 28.11.1995, con vigenza dal 1.2.1986). Questi ultimi hanno altresì emanato una legge in materia di trusts datata 4.10.1995 e detta WCT (Wet Conflictenrecht Trusts), la cui necessità era avvertita a causa della presenza, nel codice civile olandese, dell’art. 3.84, norma per la quale è nullo l’atto giuridico non avente lo scopo di far entrare il bene nel patrimonio di colui che lo riceve. L’ultima è la ratifica del Lussemburgo.
[11] Lupoi Trusts, Milano, 1997, 197-203 e 415-416; Dyer-Van Loon Reports on trusts and analogous institutions, in Actes et documents de la Quinziéme session, tome II, Trust-Loi applicable et reconnaisance, L’Aja, 1985, 10ss..
[12]Osserva Canessa in I trusts interni. Ammissibilità del trust e applicazioni pratiche nell’ordinamento italiano, Milano, 2001, 16 che “l’effetto della Convenzione è quindi quello di impegnare gli Stati firmatari al riconoscimento automatico degli effetti del trust costituito secondo le leggi di un Paese, anche non parte della Convenzione stessa, che conosce una disciplina sostanziale di questo istituto”; comunque l’art.21 permette agli Stati contraenti di riservarsi il diritto di applicare le disposizioni relative al riconoscimento ai soli trusts la cui validità è disciplinata dalla legge di un altro Stato contraente (la riserva non è stata posta dall’Italia).

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