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EDITORIAL: La responsabilità civile del medico – Segue. Il caso del chirurgo estetico

18 Settembre 2002 Commenta

Le difficoltà connesse all’adattamento rigido della distinzione tradizionale tra obbligazioni <<di mezzi>> e obbligazioni di <<risultato>>, già affrontata, si avvertono forse con maggiore intensità quando si pone attenzione alla particolare cura che la giurisprudenza ha riservato a particolari ipotesi di responsabilità professionali sanitarie. Mi riferisco in particolare alle prestazioni del chirurgo estetico e del dentista.

Quale che sia la scelta dell’interprete, tra le due impostazioni sopra ricordate -conferma o superamento della distinzione tradizionale- le prestazioni professionali del chirurgo estetico -ma anche del dentista- sono rivisitate, soprattutto dalla giurisprudenza, nel senso della rottura con l’adesione alla categoria delle obbligazioni <<di mezzi>>, rinvenendo al contrario un’obbligazione <<di risultato>> a disciplina dell’attività professionale in oggetto.
Venendo ora alla disamina della prima delle due figure professionali sanitarie, quella del chirurgo estetico, si è autorevolmente sottolineata  l’inutilità della differenziazione, tra sanitari in genere e chirurghi estetici, sostenendosi che non sarebbe più opportuna alla luce della rinnovata concezione della salute, intesa anche nelle accezioni comprensive della soddisfazione psicologica derivante dall’accettazione del proprio aspetto fisico.  Invero, ad una differenziazione di questo
genere si oppone anche una valutazione d’ordine medico legale, sulla base della quale non appare corretto sostenere che, nella specialità in esame, a fronte di una diligente prestazione del chirurgo, debbano conseguentemente conseguirsi risultati estetici soddisfacenti, ben potendosi produrre risultati di segno opposto, o comunque non soddisfacenti, legati a fattori fisiologici o patologici peculiari al paziente, non sempre prevedibili.
Sarebbe pertanto eccessivamente penalizzante per il chirurgo estetico valutare  la  sua  responsabilità  secondo  i  canoni  relativi alle obbligazioni  <<di risultato>>,  ben  potendosi semmai  puntare  l’attenzione -coerentemente con quanto detto in punto di superamento della distinzione in oggetto- sul diligente adempimento del dovere d’informazione del paziente, gravante sul chirurgo estetico, come sugli altri sanitari, fondamentale anche in questa specialità al fine di determinare le condizioni ideali per una partecipazione cosciente del paziente e per la prestazione di un consenso all’intervento od alle terapie altrettanto pieno e cosciente.

Sembra in effetti più corretto, spostare l’attenzione dall’inquadramento tradizionale della prestazione in oggetto, vuoi nelle obbligazioni <<di risultato>> vuoi in quelle <<di mezzi>>, ad un piano diverso che privilegi la fase della definizione del contenuto della prestazione del chirurgo estetico, data la delicatezza particolare che in questa specialità assume anche la prestazione del consenso da parte del paziente.

E’ il chiarimento del contenuto della prestazione , in sede contrattuale, da farsi per iscritto, che formalizzerebbe, disegnandone i confini, ad un tempo e l’informazione sul trattamento e i limiti di responsabilità del chirurgo che si impegni ad una determinata opera.

La circostanza che la peculiarità dell’intervento del chirurgo estetico sottende, legata soprattutto alla finalità non meramente necessaria alla salute bensì tesa ad un miglioramento estetico, ha fatto da più parti sostenere  che il consenso informato dovrebbe, in questo caso, essere considerato in modo più attento e rigoroso, comunque diverso .
Ma a questa posizione si oppone una considerazione di non poco conto: discriminare la specialità in esame sostenendo la necessità di valutare più rigorosamente la fase dell’informazione e della prestazione del consenso, significherebbe introdurre, all’interno della scienza medica, una differenziazione che non trova specifiche ragioni deontologiche per essere sostenuta. Come si potrebbe infatti sostenere che un paziente che debba sottoporsi ad un intervento a cuore aperto abbia diritto ad un’informazione meno accurata  di quella alla quale avrebbe invece diritto il paziente che si sottoponesse ad una plastica facciale ?
Ma l’elaborazione giurisprudenziale non si è fermata a questo, creando, con non poche perplessità tra gli stessi giudici della Suprema Corte , un’ennesima differenziazione all’interno della categoria delle prestazioni poste in essere dal chirurgo estetico, ossia quella tra interventi di chirurgia estetica <<ordinari>>, ed interventi di chirurgia estetica c.d. ricostruttivi . Questi ultimi sarebbero interventi riferibili a casi, come quello trattato dalla sentenza in commento, nei quali sia stato il paziente stesso a procurarsi volontariamente alcune alterazioni -nel caso di specie tatuaggi osceni e ripugnanti- per poi volerne conseguire l’eliminazione. Di fronte a casi simili il contenuto dell’obbligo d’informazione sarebbe diverso rispetto a quello richiesto, al contrario, nei casi di chirurgia estetica <<ordinaria>>, dovendosi nel primo caso adempiere all’obbligo d’informazione del paziente in modo meno rigoroso e limitato agli esiti eventuali che potrebbero rendere vana l’operazione, e non dovendo il medico spingersi oltre nell’informazione diligente al paziente.

Ebbene, a chi scrive questa conclusione sembra inaccettabile, introducendo una distinzione tra pazienti di “categoria superiore” e pazienti “di categoria inferiore” che dovrebbe consentire al chirurgo una modulazione del proprio dovere d’informazione piena del paziente assolutamente discrezionale, dando accesso di fatto ad un’alterazione del contenuto della sua prestazione,  che  parrebbe  ricollegato  ad una valutazione del medico stesso sulla identificazione del tipo d’intervento -ricostruttivo/non ricostruttivo- che non appare fondata.

Sembra, in conclusione, che la strada intrapresa, caratterizzata dalla rivisitazione  della distinzione tradizionale tra  prestazioni <<di mezzo>> e prestazioni di <<risultato>> possa fornire fecondi apporti anche nei settori che, in virtù di tale differenziazione, hanno subito maggiormente le sue estremizzazioni, spostando piuttosto l’attenzione sulla corretta e completa informazione del paziente e sulla prestazione cosciente del consenso al trattamento al quale si deve sottoporre;  su  tali premesse si potrà definire a quale opus il sanitario è chiamato e quali siano i confini di responsabilità che l’obbligazione che ha assunto descrivono, senza fondare la qualità dell’informazione da fornire su differenti categorie di prestazioni, dando seguito a bizantine distinzioni, piuttosto sottolineando l’importanza di un’informazione sempre diligente quale contenuto indefettibile della prestazione del sanitario.

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