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EDITORIALE: L’uso dei mezzi aziendali per scopi personali

19 Novembre 2002 Commenta

Una recente ricerca dell’istituto demoscopico NOP commissionata da Surfcontrol (produttrice di software per il monitoraggio delle e-mail), rivela che scherzi volgari, messaggi razzisti e sessisti o messaggi dannosi per i rivali trovano nelle e-mail il proprio sfogo naturale. Forse proprio il ferreo divieto di usare i computer aziendali per scopi personali aumenta il brivido della trasgressione e spinge i ‘colletti bianchi’ britannici ad abbandonare il proprio fair play. I piu’ trasgressivi sembrano essere i londinesi e quelli di Manchester (36%), mentre i piu’ timorati sono gli abitanti di Liverpool (29%). Quanto al veleno delle e-mail dannose per i colleghi, il 58% dei londinesi ammette di non esitare a farne uso per avanzare nella carriera.

Dall’indagine statistica in argomento appare evidente che in Inghilterra esiste una disciplina molto severa nel caso di utilizzo da parte di un dipendente per scopi personali degli strumenti aziendali. In Italia, per la verita’, la situazione e’ sostanzialmente diversa in quanto manca una regolamentazione precisa e specialmente avuto riferimento alle nuove tecnologie, presenti ormai in qualunque azienda, la problematica sta divenendo particolarmente complessa.
In effetti in questo periodo la vigente legislazione non riesce a tenere il passo rispetto agli sviluppi della tecnologia ed in tale vuoto legislativo una qualsiasi condotta dell’azienda tendente al controllo del lavoratore si scontra inevitabilmente con lo statuto dei lavoratori risalente agli anni ’70 (legge n. 370 del 20 maggio 1970) e con la normativa posta a tutela della privacy (legge n. 675/96 e ss.). Ben consapevole di questa grave lacuna che potrebbe portare come logica conseguenza a degli abusi dei lavoratori nell’utilizzo dei mezzi aziendali, la Confindustria nel luglio dell’anno scorso ha affidato ad un gruppo di esperti, impegnati a rivalutare le norme dello Statuto dei lavoratori, il compito di stilare un’ipotesi di regolamento in materia di controlli delle aziende sui comportamenti dei dipendenti. In base al testo, presentato il 5 luglio 2001, i datori di lavoro potrebbero svolgere controlli tramite il server d’azienda sulle operazioni al computer del lavoratore: verificare che in orario di ufficio non si sia dedicato al trading on line, non abbia perso tempo in chat o bacheche elettroniche, non si sia registrato a siti i cui contenuti non siano legati all’attivita’ lavorativa. La violazione del comportamento comporterebbe inevitabili sanzioni disciplinari, civili e penali.

E’ chiaro che tale posizione e’ ovviamente di parte e difficilmente potra’ trovare il consenso delle organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori. Ma comunque il problema esiste e deve essere risolto.

Gia’ ancora prima della grande diffusione dell’ICT nelle aziende il problema si poneva specialmente per l’uso del telefono. L’unico riferimento normativo e’ rappresentato dall’art. 10 n. 5 Decreto del Ministero della Funzione Pubblica 31 marzo 1994, il quale recita: “Salvo casi eccezionali, dei quali informa il dirigente d’ufficio, il dipendente non utilizza le linee dell’ufficio per effettuare telefonate personali. Durante l’orario d’ufficio, il dipendente limita la ricezione di telefonate personali sulle linee telefoniche dell’ufficio al minimo indispensabile”.
Onestamente tale disposizione non puo’ da sola regolamentare una materia cosi’ delicata e difatti le pronuncie giurisprudenziali che si sono avute in materia, specie riguardo alla Pubblica Amministrazione, sono state poche e contraddittorie. Basti pensare alla sentenza della Cassazione – IV Penale 18 gennaio 2001, n. 353 che condanna il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che utilizzi in maniera non occasionale il telefono del proprio ufficio per fini personali per il reato di peculato, nella fattispecie il c.d. peculato d’uso ex art. 314 comma 2 c.p. ed alla sentenza, sempre della Corte di Cassazione – VI Penale del 5 marzo 2001 n. 9277 che analizzando la specifica fattispecie dell’utilizzo a fini personali da parte del P.U. o incaricato di un Pubblico Servizio dell’utenza telefonica intestata all’Amministrazione, ritiene che il fatto lesivo si sostanzi non nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto  fisico,  bensi’  nell’appropriazione  (conseguita attraverso tale  uso)  delle  energie  (entrate  a  far  parte  della  sfera  di disponibilita’    della    P.A.)   occorrenti  per  le  conversazioni telefoniche,    con   la  conseguenza  che  l’ipotesi  delittuosa  e’ inquadrabile  astrattamente nel ” peculato-ordinario” (art. 314 comma 1 cod. pen.), giacche’ le  energie  utilizzate  non  sono “immediatamente  restituibili  dopo  l’uso”  (e  lo  stesso eventuale rimborso  delle  somme  corrispondenti  all’entita’ dell’utilizzo non potrebbe  valere che come mero ristoro del danno arrecato). Tuttavia, ammette il Supremo Organo Giudicante che nel  concreto  assetto  dell’organizzazione della P.A., si verificano situazioni  eccezionali  –  previste e regolamentate dal Decreto del Ministro  per la Funzione pubblica del 31 marzo 1994 – in cui il pubblico dipendente  e’  autorizzato  ad  usare  …

il  telefono dell’ufficio per comunicazioni  private,  al  fine  di  evitare  che  si  determini un disagio  ancora  maggiore  per l’organizzazione del lavoro qualora il soggetto dovesse, per far fronte alla necessita’ di comunicare durante  l’espletamento del servizio, interromperlo o abbandonarlo; in tali situazioni eccezionali, di carattere sporadico ed episodico, l’utilizzo del telefono della P.A. per l’effettuazione di chiamate personali non puo’ considerarsi esulante del tutto dai fini istituzionali, e  pertanto  non  puo’  ritenersi realizzato l’evento appropriativo di cui al reato.

Appare, quindi, evidente l’atteggiamento piuttosto tollerante della giurisprudenza nei confronti del dipendente pubblico, che non puo’ non riflettersi anche nel settore privato.
Ma con l’avvento di Internet e delle reti aziendali l’attenzione maggiore si e’ spostata sull’utilizzo delle e-mail aziendali da parte dei lavoratori e naturalmente come rovescio della medaglia sulla legittimita’ dei controlli da parte del datore di lavoro.
La nostra Costituzione all’art. 15 sancisce il principio fondamentale dell’inviolabilita’ della corrispondenza sancendo che: la liberta’ e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.  La loro limitazione puo’ avvenire soltanto per atto motivato dell’autorita’ giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.
Ora in considerazione dell’ovvia equiparazione tra corrispondenza cartacea ed elettronica non ci sono molti dubbi sull’applicabilita’ di questo principio costituzionale anche alla posta elettronica. Ma quid juris nel caso in cui la casella di posta elettronica sia di proprieta’ dell’azienda?
Contrapposte in questo caso sono le posizioni dottrinarie. Si va dalla permissiva che prendendo spunto da alcune pronunce del Garante per la privacy ammette entro determinati limiti un controllo del datore di lavoro sulla casella di posta, previo avviso. In effetti il Garante non e’ stato molto chiaro in materia e nell’ultimo comunicato del 7 luglio 2001 pur riservandosi uno specifico provvedimento in materia, ha precisato che la legge sulla privacy (art. 43, comma 2) fa comunque salve le norme dello Statuto dei lavoratori che non consentono alcun controllo a distanza dei lavoratori, se non previa definizione di precisi limiti per l’azienda e dopo l’accordo con le rappresentanze sindacali.

Altra posizione dottrinaria e’ invece decisamente contraria a qualunque controllo del datore di lavoro in quanto ampiamente in violazione non solo della normativa costituzionale, ma anche …

dell’art. 8 dello Statuto del Lavoratori. Secondo tale corrente una casella di posta elettronica aziendale potrebbe ricevere anche messaggi di carattere personale, addirittura contenenti dati sensibili oppure opinioni espresse dal lavoratore.

Del tutto divergente e’ la posizione della giurisprudenza in materia, proprio ultimamente il 10 maggio 2002 il Tribunale di Milano con specifica ordinanza ha stabilito che il datore di lavoro non commette reato se controlla la casella di posta elettronica del dipendente in ferie ed ha disposto l’archiviazione di un procedimento penale promosso, su denuncia-querela della parte offesa, nei confronti del legale rappresentante di una societa’ e di un suo collaboratore, coinvolti in questa vicenda per aver letto quest’ultimo i  messaggi contenuti nella casella di posta elettronica di un dipendente, che in quel momento si trovava in ferie. Il reato ipotizzato era quello di violazione di corrispondenza (art. 616 c.p.). Il giudice ha ritenuto che tale reato non si era concretizzato, in quanto la casella di posta elettronica aziendale (riportante cioe’ il nome del server della societa’ titolare) costituisce un bene aziendale soggetto al legittimo controllo del datore di lavoro.
In un’altra recente sentenza la Corte di Cassazione ha stabilito la legittimita’ del controllo del tabulato delle telefonate effettuate dal dipendente con il telefono aziendale. In questo caso la questione non era penale, ma civile, riguardando la liceita’ della prova acquisita a seguito di particolari controlli dell’attivita’ del lavoratore.
La Suprema Corte, con sentenza n. 4746 del 3 aprile 2002, ha stabilito che “Ai fini dell’operativita’ del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori previsto dall’art. 4 l. n. 300 citata, e’ necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attivita’ lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd.controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate, o, appunto, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate”. Questa pronuncia potrebbe essere estesa anche alla posta elettronica anche se, onestamente, rimangono forti perplessita’.

Resta il fatto che e’ ormai inevitabile una regolamentazione della materia che puo’ essere lasciata all’autonomia delle parti sociali attraverso la predisposizione di codici di comportamento da rispettare nell’esercizio dell’attivita’ lavorativa.

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