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EDITORIALE: La responsabilità civile tra coniugi. Lei, lui e Il danno

11 Dicembre 2002 Commenta

SOMMARIO: 1. La vicenda all’origine base della sentenza milanese.  – 2.  I termini della questione. – 3. Problemi  da affrontare. – 4.  Prospettive esistenziali nell’area “eso-familiare”.  –  5. Orientamenti giurisprudenziali.   –  6. Nozione di danno esistenziale.  –  7. I torti “endo-familiari”. –  8.  Normativa penale e sovranita’ della  lex Aquilia. – 9.   Pluralita’  di tutele  in ambito privatistico: concorso della r.c. con altri rimedi. –  10. L’art. 2043 c.c. come clausola generale.  – 11.  Addebito  della separazione e  condanna risarcitoria.  –  12.  Tipologia dei  pregiudizi interconiugali. – 13.  Gli obblighi fra marito e moglie.  – 14.  Danni e doveri matrimoniali. – 15.  Giuridicita’ dei riferimenti di  cui all’art. 143 c.c.   –  16.  Natura  della responsabilita’ entro la cerchia domestica. – 17. Profili funzionali. –   18.  Il bilanciamento degli interessi. –  19. Criteri di imputazione e aree della responsabilita’. – 20. Conclusioni.    


1.  La vicenda all’origine base della sentenza milanese.
Difficile sapere –  nella storia di una coppia –  come  mai il partner nel quale si  era riposta la piu’ totale fiducia possa  in certi casi trasformarsi,  per qualche tempo  o definitivamente,  in un essere gelido  e sprezzante. E altrettanto inspiegabile e’ che una cosa bella (per se stessa) come l’attesa e la nascita di un figlio possa  aver l’effetto, talvolta, di provocare  o accelerare una crisi irreversibile,   nell’armonia di un matrimonio. 
Un episodio del genere  – uno dei tanti, per la verita’, che possono capitare in Italia – e’ accaduto a  Milano  ad una giovane coppia di sposi,  pochi anno orsono. 
I due, a quel che emerge,  erano rimasti fidanzati  per sette anni di fila (troppi?), dopo di che avevano deciso di convolare a nozze –   nel preciso intento,  sembra,   di  mettere al mondo un figlio.  Le cose non andranno tuttavia per il verso desiderato: anziche’ costituire motivo di felicita’, lo stato di gravidanza della sposa  segnera’ l’inizio di una nuova stagione, punteggiata da gravi comportamenti del marito in danno della moglie.

Emergera’  in particolare,  nel  corso del giudizio,   come l’uomo fosse da un certo momento in poi diventato sempre meno gentile, verso la compagna,   mostrando nei confronti della stessa sentimenti di  fastidio e insofferenza, tanto da cercare a un certo punto di indurla a interrompere la gravidanza. E anche in seguito: l’uomo (secondo le testimonianze) si allontanava spesso da casa per parecchi giorni di seguito,  rendendosi del tutto irreperibile; intratteneva una relazione extraconiugale con un’altra donna; la comunicazione con la moglie era ridotta talvolta a un semplice scambio di bigliettini; quest’ultima veniva sempre piu’ spesso lasciata priva di ogni supporto morale, materiale ed economico. E cosi’ avanti.
Con la sentenza in commento il  tribunale di Milano[1] – pronunciando la separazione con addebito a carico del marito  –  ha condannato in piu’   quest’ultimo a risarcire la moglie per il danno subito.


2.  I termini della questione.
Non e’ la prima volta che vicende come quella affrontata dai giudici lombardi figurano  proposte (se  non proprio negli stessi termini, comunque con accenti simili)  all’attenzione delle corti italiane. In  pochi altri casi,  pero’, la risposta dei giudici mostra di essere  stata offerta in  forma  tanto netta – e, sotto piu’ di un aspetto,  originale e innovativa.
Quale sia il nocciolo delle  questioni  affrontate dal Collegio  milanese (e delle quali cercheremo  nelle pagine seguenti di riprendere le fila)  e’ presto detto. Si tratta in generale di appurare:
(i)  se  le modalita’ di difesa di ciascun  sposo  nei confronti dell’altro, con riguardo alle offese e ai pregiudizi di natura patrimoniale o non patrimoniale,  subiti nel corso del me’nage,  siano destinate a esaurirsi nell’attivazione delle disposizioni legislative che attengono strettamente alla disciplina giusfamiliare  – svolgendosi attraverso  un’applicazione pura e  semplice dei rimedi che sono indicati   nel primo libro del  c.c. e nella normativa immediatamente di contorno;
(ii)  o  se   il raggiungimento di quell’obiettivo di tutela non possa,  in casi del genere, giovarsi della eventuale messa in opera (integrativa o sostitutiva) di misure di protezione ulteriori,  e in particolare degli strumenti della responsabilita’ civile, contrattuale o extracontrattuale.

Prima di entrare nel vivo del discorso, un chiarimento –  in vista di una comprensione dei  materiali  di riferimento –   appare opportuno.
In alcuni fra i primi commenti[2]  rivolti a questa sentenza milanese  sono state espresse,  a proposito dei risultati cui essa perviene (in punto di responsabilita’ civile), una serie di giudizi negativi.  E si   e’  fatto leva – per suffragare la fondatezza di tale apprezzamento, dal punto di vista della omogeneita’ rispetto ai precedenti –  sul richiamo ad  alcune  sentenze in tema di diritto di famiglia, emesse durante l’ultimo decennio dalla Suprema Corte[3].
Si e’, piu’ precisamente, cercato di prospettare siffatte pronunce della S.C. come momenti dai quali trasparirebbe l’idea di una impossibilita’ strutturale,  per la regola del neminem laedere, di trovare posto in ambito domestico;  in special modo,  sul terreno dei rapporti interconiugali. Si e’, in particolare, tentato di accreditare una ricostruzione “mono-familiarista” del pensiero della Cassazione – ossia una lettura  secondo la quale una soltanto sarebbe la tipologia delle sanzioni  attivabili in caso di violazione degli obblighi di cui all’art. 143 c.c., da parte di uno degli sposi: vale a dire la dichiarazione di addebito ex art. 156 c.c.,  con  in piu’ (eventualmente)  la condanna a corrispondere l’assegno di mantenimento ex art. 156 c.c.
Di qui  alcuni corollari  applicativi,  che l’accennato commentatore trae  successivamente, sino a una serie di prospettazioni piu’ ampie,  svolte in chiave di politica del diritto. La minaccia di una responsabilita’ civile fra marito e moglie avrebbe l’effetto di minare  – si dice –  quella che costituisce  una fra le liberta’ fondamentali per ogni individuo, sempre e dappertutto: ossia la facolta’ di separarsi e di divorziare dal proprio coniuge, senza condizioni o ritorsioni di sorta. Piu’ chiaramente ancora: un ingresso della lex Aquilia entro la cellula domestica  – l’idea,  cioe’,  di una licenza  affettiva e anagrafica solo apparente,  soggetta  alla contropartita di un esborso pecuniario, a titolo di castigo e/o di minaccia  –    equivarrebbe a re-introdurre surrettiziamente nell’ordinamento  italiano  la regola,  per secoli vigente,  della indissolubilita’ del matrimonio[4]. Un ritorno al passato insomma.
Vedremo subito cosa  debba, in generale,  pensarsi di affermazioni simili.

[1]  Trib. Milano, 24 ottobre 2001 – 4 giugno 2002, in Guida al diritto 2002, 24, 37, con nota di M. FINOCCHIARO, La ricerca di tutela per la parte più debole non deve <<generare>> diritti al di là della legge.


[2]  M. FINOCCHIARO, op. cit.,   49.


[3] Si tratta di Cass., 22 marzo 1993, n. 3367; Cass. 6 aprile 1993, n. 4108 e Cass.  26 maggio 1995, n. 5866, in Dir. fam. pers., 1997, 87, con nota di T. MONTECCHIARI, nonché in Giur. it., 1997, I, 1, 843, con nota di A. AMATO.


[4] Nel commento della sentenza del Tribunale di Milano, cit., M. FINOCCHIARO, op.cit., 50-52, paventa il rischio non solo di un ritorno al passato, ma  pure di un’eccessiva estensione dei danni risarcibili, sino a ricomprendere, in caso di separazione addebitabile, anche la “privazione dei rapporti sessuali con il coniuge separato, rapporti cui aveva diritto per effetto del concluso matrimonio ex art. 143 del codice civile”, o addirittura introdurre nel nostro ordinamento, in ossequio al principio della tutela delle minoranze etniche,  la lapidazione delle adultere!


Una precisazione appare  tuttavia sin d’ora opportuna –  ed e’ quella  riguardante  la pertinenza, dal punto di vista sostanziale,  di quelle citazioni della S.C..
Basta sfogliare attentamente le motivazioni in esame per accorgersi come le vertenze  ivi considerate non fossero affatto, storicamente, quelle riferite –  sotto il profilo dell’illecito.  Si trattava,   volta a volta, di (controversie relative a) tipologie lesive ben diverse rispetto alle voci di danno che figurano, di fatto,  alla base della sentenza milanese.
In particolare. In una  delle fattispecie sottoposte alla Cassazione  il nodo era  – propriamente  – quello di un marito  il quale  si doleva del minor valore che la casa coniugale aveva assunto,  a seguito della separazione[1]. In una delle altre ipotesi,  al centro della scena vi era invece una moglie la quale lamentava la perdita di quei vantaggi che sul piano economico  si traggono dalla comunione delle entrate e delle spese[2].  In un’altra ancora,  la richiesta fatta valere  dall’attore ineriva ad una  somma necessaria per trasferirsi in un domicilio diverso da quello coniugale e provvedere al relativo arredamento[3].

Bilancio del breve excursus: in nessun modo puo’ sostenersi che la posizione della nostra giurisprudenza di legittimita’ sia nel senso di escludere drasticamente  l’eventualita’ di un  ristoro del danno, tra marito e moglie[4].  Cio’ che la Cassazione afferma in quelle decisioni e’, piuttosto,  il (sacrosanto) principio della liberta’ per ciascuno sposo di  chiedere ed ottenere, senza vincoli o pedaggi di alcun genere,  la separazione personale.

E  si lascia intendere come  i malesseri e gli inconvenienti che un coniuge possa arrecare all’altro coniuge,  decidendo di troncare per l’avvenire i rapporti con lui,  non saranno  per cio’ stesso risarcibili.
Giusto, sbagliato? Cio’ che  importa, al momento,  e’   evidenziare come non di tal sorta  fossero le poste negative fatte valere dalla moglie,  nella vicenda  in esame.

Basta seguire il racconto dei fatti. Il quesito per i giudici meneghini   verteva esclusivamente sulla possibilita’, per una giovane moglie, incinta, ferita da episodi vari  di spregiudicatezza, soverchieria, trivialita’ e indifferenza, di ottenere dal marito un risarcimento, in relazione all’ingiuriosita’ e odiosita’ di quelle condotte.
E cio’ indipendentemente dai profili relativi alla separazione personale –    misura richiesta inizialmente al tribunale.

Tutt’altro, insomma,  che   rimostranze collegate al dato in se’ della fine del me’nage. Istanze relative,  invece,   a una serie di comportamenti offensivi, posti in essere dall’uomo “prima” del break-down matrimoniale, e inerenti ciascuno alla lesione di ben precise situazioni  soggettive della vittima. Compromissioni azionabili – sulla carta  – anche a prescindere da una richiesta  formale di separazione:  magari (puo’ osservarsi) anche da parte di una coppia di conviventi non sposati,  o tra fidanzati di lunga data, o all’interno di un’unione di omosessuali, e cosi’ via.

[1] Cass., 22 marzo 1993, n. 3367: qui la Cassazione, senza approfondire la questione della responsabilità civile, conseguente alla violazione degli obblighi coniugali, afferma che “la tutela risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. non può essere invocata per la mancanza di un danno ingiusto, che presuppone la lesione di una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto. Ora, l’addebito della separazione ad un coniuge comporta solo gli effetti previsti dalla legge, ma non realizza la violazione di un diritto dell’altro coniuge”. In realtà, nella vicenda sottoposta al giudizio del Supremo Collegio, il marito aveva prospettato una domanda risarcitoria ex art. 2043 c.c. unitamente e subordinatamente alla domanda di revocazione della donazione per ingratitudine, avente ad oggetto l’immobile adibito a casa coniugale. E’ evidente dunque, in quel caso, l’utilizzo strumentale dell’azione di risarcimento al fine di recuperare il bene a suo tempo intestato alla donna.
[2] Cass., 6 aprile 1993, n. 4108: il S.C. afferma: “Dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affido dei figli e della casa coniugale), solo il diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro, quando ne ricorrano le circostanze specificamente previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di chiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei danni, a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa: e ciò non tanto perché l’addebito del fallimento del matrimonio soltanto ad uno dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi, – proprio in omaggio al principio secondo cui “inclusio unius, esclusio alterius” – che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquilana ex art. 2043 C.C. che pur senza citare espressamente, la ricorrente sembra chiaramente voler porre a fondamento della sua pretesa risarcitoria per la perdita dei vantaggi insiti in qualsiasi convivenza coniugale”.
Anche in tal caso, la lesione lamentata  – la perdita di quei vantaggi che sul piano economico si traggono dalla comunione delle entrate e delle spese – è collegata allo status di coniuge in quanto tale,  e non già all’individuo,  che all’interno della famiglia trova o dovrebbe trovare la piena realizzazione e crescita esistenziale. Ciò che si intende tutelare mediante l’affermazione della responsabilità civile in famiglia è infatti la persona in quanto tale,  e non invece un interesse superindividuale o superfamiliare ovvero un interesse che sia in qualche modo riconducibile allo status di coniuge o di familiare.
Secondo la dottrina più accreditata, in effetti, deve ritenersi superata la visione dell’interesse della famiglia come destinato a prevalere sull’interesse del singolo. Così A. FRACCON, I diritti della persona nel matrimonio. Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, in Dir. fam. pers., 2001, 367:  in particolare si veda p. 373,  dove viene affermato  che la famiglia – intesa come “entità sovraordinata”  – è incompatibile con il principio di uguaglianza e la regola del consenso: “non è, quindi, la parità coniugale ad essere intaccata dalla prevalenza delle esigenze collettive; il suo ambito di operatività è esclusivamente la sfera delle libertà del singolo, l’interesse individuale, che viene messo a confronto con quello del gruppo”.
                Nello stesso senso, si veda, P. PERLINGIERI, Sulla famiglia come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, Napoli, 1982, 39 e segg., il quale ritiene che, secondo l’art. 2 Cost. –  inteso quale norma aperta e fonte di tutela giuridica dell’individuo –  “nel nostro ordinamento esiste una atipicità di contenuto di tutela della persona umana”. Conseguentemente, non solo nell’ordine dei valori costituzionali vi è “una <<prevalenza>> delle situazioni soggettive esistenziali e personali rispetto alle situazioni patrimoniali, ma anche una chiara funzionalizzazione degli istituti dell’iniziativa economica privata e della proprietà rispetto alle esigenze della persona umana”.
Non è logico, dunque, porre sullo stesso piano la persona e la famiglia, quale formazione sociale di cui all’art. 2 Cost.: la famiglia è lo strumento di realizzazione dell’individuo, non già un bene rispetto al quale,  nella gerarchia dei valori costituzionali, il singolo dovrà rinunciare, a fronte di gravi illeciti, alla tutela primaria della persona in quanto tale: “ la tutela del danneggiato, in altri termini, anche per quanto riguarda gli aspetti civilistici, non deve risultare più limitata di quella prevista per ogni consociato. Lo status di familiare non deve comportare una riduzione ed una limitazione delle prerogative della persona, ma semmai un aggravamento delle conseguenze a carico del responsabile”: così  S. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 32-33. Si veda altresì,  in generale, F. RUSCELLO, I rapporti personali tra coniugi, Milano, 2000, 337 e segg.  
Non è  condivisibile  pertanto l’opinione di coloro (per tutti si veda F. SANTORO PASSARELLI, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN, OPPO, TRABUCCHI, Padova, 1992, 48) che attribuiscono una  nettta prevalenza ai diritti dei componenti la famiglia.
[3] Cass., 26 maggio 1995, n. 5866: in tale sentenza non si esclude affatto che  in altre ipotesi, diverse da quella considerata, siano  eventualmente risarcibili  i  danni arrecati tra coniugi;  nel respingere, in particolare, la domanda ex art. 2043 c.c., richiamandosi gli altri due precedenti, sostiene che “l’addebito della separazione non rientra, per sé considerato, nel catalogo dei criteri di imputazione della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel concorso delle altre circostanze specificamente previste dalla legge, solo il diritto del coniuge incolpevole al mantenimento (Cass.,  4108/1993;  Cass.,  3367/1993) e potendosi, quindi configurare la risarcibilità degli ulteriori danni sole se i fatti che hanno dato luogo alla dichiarazione di addebito integrino gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma ora citata”.
[4] Anzi, Cass.,  civ., sez. I, 19 giugno 1975, n. 2468, inedita,  ammette in astratto il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà, purché sia provata “l’incidenza patrimoniale concreta, o quantomeno potenziale, di quell’illecito”.  Sulla non univocità della posizione della Cassazione,  cfr.  in generale F.RUSCELLO, I rapporti personali, cit., 337.

3.   Problemi  da affrontare.
Sgombrato il campo   da ogni malinteso d’ordine  “storico/testuale” (circa il tenore di quanto affermato effettivamente dai giudici milanesi),  osserveremo come  tre appaiano fondamentalmente,  in vista di una   considerazione dei  pro e contro della sentenza,   le questioni da esaminare.
Occorre in particolare  domandarsi:
(i) se possano,  in linea di principio, essere riconosciuti all’istituto della responsabilita’ civile  spazi di operativita’  in  zona “endo-familiare” –  ammettendosi che un congiunto possa,  ove ne sussistano i presupposti,   far valere contro un altro congiunto (oltre agli strumenti tipici che sono previsti nel primo libro del codice civile, o magari indipendentemente dall’attivazione degli stessi) un’azione  di risarcimento del danno.
(ii) se, in secondo luogo,   una prospettiva riparatoria  ex lege Aquilia sia plausibile  e giustificata pure fra soggetti quali il marito e la moglie – in particolare,  per  quanto concerne i riflessi di questa o quella violazione degli obblighi di cui all’art. 143 c.c. (oltreche’,  piu’ ampiamente,  con riguardo alla lesione di altri tipi di diritti soggettivi, assoluti o relativi,  sul terreno patrimoniale come non patrimoniale);
(iii) quando, a quali condizioni ed  entro che limiti – ammessa una risposta affermativa alle prime due domande –  una condanna risarcitoria fra coniugi sara’ in concreto possibile.
 
4.  Prospettive esistenziali nell’area “eso-familiare”.
E’ bene muovere   allora   dal richiamo di alcuni elementi che sono venuti arricchendo, di recente, lo scenario aquiliano. E ci si riferisce in primo luogo all’affermarsi,  durante l’ultimo decennio,  nel repertorio della law in action, di un  inedito paradigma di voce risarcibile: il danno esistenziale.
Tali  in effetti  (di sapore prevalentemente “esistenziale”) le ripercussioni che la sentenza in esame –    al di la’ dei vocaboli impiegati direttamente  dall’estensore, per illustrare la situazione in cui era venuta  a trovarsi la  moglie –    ha preso in esame  e conteggiato ai fini del risarcimento.

Alcuni chiarimenti  preliminari allora:
(a)  e’ palese come la “scoperta” dell’accennata categoria,   dovuta   in parte alle indicazioni della dottrina,  in parte all’operato  della giurisprudenza,  di merito e di legittimita’,    sia un dato che sta ridisegnando significativamente il volto e la nomenclatura dell’illecito –   riassetto  (occorre sottolineare)   di carattere generalizzato,  non circoscritto  cioe’ ai meri profili disciplinari del danno;
(b) fra  i settori che piu’ si prestano all’intervento e all’incidenza della nuova figura,  uno fra quelli di maggior peso e’  costituito proprio dalla famiglia –   e cio’ in considerazione, osserviamo,  del ruolo quantomai vasto che l’universo domestico svolge,  d’abitudine,  per la promozione e il sostegno delle attitudini  (relazionali, emotive, sociali, culturali)  dei suoi componenti;
(c)          la sequenza  da tenere presente  appare insomma: 
–  nel raggio applicativo del (risarcimento per il) danno esistenziale e’ destinata a ricadere, volendo utilizzare la nota  formula della Corte costituzionale, l’insieme delle “attivita’ realizzatrici” dell’individuo;
–  quella della famiglia si atteggia, per definizione, come una delle formazioni sociali   a piu’ ricca densita’ di ispirazione e  accompagnamento,  in vista delle iniziative (specie quelle    “a-reddituali”)   della persona; 
–   famiglia e danno esistenziale mostrano, in sostanza,  di trarre linfa  da matrici ideali abbastanza vicine e di parlare, sui rispettivi  terreni,  linguaggi non dissimili fra loro;
–  le intersezioni  pratiche e teoriche   fra   i due istituti   si lasciano ricostruire, anamnesticamente,  a partire da  ambedue i crinali:   nel senso che,  la’ dove siano  riscontrabili tracce di  un danno esistenziale, risentito da taluno, non di rado finiremo per incontrare (nella storia vicina o lontana della vittima)   fondali d’ordine affettivo, domestico;  e, per converso,  la’ dove a venire in risalto sia il nodo della famiglia, presto o tardi accadra’ di  imbattersi, guardando al vissuto o alla cartella dei suoi  membri,   in ripercussioni  come quelle ora in esame  (resta da vedere,  poi,  fino a che punto  ingiuste    e  davvero rilevanti ex lege Aquilia); 
(d)  si tratta di intrecci  prospettabili, a fini di scuola,   sotto piu’ angoli visuali: nel senso che la fonte lesiva potra’  rinvenirsi, a seconda dei casi,  all’interno come  all’esterno della cerchia casalinga; che ad essere colpiti  sono, in potenza, gli adulti quanto i  minori, gli adolescenti come i bambini, sia le donne che gli uomini, i soggetti deboli come quelli forti; che le minacce di cui stiamo parlando attengono, virtualmente,  pressoche’ a ogni ritaglio della quotidianita’ (sul piano comunicativo, sentimentale,  professionale, assistenziale, giocoso,  associativo, etc.);  e cosi’ via.

5.  Orientamenti giurisprudenziali .


Particolarmente eloquenti, in proposito,  le indicazioni che i  nostri tribunali. sono venuti  offrendo, nel corso degli ultimi tempi.  Non e’  difficile accorgersi  come  il filo conduttore   di  gran parte fra le pronunce  emesse in tema di “responsabilita’  e famiglia”,  da un quindicennio in qua, sia  rappresentato dalla crescente sensibilita’ che si avverte  presso le corti (e da una tutela sempre piu’ capillare, disposta a  favore delle vittime) verso le dimensioni affettivo/relazionali dell’individuo. 
Basta  scorrere la rosa dei precedenti giurisprudenziali, dagli anni ’80 sino ad oggi, per convincersene agevolmente.
Cosi’, anzitutto,  nella vicenda (uno dei primi episodi di inflizione di “danno esistenziale”, al di la’ delle parole impiegate nella motivazione)  in cui verra’ ammessa una tutela  risarcitoria a favore di un marito il quale lamentava di non poter  avere piu’ rapporti sessuali con la propria consorte –  rimasta vittima,  in precedenza,  di un erroneo intervento da parte di un medico[1].
Lo stesso  nelle situazioni di sopravvenuta impotenza o sterilita’ – del marito oppure  della moglie –   a seguito di un infortunio, di un delitto, di un incidente stradale, di un crollo, di un’operazione chirurgica sbagliata[2].  O ancora nelle fattispecie  di uccisione di un membro della famiglia, da parte di terzi[3]. Oppure nei casi di aborto traumatico[4],  per effetto dell’illecito commesso da altri (di nuovo, ad es.,  come risultato di uno scontro tra autoveicoli, o magari di una rapina, di uno smottamento, di un’inondazione, di un incendio). Oppure in quelli della nascita di un figlio  – sano  fisicamente e psichicamente, ma –  non desiderato (nascita conseguente all’errore di qualche medico o chirurgo, sul terreno della contraccezione, della sterilizzazione, dell’esecuzione di un’interruzione di gravidanza, etc.)[5].
E cosi’ avanti. L’ipotesi  delle malformazioni del concepito/neonato,  derivanti da malpractice sanitaria   o da mancata diagnosi  preventiva; in particolare, l’eventualita’ di errori  a danno del bambino, compiuti in sala-parto al momento della nascita (il cordone ombelicale intorno al collo, un farmaco sbagliato,  il parto cesareo effettuato troppo tardi)[6]. Quella delle  gravi invalidazioni fisio-psichiche arrecate, in qualsiasi modo, ad un familiare –  eventi tali da costringere altri parenti, conviventi o meno,  a cambiare completamente  sistema di vita, di li’ in avanti[7]. Quella della violenza sessuale posta in essere a danno di un membro della famiglia, magari  minorenne[8].
Si potrebbe continuare ancora. Ma l’elenco  e’ gia’ abbastanza indicativo.
E la traccia essenziale, al di la’ delle peculiarita’  statutarie delle singole figure, risulta sempre la medesima: la persona umana vista,  anche nel diritto  civile,  non gia’ come una sorta di “monade” leibniziana (chiusa in posizione fetale,   sorda a ogni voce d’intorno),  bensi’ quale creatura viva e pulsante,  proiettata ogni giorno  nella ricerca di se’,  spinta a coltivare ovunque  le proprie attese: non importa se di natura  artistica, mondana, accademica, scientifica, piuttosto che ludica, sportiva, politica o associativa. 

Soprattutto: una visione dell’uomo quale creatura portata,  fin dalla piu’ tenera eta’,  a “interfacciarsi”  strettamente con il suo prossimo, negli aggregati e nei circuiti che le scorrono accanto: a cominciare degli spazi scolastici,  dai luoghi del gioco e delle amicizie,   proseguendo poi con gli incontri del tempo libero, col mondo degli affetti e del sesso,  con le intese di lavoro –   lungo le  varie curvature prescrittive che  delinea l’art. 2 della Costituzione. 
Si tratta, osserviamo, di direttrici  palesatesi sempre piu’ chiaramente,  nell’ultimo periodo di storia dell’illecito,  in Italia;  e fra i passaggi di maggior spicco non mancano (ecco il  passaggio da evidenziare, quanto alla veste esteriore delle pronunce, di merito come di legittimita’)  le novita’ d’ordine espressivo, lessicale.
Facile accorgersi, in effetti,   come  all’affermarsi delle nuove linee difensive per il  danneggiato soltanto di rado si accompagnasse –   nei primi tempi (intorno agli anni ’90) –   un approdo a formule e proposizioni di tipo inedito;   e come   da qualche anno tutto stia invece cambiando,  in dottrina come presso le corti.
Sempre piu’ frequente appare in particolare, nei provvedimenti giudiziali e nella saggistica del settore,   il ricorso a stilemi semi-sconosciuti o estemporanei in passato, quali  “esistere”,  “esistente”, “esistenza”.  La  formula  “danno esistenziale”, in specie,   ha cessato  di costituire una curiosita’ o una bizzarria per il lettore,   accolta come risulta ormai correntemente  (quale neo-lemma)  nelle decisioni giurisprudenziali, per l’appunto, e poi (come una sorta di voce-leader) nei convegni, entro i trattati e i commentari del c.c., nelle monografie, nelle rassegne, nelle enciclopedie giuridiche. Neppur solamente  in Italia, oramai –   da  qualche anno a questa parte.
Scorrendo le  pronunce che si susseguono in tema di danno non patrimoniale il lettore  resterebbe  casomai sorpreso, oggigiorno,  dalla possibile assenza di uno  quei vocaboli. E,   per gli estensori delle nuove motivazioni  e’ quasi impossibile  apparentemente,  capoverso dopo capoverso, l’utilizzazione di  termini  e neologismi siffatti senza   che cio’ comporti –  in modo automatico,  salvo esplicite prese di distanza –  un’adesione per i  significati  (orientativi e operazionali)   che ad essi e’ spontaneo  riferire.


[1] Si tratta del noto caso Lucidi contro Santarelli, deciso da Cass., 11 novembre 1986, n. 6607, in Foro it., 1987, I, 833, con nota di A. M. PRINCIGALLI, Sul diritto al risarcimento del coniuge di persona impossibilitata ad avere rapporti sessuali per effetto dell’illecito del terzo, nonché in Giust. civ., 1986, I, 3031; Dir. fam. pers., 1987, 148; Nuova giur. civ. comm., 1987, I, 343. La Cassazione censura l’imperizia di un medico, a causa della quale una donna aveva subito gravissime lesioni fisiche alla vescica,  con conseguenze devastanti ed incidenti sulla vita sessuale della stessa. Oltre alla vittima dell’illecito,  ad agire in giudizio per il ristoro dei danni aera stato il coniuge della donna, lamentando la totale compromissione della vita sessuale, quale danno alla vita di relazione.
La S.C. riconosce  qui il danno subito dal coniuge, inteso quale “lesione di quel diritto alla persona, qualificabile, come danno che non è né patrimoniale (art. 2056 c.c. in relazione all’art. 1223 dello stesso codice) né non patrimoniale (art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p.), comunque rientrante nella previsione dell’art. 2043 c.c”.
Tale diritto, afferma il Supremo Collegio, è giuridicamente rilevante in considerazione della tutela che la stessa Carta costituzionale accorda alla persona, sia come singolo sia all’interno di ogni formazione sociale dove svolge la sua personalità. La famiglia “«quale società naturale», come definita dalla citata norma costituzionale, è una «formazione sociale», nella quale, a norma dell’art. 2 Cost., si esplica, nell’aspetto della vita familiare, la personalità di ciascuno dei coniugi, estrinsecandosi in «diritti inviolabili», costituzionalmente riconosciuti e garantiti non soltanto nei rapporti fra i coniugi, ma anche di fronte ai terzi”: così  Cass., 11 novembre 1986 n. 6607, cit., in motivazione.
Per un ampio commento, con richiami di motivazione della sentenza, si veda P. ZIVIZ, La tutela risarcitoria della persona, Milano, 1999, passim. Nonché  M. FRANZONI, Fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 1036 segg.;  G. ALPA, La responsabilità civile, IV,  Milano, 1999, 461 segg.; E. PELLECCHIA, La lesione della sfera sessuale del coniuge, in Il danno esistenziale.  Una nuova categoria della responsabilità civile, a cura di P. CENDON e P. ZIVIZ, Milano, 2000, 61 segg.;  G. NICOLAIS e M. SILVETTI, Lesioni della sfera sessuale del partner,  in Trattato breve dei nuovi danni, a cura di P. CENDON, Padova, 2001,  II,  1139 segg.

[2]  Per tutti, M. T. ANNECCA,  Lesioni della capacità procreativa,   in Trattato breve dei nuovi danni,  cit.,   II,  1105 segg.
[3] La giurisprudenza di merito ritiene a tal punto acquisito nel nostro ordinamento il danno esistenziale, da liquidare il relativo risarcimento con una ordinanza di ingiunzione, ex art. 186 quater c.p.c.: si veda Trib. Treviso, ord. 30 luglio – 7 agosto 2001, in Giuda al diritto, 2001, fasc. 46, 33, con nota di F. MARTINI, nonché in Dir.  giustizia, 2001, fasc. 38, 66, con nota di M. ROSSETTI. Viene in sostanza riconosciuto, in caso di uccisione di un membro della famiglia (nell’ipotesi il figlio), il danno conseguente alla ingiusta soppressione del vincolo familiare: “questo giudice ritiene, infatti, che alla famiglia nucleare in senso stretto vada liquidato il danno per la rottura del vincolo familiare, inteso come danno alla vita di relazione derivante dalla ingiusta menomazione della integrità familiare. Si tratta di un tipo di danno non patrimoniale che, ad opinione di questo Giudice, deve essere tenuto distinto sia dalla sofferenza che naturalmente provoca la morte del congiunto, risarcibile come danno morale, e sia dal danno biologico derivante da comprovate menomazioni fisiche o psichiche eziologicamente connesse con il decesso del congiunto, cui si richiama la Corte Cost. con la sentenza 372/94”. Si tratta, dunque, di un danno diverso e distinto rispetto al danno biologico e al danno morale, e  che va piuttosto a colpire tutte le “attività realizzatrici della persona umana”.
In tema di danno esistenziale, derivante dalla perdita del congiunto a causa dell’illecito altrui, i precedenti sono svariati: si cita, a titolo esemplificativo, Trib. Firenze, 24 febbraio 2000, in  questa Rivista, 2000, 1437; Trib. Milano, 31 maggio 1999, in Danno resp., 2000, 67, con nota di CASO, Danno per lesione del rapporto parentale: tra esigenze di giustizia e caos risarcitorio; in Riv. giur. circ. trasp., 2000, 142, con nota di M. ROSSETTI, Si può monetizzare la perdita di un affetto?: quest’ultima sentenza qualifica il danno derivante dalla perdita del congiunto quale danno “edonistico”, la cui configurabilità nel nostro ordinamento è contestata. Nel senso che tale tipologia di danno debba ricondursi nell’ambito del danno esistenziale, si veda P. ZIVIZ, Il danno edonistico: un nuovo nome per il pregiudizio derivante dalla morte del congiunto, in questa Rivista, 2000, 1442; in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 4, con nota di CHINDEMI, Il danno edonistico.
In generale, M. FRANZONI, Il danno da uccisione, in La Responsabilità civile, a cura di P. Cendon, VII, Torino, 1998, 179  segg.; P.G. MONATERI, Trattato di diritto civile, diretto da Rodolfo Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3, La responsabilità civile, Torino, 1998, 489; G. ALPA, La responsabilità civile, IV, cit.,  465;   M.P.SUPPA, La morte del congiunto, in  Il danno esistenziale, cit., 136 segg.;  I. MERZAGORA BETSOS e M.MANTERO, Il lutto, in Trattato breve dei nuovi danni, cit., II, 1197 segg.;  F.BILOTTA, Morte del familiare convivente e danno esistenziale  a carattere temporaneo del congiunto, Nota  a Trib. Palermo,  8 giugno 2001,  in Dir. fam. pers.,  2002, I, 80 segg., ove ampi richiami di giurisprudenza.
Sulla responsabilità dei terzi in caso di suicido del familiare, G.IORIO, Il suicidio del congiunto, in Trattato breve dei nuovi danni, cit., II, 1222 segg. In generale, L. GAUDINO, Condotte autolesive e risarcimento del danno, Milano, 1995: P.CENDON e L.GAUDINO, Colpa vostra se mi uccido, Venezia, 1996; M. DOGLIOTTI E A. FIGONE, La disciplina positiva e i problemi attuali, in Le persone, I, Persone fisiche, a cura di P. CENDON, Torino, 2000, 89 segg.
[4] Di recente,  Trib. Torre Annunziata, 25 marzo 2002, in Fam.  dir., 2002, 509; ma si veda anche Giud. Pace Casamassima, 10 giugno 1999, in Danno e resp., 2000, 89, con nota di M. BONA e in  questa Rivista 1999, 1335, con nota di P. ZVIZ.  Secondo i giudici  “la perdita del feto, quale conseguenza delle lesioni subite, a seguito di sinistro stradale nel quale sia rimasta coinvolta la gestante, è risarcibile a titolo di c.d. danno esistenziale, ripercuotendosi grandemente e, talvolta, permanentemente, sull’esistenza della persona, con connotazioni psicologiche negative”. 
[5] Trib. Venezia, 8 giugno 2002, inedita. In dottrina, F. BILOTTA, Profili del danno esistenziale nella procreazione, in  questa Rivista, 1999, 337;  Aa.Vv.,  in M. LUPOI, Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, in Un bambino non voluto è un danno risarcibile? a cura di A. D’Angelo, Milano, 1999, 11, G. FERRANDO, Nascita indesiderata, situazioni protette e danno risarcibile, in M. LUPOI, op. ult. cit., 209 segg.; R. DE MATTEIS, Un nuovo itinerario per il danno biologico: Le nascite indesiderate, in M. LUPOI,  op. ult. cit., 245 segg; P.G. MONATERI, “ La marque de Cain” la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le relazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, in M. LUPOI, op. ult. cit. , 285 segg.;   G. NICOLAIS e M. SILVETTI., La nascita indesiderata, in  Trattato breve dei nuovi danni, cit., II,  1073, segg.;  F. BILOTTA, La nascita non programmata di un figlio e il conseguente danno esistenziale, Nota a Trib. Busto Arsizio, 17 luglio 2001, in questa Rivista,  2002, II, 446, ove richiami di giurisprudenza.

[6] Trib. Locri, 6 ottobre 2000, in  questa Rivista, 2001, 409, con nota di P. ZIVIZ, Danno biologico e danno esistenziale: parallelismi e sovrapposizioni,  in Danno  resp., 2001, 393 con nota di F. BILOTTA, Il danno esistenziale: l’isola che non c’era; in Corriere giur., 2001, 786, con nota di R. TORINO, Nascita inaspettata di figlia malforme e danno esistenziale della madre; in Fam.  dir., 2001, 421, con nota di n. G. CASSANO, Responsabilità da procreazione e danno esistenziale; in Dir. fam., 2001, 1039, con nota di G. CASSANO, Danno esistenziale, e così sia!; in Familia, 2001, 815, con nota di E. BELLISARIO, Nascita indesiderata e vita non voluta: esperienze europee a confronto; in Giur. mer., 2001, 1038, con nota di A. ZANUZZI;  G. CASSANO, In tema di danno esistenziale: brevi puntualizzazioni,  in Giur. it., 2001, 735, con nota di M. BONA, Mancata diagnosi di malformazioni fetali: responsabilità del medico ecografista e risarcimento del danno esistenziale da wrongful birth;  in Temi romana, 2000, 1193, con nota di R. IACOVAZZI, Il danno «esistenziale»: brevi considerazioni su an e quantum della nuova ipotesi risarcitoria.
Il Tribunale di Locri riconosce il danno esistenziale conseguente alla mancata diagnosi di malformazioni del feto, dalla quale era derivata l’impossibilità da parte della madre ad interrompere la gravidanza.
In realtà, in questa materia il terreno del danno esistenziale ai familiari era già stato preparato dalla nota sentenza del Trib. Verona, 15 ottobre 1990, in  questa Rivista, 1990, 1039, con nota di E. NAVARETTA, Il diritto a nascere sano e la responsabilità del medico; in   Foro it., 1991, I, 261; nonché in Nuovo dir., 1991, 126, con nota di LOTITO; in Arch. civ., 1991, 716, con nota di MORELLI; in Dir.  pratica assic., 1991, 111 (m), con nota di VIANELLO; in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 357 con nota di R. PUCELLA, Responsabilità medica per la lesione del diritto a nascere sani: tutela del nascituro e dei prossimi congiunti. I giudici Veronesi riconoscono in favore ai congiunti di una bambina nata cerebrolesa, a causa della condotta colposa dei medici, il danno alla vita di relazione, essendo stata sconvolta in radice la loro esistenza: “se si accoglie la tesi che il danno biologico della vittima è il «danno-evento» e che danno morale e danno patrimoniale costituiscono forme di «danno-conseguenza», si percepisce che il fatto illecito ha una potenzialità plurioffensiva, in quanto provoca lesioni di diversi beni giuridici e di diverso livello. Ma «danno-conseguenza» dell’illecito è anche la sofferenza procurata ai prossimi congiunti (laddove, come nel caso che ci occupa, i genitori siano le vere vittime del reato), non meno che l’alterazione della loro vita di relazione, definitivamente compromessa dalla presenza di un essere umano ridotto ad uno stato di vita pressoché vegetativa. È di tutta evidenza che, accanto al danno emergente costituito dalla prestazione di assistenza che non può, sempre, essere posta a carico dei genitori per il solo fatto che vi sono tenuti in quanto tali, la malattia di cui è portatrice la figlia ha sconvolto l’esistenza della famiglia in modo tale da annullare o gravemente compromettere, secondo l’id quod plerunque accidit, la c.d. vita di relazione. Si pensi, soltanto, al fatto che è più che presumibile che i genitori si astengano dall’intrattenere una propria vita di relazione, sia perché impediti materialmente dall’assorbente necessità di assicurare assistenza alla minore, sia perché naturalmente portati (per una comune forma di «dignità») a non esternare la fonte della loro sofferenza”. Si veda G. SEBASTIO, Le malformazioni del feto, in Trattato breve dei nuovi danni,  cit.,  I, 113 segg.,   e giurisprudenza ivi richiamata.
La giurisprudenza francese è andata anche oltre, riconoscendo il danno esistenziale non solo alla madre ma anche direttamente al bambino, nato malformato a seguito della erronea diagnosi prenatale da parte del medico,  al quale la madre aveva manifestato la volontà di interrompere la gravidanza, in caso di nascituro nato non sano: Cassazione Francese, 17 novembre 2000 (con richiami di motivazione in Trattato breve dei nuovi danni, cit., 130 e segg.).  Si veda, sul punto, anche G. ALPA, L’affaire Perruche, in Dalla disgrazia al danno a cura di A. BRAUN,    Milano, 2002, 359 e  segg.; G. ADEZATI, Dalla disgrazia al danno: come risarcire chi nasce con l’handicap? L’arte di giudicare della Cassazione Francese nell’affaire Perruche, in Dalla disgrazia al danno, . cit., 369 e segg. V. CARBONE,  Un bambino che nasce minorato ha diritto al risarcimento per la nascita indesiderata?, in  Fam.  dir., 2001,  97.
[7] Per tutti, T.ARRIGO, La lesione della salute del congiunto, in Il danno esistenziale, cit., 73 segg.
[8] Trib. Agrigento, 4 giugno 2001, in Fam. dir., 2001,  p. 513, con nota di P. CENDON, Violenza sessuale  a una minorenne e danno esistenziale dei familiari.   Il Tribunale di Agrigento riconosce il danno esistenziale in favore dei familiari di una giovane ragazza, vittima di violenza sessuale di gruppo. Dopo un dettagliato e approfondito excursus sulle sentenze pronunciate in tema di lesione del diritto alla realizzazione personale, il Tribunale di Agrigento ritiene fondata la azione civile –  fatta valere in sede penale – , dei familiari della vittima di abusi sessuali: la grave condotta delittuosa, sottoposta all’esame del giudicante, era infatti idonea ad incidere irrimediabilmente sulla “quotidianità familiare” dei congiunti della vittima, sul “loro regolare andamento di vita”, sia “con riferimento alle singole attività realizzatrici della propria persona che avuto riguardo alla fisiologica dinamica delle relazioni familiari”:  Trib. Agrigento, cit.,  in motivazione.

6.   Nozione di danno esistenziale.


Al  senso di queste  varie direttrici corrisponde, applicativamente,  la nozione di danno esistenziale[1].  Siamo davanti,   in effetti,    a una categoria la quale mostra di differenziarsi  in modo profondo – nella forma e nella sostanza – rispetto ai sub-modelli tradizionali di danno alla persona,  quali circolano d’abitudine nella manualistica, in certa legislazione speciale, nel testo delle  sentenze[2].
In particolare,  al centro dell’attenzione non vi e’  mai  questa volta: 
(a)  ne’ il denaro o un bene materiale  – o  mai soltanto una posta del genere:  non siamo al cospetto cioe’ di un pregiudizio patrimoniale, quale che sia la nozione  di “patrimonio” da cui si muove;
(b) ne’ mai,  direttamente,  l’integrita’ corporea o la salute  – non ci si trova di fronte insomma a un danno biologico;
(c)  ne’,  d’altro canto,  l’equilibrio mentale o la capacita’ di intendere e volere  – non e’ in questione un danno di natura  psichica;
(d) ne’ infine la sofferenza, la disperazione  o le lacrime  – a venire in gioco non e’ un danno morale   in senso stretto.
L’accento cade invece,  come e’ stato osservato, sulle (compromissioni delle) attivita’ realizzatrici  dell’individuo,  attuali o potenziali non importa. Oscillando dagli obiettivi piu’ elevati della competizione intersoggettiva, a  quelli della semplice conquista della serenita’ e dell’equilibrio individuale. 
Un non poter piu’ fare le  stesse cose di prima,  e’ stato  detto,  un doverne fare altre e meno  gradite; un’agenda diversa e peggiore. E si e’ parlato  – ulteriormente – della “vita di ogni giorno”, come realta’  accolta finalmente entro l’arena del  diritto, senza piu’ finzioni o timidezze. Si e’ fatto riferimento alla “normalita’” turbata, agli agguati cui sarebbe esposto il “diritto alla realizzazione personale” (posizione strettamente ricollegabile all’art. 3 della Costituzione). Ci si e’ richiamati a una lettura in chiave sociologica/antropologica delle disposizioni sulla famiglia, a cominciare dagli artt. 29 – 30 Cost. E cosi’ avanti.
E’ palese come ci  si  trovi dinanzi,    in tutti i casi,   a locuzioni le quali ricalcano vistosamente le parole o l’ispirazione di articoli quali il 143 e il 147 c.c.; e  non v’e’ dubbio  trattarsi di indicazioni  suscettibili di oltrepassare,  in modo piu’ o meno netto,  i confini specifici della responsabilita’ civile.
Duplice  anzi, da questo punto di vista,   il verso delle direttrici  messe in moto.
(i) Da un primo lato,  con il baricentro posto sui tratti dell’interpersonalita’/colloquialita’,   l’avvento del danno esistenziale  si atteggia quale momento funzionale al  suggello degli aspetti piu’ solidaristici, aggregativi,    della famiglia.   Uno per tutti – il singolo visto come  qualcuno chiamato a dare qualcosa al gruppo di cui fa parte[3],   ad arricchire il patrimonio comune. I successi o le negligenze individuali (il negarsi piuttosto che il prodigarsi,  l’esserci o il non esserci)  come fattori destinati a  pesare insistentemente sulla vita domestica, con ricadute su tutti quanti. 
(ii) Da un secondo lato, invece:   attraverso l’accentuazione dei profili della quotidianita’/fertilita’,  si    esalta la visione  del nucleo casalingo quale tramite per la  valorizzazione delle potenzialita’ di ciascuno.    Tutti per uno  – ogni membro della famiglia come donatario e beneficiario della presenza degli altri, fisiologicamente avviato a ricevere qualcosa dall’insieme. Mai, invece,  il singolo come entita’ destinata a farsi carico perennemente del bene e della floridezza del clan (agnello sacrificale le cui rinunce,  in nome della stabilita’ collettiva,   sarebbero  sempre  opportune, benedette)[4].

[1] La letteratura sul danno esistenziale è ormai vasta. Si veda, tra le varie pubblicazioni: Il danno esistenziale.  Una nuova categoria della responsabilità civile, a cura di P. CENDON e P. ZIVIZ, cit.;  P. ZIVIZ, Il danno non patrimoniale, in La responsabilità civile, cit., VII, 376 segg.; Trattato breve dei nuovi danni,  cit.; P.G. MONATERI, «Alle soglie»: la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale (Nota a Cass., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713), in Danno  resp., 2000,   836; P. ZIVIZ, La tutela risarcitoria della persona, danno morale e danno esistenziale,  Milano, 1999; P. G. MONATERI, La responsabilità civile, in  Trattato di diritto civile, diretto da Rodolfo Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3, cit.; R. DE MATTEIS, Il danno esistenziale,  in Danno resp., 2002,  565; R. BORDON e M. PALISI, Il danno da morte, Milano 2002, 105 segg. 
[2] P. CENDON, Esistere o non esistere, in questa Rivista, 2000, 6, 1257-1260.
Anche la giurisprudenza penale sembra sensibile all’aspetto dinamico della persona e alle sue attività realizzatrici. In particolare, l’affermazione della personalità della vittima di illeciti consumati in famiglia deve costituire il parametro per valutare il comportamento del reo: in tal senso appare orientato il S.C.,  in un caso di maltrattamento di un padre verso la minore. La Cassazione penale, sottolineando l’attenzione che un padre dovrebbe rivolgere ai bisogni esistenziali del proprio figlio, ritiene che “il delitto di maltrattamenti di minore (art. 572 c.p.) si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante omissioni, giacché « trattare» un figlio (per di più minore degli anni 14) da parte di un padre implica almeno il rispetto della norma di cui all’art. 147 c.c., che impone l’obbligo di «mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli»; e, per converso, maltrattare vuol dire, in primo luogo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di un evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, generare o aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale né morale di risolvere da solo, …atti volti a ledere la integrità fisica e il patrimonio morale della [vittima], sottoposta ad un intollerabile regime di vita attraverso violenze fisiche e morali e costretta ad una vita di relazioni familiari produttive di dolore e sofferenza, che hanno represso e violato innanzitutto il diritto al pieno e armonico sviluppo della sua personalità: così, Cass., sez. VI, 18 marzo 1996, in Foro it., 1996, II, 407; in Fam. dir., 1996, 324, con nota di P. PITTARO, Il delitto di abuso dei mezzi di correzione: una fattispecie «senza più fondamento»?, in Riv. pen., 1996, 845; in Dir. pen.  proc., 1996, 1130, con nota di I. FIGIACONI, Abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia: revirement della corte di cassazione.
[3] In tal senso A. FRACCON, op.cit.,  373: “appare, perciò, pienamente  condivisibile la posizione di chi vede nell’interesse  del gruppo nient’altro che l’interesse comune ai coniugi,  ed ai figli,  laddove ve ne siano”.  Nel senso che, tra gli obblighi di cui all’art. 143 c.c., debba implicitamente ravvisarsi il dovere di  promozione e valorizzazione della personalità del partner, si veda P. ZATTI, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, in  Trattato RESCIGNO,  Persone e famiglia, II,  Torino, 1996, 27.   Ai fini della determinazione dei doveri coniugali, afferma l’autore, occorre tenere conto delle direttive costituzionali di tutela della persona, con tutte le sue prerogative: pertanto se da una parte i doveri coniugali devono essere intesi come dovere di “non-ostacolare, di non interferire, di astenersi, di non ledere” sotto altro profilo  lo svolgimento della personalità richiede una condotta positiva da parte del coniuge, ossia un “dovere di assecondare la soddisfazione degli interesse dell’altro coniuge, riferibile sia al dovere di assistenza morale e materiale, sia al dovere di collaborazione per il buon svolgimento del rapporto coniugale e per mantenere le condizioni di unità e stabilità del gruppo”.
[4]  Sul punto P. ZATTI, Familia, familiae – Declinazioni di un’idea. I. La privatizzazione del diritto di famiglia, in Familia, 2002, I,  9 segg., 36 (“Esiste però un limite di sacrificabilità delle esigenze individuali che coincide con il nucleo essenziale dei diritti della persona. Nessuna esigenza collettiva consente di spogliare uno dei coniugi dei diritti fondamentali: alla riservatezza, all’uso del proprio corpo, alle relazioni sociali ed affettive, al lavoro, alla libertà di manifestare il proprio pensiero e di associarsi, alla libertà religiosa, eccetera”).

7.   I torti “endo-familiari”.


Sin qui i discorsi sul danno esistenziale (che sia stato patito da uno o piu’  tra i familiari, e) che provenga da condotte o fonti esterne  alla famiglia.
Non mancano tuttavia (e, benche’ meno numerosi,  si tratta di episodi ancor  piu’ intriganti e innovativi)  precedenti in cui e’ stata riconosciuta,  dai giudici,   una  responsabilita’ civile di tipo prettamente endo-familiare:   legata ai torti che un congiunto   abbia, cioe’, arrecato ad un  proprio congiunto –  il marito contro la moglie, il padre contro il figlio, il fratello contro la sorella (“questa orrenda novella vi do’”), il nonno contro il nipote, la nuora contro il suocero, o viceversa[1].
Di siffatte evenienze si occuperanno le pagine che seguono.
Spicca,  nell’elenco, la  (ormai celebre)  decisione della Cassazione  relativa ad un minore della  cui esistenza il padre si era, in pratica,  dimenticato per  anni di seguito,  sotto ogni punto di vista –    morale come materiale[2]. Ma gli episodi da ricordare sono anche altri. Basta pensare all’ipotesi di responsabilita’ per infedelta’  (particolarmente odiosa e oltraggiosa nelle forme) da parte del coniuge[3];  oppure ai casi di violazione del diritto  di assistenza[4], al riconoscimento del c.d. mobbing familiare[5],  al contagio genetico, ai danni derivanti dalla violazione dei diritti di visita, sul figlio, spettanti al  genitore non affidatario[6].  E la lista potrebbe continuare.
E’ una rosa,  osserviamo,  significativa  non soltanto per il fatto che ne risulta confermata  (da un punto di vista quantitativo;  e i numeri saranno pure modesti,  ma le apparenze non devono ingannare:  quante le condanne risarcitorie  pronunciate nel  quadro di qualche processo penale, interfamiliare, di cui i repertori civili non parlano?)   la necessita’  di un possibile ricorso  alla tutela aquiliana –  in aggiunta alla salvaguardia che  i rimedi di ordine domestico sono, di per se’,  in grado di assicurare.
Vi e’ un risvolto ulteriore  da registrare, sul terreno qualitativo,  e  che appare tutt’uno con i materiali  che qui interessano.
Si tratta  degli aspetti che connotano in modo specifico il danno (esistenziale di natura endo-familiare) distinguendolo dai pregiudizi – pur sempre esistenziali, ma – di tipo prettamente  eso-familiare.
Duplice   anzi,  in quest’ordine di idee,  il piano dei riscontri cui far capo.
In effetti. Non vi e’ soltanto la considerazione che le aggressioni attuate da uno stretto  congiunto –  in quanto proveniente da qualcuno sul quale il plaintiff  aveva posto, verosimilmente,  fiducia (e proiettato aspettative piu’ o meno alte,   di rispetto, conforto, sostegno) –  si profilano quale eventi atti a minacciare contraccolpi  particolarmente gravi e duraturi.
Vi e’ anche la circostanza  (non secondaria  in vista del conto finale,  per il  calcolo del quantum respondeatur) che ben piu’ difficili  si presentano qui  tendenzialmente, rispetto a quanto non annuncino i colpi arrecati da un estraneo, le  possibilita’ di fronteggiamento e di reazione complessiva da parte della vittima – sotto il profilo sociale,  psicologico, culturale, religioso, e cosi’ di seguito.
Gli esempi potrebbero essere piu’ d’uno.

In particolare. Nessun  dubbio circa le componenti di  maggior dolorosita’/pervasivita’   che e’ destinata,  abitualmente,   ad irradiare –  sui  versanti  piu’ delicati dell’essere umano: riflessi interni di autostima, disponibilita’  verso il prossimo, futura capacita’ di abbandono emotivo,  tasso di mondanita’ e colloquialita’,  apertura alle novita’ e agli incontri, affettivita’  e socievolezza istintiva –  una  violenza  o molestia sessuale che provenga dal proprio padre o  dal fratello o anche dal proprio partner,   rispetto a quanto non accadrebbe per analoghi comportamenti posti in essere da un terzo, comunque da una persona non di casa. Magari da uno sconosciuto, mai incontrato prima, mai piu’ rivisto dopo il fatto lesivo.
E  anche restando ai passaggi meno drammatici dell’esperienza. E’  plausibile che riflessi come quelli ingenerati dalle  violazioni della privacy, dagli eccessi di severita’, dalle ingiurie sistematiche,   dalle truffe grandi e piccole –  e tutto il resto  ancora:  bugie e condotte fraudolente,  scarnificazioni impercettibili,  scenate, dimostrazioni di sfiducia, tirchierie eccessive, micro-maltrattamenti fisici o psichici,  musi lunghi per giorni di seguito, porte sbarrate all’ascolto,   voce alta a ogni discorso, congiure piu’ o meno sottili, violenze nel linguaggio, preferenze smaccate,   mancanza di indulgenza, premi dati senza merito e rimbrotti senza fondamento –  saranno di ben diversa  velenosita’ e persistenza, nella gran parte dei casi,  a seconda che si tratti di torti germogliati e patiti in famiglia oppure, rispettivamente,  in ambienti esterni.
Cio’ che  appare temibile,  spesso all’origine di guasti senza ritorno,  sara’ proprio l’incrinarsi, nel  caso di offese  e cattiverie domestiche,  di quella trama  di  fondo (amorosa, edipica,  natalizia, fantasmatica, spirituale, nostalgica, etc.)   nella  quale l’individuo era venuto proiettando se stesso, fino a quel momento.  Compromessa e’ – di poco o di tanto  –  la grammatica di quell’affettivita’ e tenerezza, che, sebbene inesigibile sulla carta, poteva aver caratterizzato in precedenza il tessuto intero delle relazioni  tra la vittima e l’autore dell’illecito, comunque l’atmosfera di casa.


[1] I precedenti giurisprudenziali che riconoscono il danno infraconiugale non sono poi così rari.
In verità, contrariamente a quanto affermato dalla dottrina, M. FINOCCHIARO, op.loc.cit., nota 1, la Cassazione ha riconosciuto da oltre un ventennio la responsabilità civile tra coniugi: con sentenza del 8 febbraio 1977,  n. 555, inedita, il Supremo Collegio condanna ex art. 2043 c.c. un coniuge che aveva impedito volontariamente la trascrizione del matrimonio presso i Registri dello stato civile. Si tratta di un caso assai singolare, o meglio di un recesso post nuptias  al limite della bigamia: un parroco aveva infatti consentito a celebrare matrimonio concordatario senza la documentazione completa (atto di nascita) del promesso sposo, dietro l’impegno da parte dei nubendi di adempiere alle formalità solo successivamente alla celebrazione. A causa del comportamento doloso del marito, il quale aveva trattenuto il proprio atto di nascita, utilizzandolo per contrarre matrimonio civile con altra donna, la trascrizione del matrimonio religioso era poi divenuta impossibile. In questo caso, il Supremo Collegio ha ravvisato nel comportamento del marito una responsabilità ex art. 2043 c.c., per i danni subiti dalla moglie in conseguenza dei mancati effetti civili del matrimonio religioso. Infatti, “la trasmissione all’ufficiale dello stato civile e la trascrizione dell’atto di matrimonio, celebrato davanti a ministro di culto cattolico, secondo le norme del rito concordatario, costituiscono adempimenti necessari e dovuti, rispetto ai quali rimane irrilevante qualsiasi manifestazione di volontà delle parti, successiva al matrimonio medesimo. Pertanto, il comportamento di un coniuge, che impedisca quella trascrizione, non configura una mera inadempienza a promessa di matrimonio, o violazione di semplice aspettativa, ma costituisce un fatto illecito lesivo del diritto dell’altro coniuge al completamento di una fattispecie intrinsecamente già realizzata”. 
In dottrina, si veda S. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit.,  con ampi richiami di letteratura e legislazione straniera; A. FRACCON, I diritti della persona nel matrimonio. Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno,  cit., 2001, 1; M. BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?, in Fam. dir., 2001, 189; A. ZACCARIA, L’infedeltà quanto può costare? Ovvero è lecito tradire solo per amore?, in St. iur., 2000, 524; M. BONA, Famiglia e responsabilità civile: la tutela risarcitoria nelle relazioni parentali, in CASSANO (a cura di),  Manuale del nuovo diritto di famiglia, Piacenza, 2002, 369; M. DOGLIOTTI e A. FIGONE, I rapporti familiari, in La responsabilità civile, Torino, VIII,  1998,  61 e ss.; F. RUSCELLO, La tutela del  minore nella crisi coniugale, Milano, 2002,  337  seg.; V. PILLA, Separazione e divorzio: i profili di responsabilità,  Padova, 2002, 99 segg.
Contrario alla responsabilità civile per violazione degli obblighi coniugali, con particolare riferimento all’obbligo di fedeltà,  P.G. MONATERI,  La responsabilità civile, cit., 470. L’a. distingue il comportamento del partner rispetto a quello del coniuge, affermando che l’infedeltà del primo deve ritenersi pienamente legittima, mentre “all’interno della famiglia jure gli obblighi di coniugio sono regolati in modo speciale dai particolari strumenti delicatamente soppesati dal legislatore. Bilanciamento d’interessi e strumenti che verrebbero violati se si ammettesse una r.c. in tali ipotesi. Mi sembra quindi, che l’illecito possa qui sussistere solo a fronte di un eventuale danno patrimoniale”. L’a., poi, in tema di responsabilità del terzo per induzione all’inadempimento dell’obbligo di fedeltà, nel commentare la nota sentenza Spadavecchia c. Santalamazza, Trib. Roma, 17 settembre 1988, cit., infra,  esclude  si possano applicare “per analogia i ragionamenti svolti in tema di interferenza contrattuale, giacché attengono a situazioni per definizione patrimoniali, e non a rapporti, per definizione esistenziali e personalissimi”. Del resto, aggiunge l’A., nel nostro ordinamento, la seduzione deve ritenersi attività pienamente lecita, salvo i casi particolari di seduzione con promessa di matrimonio di matrice penalistica (fattispecie peraltro abrogata).
Si veda anche P. MOROZZO DELLA ROCCA, Violazione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità?, in Riv. crit. dir. priv., 1988, II,  605, con richiami di giurisprudenza  straniera, il quale, sebbene riconosca la configurabilità di illecito di natura aquiliana in caso di violazione degli obblighi matrimoniali, non ritiene azionabile il relativo risarcimento per i danni non patrimoniali, se non nel caso di illecito penale ai sensi dell’art. 2059 c.c.; G. BONILLINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 1988, 102 e s.; G. VILLA, Gli effetti del matrimonio,  in  Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini  e G. Cattaneo, Torino 1997.
[2] Cass.,  civ., 7 giugno 2001, n. 7713, in  questa Rivista, 2000, 923, con nota di P. ZIVIZ, nonché in Fam. dir., 2001, 159, con nota di M. DOGLIOTTI;  in Fam. dir., 2001, 189 (m), con nota di M. BONA; in Dir. fam. pers., 2001, 934; in Giur. it., 2000, 1352, con nota di PIZZETTI; in  Corriere giur., 2000, 873, con nota di  DE MARZO;  in Danno e resp., 2000, 835, con nota di  P.G. MONATERI, «Alle soglie»: la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale;  G. PONZANELLI, in Giust. civ., 2000, I, 2219;  in  Guida al diritto., 2000, fasc. 23, 42, con nota di FINOCCHIARO; in  Dir. giustizia, 2000, fasc. 23, 23,  con nota di  DOSI;  in Foro it., 2001, I, 187, con nota di D’ADDA.
[3] Trib. Roma, 17 settembre 1989, in Giur. merito, 1991, 754, con nota di R. LATTANZI, Dovere di fedeltà e responsabilità civile e coniugale, in Nuova giur. civ., 1989, I, 559, con nota di  V. PALETTO, Obbligo di fedeltà coniugale; in Contratto e impr., 1990, 607, con nota di P. CENDON, Non desiderare la donna d’altri; Trib.  Monza, 15 marzo 1997, in Fam.  dir., 1997, 462, con nota di A. ZACCARIA ; Cass.,  civ., sez. I, 19 giugno 1975, n. 2468, inedita
[4] Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Fam.  dir., 2001, 2, 161, con nota di M. DOGLIOTTI.

[5] App. Torino, 21 febbraio 2000, in Foro it., 2000, I, 1555, nonché in Arch. civ., 2000, 867; in Fam.   dir., 2000, 475, con nota di  DELCONTE. La Corte torinese individua nel comportamento di un coniuge le caratteristiche del mobbing, terminologia utilizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per descrivere le vessazioni psichiche cui, a volte, è assoggettato il lavoratore nel luogo in cui  svolge la sua prestazione. Pur non essendo stata avanzata una domanda di risarcimento del danno unitamente a quella di separazione con addebito, i giudici torinesi, nell’annullare la sentenza di primo grado, evidenziano la gravità di certi atteggiamenti che possono consumarsi all’interno della famiglia. Si trattava, in particolare di una coppia di sposi, socialmente e culturalmente evoluti, giornalista lui e biologa lei, che erano giunti alla rottura del vincolo matrimoniale a causa del comportamento vessatorio, prepotente e sprezzante del marito. Questi, infatti, additava la moglie di fronte a parenti ed amici come persona <<rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esercitando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia di origine, offendendola non solo in privato, ma anche davanti agli amici, affermando che avrebbe voluto una donna diversa ed assumendo atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa>>. Il comportamento denigratorio, mortificante e altamente lesivo della dignità della moglie era arrivato a tal punto da incidere sulla personalità della donna e sulla di lei autostima, tanto che essa verrà condizionata, anche se non del tutto indotta, nella scelta di interrompere la gravidanza, non sentendosi in grado di procreare e di affrontare la maternità. Non solo: l’attacco all’autostima e personalità della partner, sia per le radici di appartenenza che per il suo aspetto estetico, disprezzato dal marito in presenza di parenti ed amici, aveva indotto la donna ad abbandonare l’insegnamento, per inserirsi in una diversa struttura pubblica, dove non le veniva richiesto di misurare le sue capacità professionali. Il marito, inoltre, rifiutava qualsiasi collaborazione domestica, ritenuta di esclusiva competenza della moglie e per lui dequalificante; si dedicava ad attività imprenditoriali incompatibili con la sua professione di giornalista, inducendo la moglie e i suoi familiari a figurare da prestanome, senza ricevere alcun corrispettivo od utile; dichiarava liberamente in più occasioni che lo status di coniuge gli noceva, in quanto gli impediva di esprimersi come avrebbe voluto; in occasione dello stato di gravidanza della moglie, l’uomo rivelerà  alla suocera  di sentirsi come se avesse avuto <<un morto in casa>>; concentrava le sue energie esclusivamente nella propria affermazione professionale, curava <<sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere>>.
Il comportamento reiterato del marito, traducendosi in una violazione del principio di uguaglianza morale e giuridica sancito in generale dall’art. 3 Cost. e specificato nell’art. 29 Cost., viene posto dai giudici  a fondamento della pronuncia di separazione con addebito, in quanto contrario ai doveri che derivano dal matrimonio. 
[6] Trib. Roma, 13 giugno 2000, in Dir. fam., 2001, 209, con nota di M. DOGLIOTTI, La responsabilità entra nel diritto di famiglia; nonché in  Temi romana, 2000, 1157, con nota di A. R. COCCO., Riconoscimento del danno psichico al padre ingiustamente allontanato dal figlio.  In questa  ipotesi viene riconosciuto il risarcimento del danno in favore del padre leso nell’esercizio del diritto di visita, danno impropriamente qualificato come biologico, anziché esistenziale.
Sul tema, da ultimo, F. RUSCELLO, La tutela del  minore nella crisi coniugale, cit.,  290.
Anche la giurisprudenza penale sembra attribuire rilevanza al c.d. diritto di visita del coniuge non affidatario della prole. Il reato generalmente contestato in questi casi è la mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice, ex art. 388 c.p. Si veda, Cass., sez. V, 16 marzo 2000, in Giur. it., 2001, 2366: in questa particolare fattispecie la Suprema Corte osserva: “Nella specifica materia in esame, è di intuitiva evidenza il ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l’altro genitore, e ciò a prescindere dall’osservanza burocratica del relativo obbligo imposto col provvedimento giurisdizionale. Ne consegue che il rifiuto di fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta – verbale o scritta – dell’altro genitore di esercitare il diritto di visita dei figli, concreta l’elusione del provvedimento giurisdizionale che regolamenta tale rapporto, proprio perché l’atteggiamento omissivo dell’obbligato finisce col riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore non affidatario, proprio perché non sensibilizzati ed educati al rapporto con costui dall’altro genitore”. Nello stesso senso: Cass., sez. VI, 1 luglio 1997,  Perri, in Ced Cass., rv. 209279 (m); Cass., 3 marzo 1989, in Cass.  pen., 1990, I, 1338 (m); Cass., 2 dicembre 1985,  Altieri, in Giur. it., 1987, II, 239; Cass., 23 novembre 1984, Tornabene, in Riv. pen., 1986, 108 (m); Cass., 16 novembre 1981,  Michelis, in Riv. pen., 1982, 692; Cass., 4 giugno 1980,  Guidi, in Riv. pen., 1981, 28; in Giust. pen., 1981, II, 557; in Giur. it., 1981, II, 257.
Per una distinzione tra la fattispecie di “mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice” di cui all’art. 388 c.p., e quella di “sottrazione di persone incapaci” di cui all’art. 574 c.p., si veda Cass., 25 giugno 1986,  Ratiu, in Cass.  pen., 1988, 861, con nota di M. BACCI, Elusione del provvedimento del giudice concernente l’affidamento dei minori e sottrazione di incapaci: concorso apparente di norme o concorso formale di reati ?

8.  Normativa penale  e sovranita’ della lex Aquilia.

La presa d’atto delle peculiarita’ tecnico/morfologiche che contrassegnano i “danni esistenziali endo-familiari” rende ancor piu’ manifesto   quello che, pure nella sentenza in esame, si atteggia come il punto-chiave in vista di una retta intellezione dei rapporti  –  di raffronto e di bilanciamento – fra misure  sanzionatorie  contro il torto di cui al primo e, rispettivamente, al quarto libro del codice civile.
Ci si riferisce  all’imprescindibilita’ di un ricorso agli strumenti della lex Aquilia,  ogniqualvolta la messa in opera delle impugnative  familiari appaia tale –  per sua natura,  e per i risultati cui si perviene –    da non valere a neutralizzare   margini,  piu’ o meno significativi,  della componente che rappresenta il cuore della fattispecie di responsabilita’ civile (“la madre di tutte le componenti”):  vale  a dire il danno ingiusto.
In sintesi, con riguardo alle possibilita’ di tutela che figurano offerte dall’ordinamento, la  sequenza dei passaggi  difensivi, per la vittima,  e’ destinata a  svolgersi nei termini seguenti:
(a) e’ possibile che  entro il focolare di casa vengano consumati –  da parte di un  membro del nucleo contro un altro,  fintantoche’ il me’nage e’ ancora in piedi, talvolta anche nel periodo successivo –  una serie di illeciti; 
(b) illeciti che, nella maggior parte dei casi,  comporteranno il prodursi di danni,  di questa o di quella sorta,  sul terreno patrimoniale o non patrimoniale, a carico di uno solo o magari di piu’  tra i  familiari;
(c) danni che,  frequentemente,  appariranno tali da perdurare  – nella sfera di chi li ha patiti –   pur dopo il vittorioso esercizio delle misure di reazione familiari,  e  tali che soltanto il  ricorso agli ordinari mezzi aquiliani sara’, di regola, in grado di compensarli.
Trattasi  beninteso –  alzando  lo sguardo  al di la’ dei settori del c.c. qui in esame – di indicazioni non riducibili alla  mera considerazione dei materiali del diritto di famiglia. Quella della “sovranita’ disciplinare” si atteggia come nota distintiva dell’illecito rispetto a qualsiasi altro comparto del sistema giuridico,  dentro e fuori l’universo privatistico.
Prendiamo il campo dei reati. A nessun interprete (quand’anche un testo come l’art. 185 c.p non esistesse) verrebbe in mente  di sostenere  che l’applicazione della sanzione penale  abbia – oggigiorno –   l’effetto di mettere  fuori causa, dinanzi a  condotte idonee a rilevare  sia sul versante penale sia su quello extracontrattuale,   ogni possibilita’ di una tutela risarcitoria.
E cio’ non   tanto, com’e’ evidente,  per la considerazione  che nella law in action   i reati finiscono talora –  vuoi per la crisi della giustizia penale, vuoi per l’estinzione del reato per prescrizione,  vuoi  per il patteggiamento da parte del reo, vuoi per altre ragioni –   per non essere effettivamente perseguiti[1].  Il punto, con riferimento alle stesse ipotesi in cui una sanzione penale risulti, alla fine, irrogata,   e’ che i danni patrimoniali o non patrimoniali  subiti dalla vittima potranno essere riparati,  ancora una volta,  solo attraverso l’apposito e ulteriore esercizio dell’azione risarcitoria. Almeno nella maggioranza dei casi.
Sono conclusioni tanto piu’ sicure, osserviamo,  proprio in relazione a figure  come quelle dei reati  commessi/patiti   – biunivocamente – all’interno della famiglia. Specie quelli di tipo interconiugale.

In effetti: come non vedere che  il pregiudizio  e il dolore risentito (poniamo) da una donna la quale subisca un tentativo di uxoricidio, che venga percossa sistematicamente entro le mura di casa, che si veda costretta dal compagno a prostituirsi,  che si scopra diffamata o calunniata dal suo sposo, oppure sfregiata, molestata sessualmente, rinchiusa in cucina con la forza, magari incatenata al letto, sbeffeggiata, punzecchiata, contagiata da una malattia venerea[2], e cosi’ via, non verra’ affatto cancellato e ristorato per la sola circostanza che il compagno autore di quei fatti   subisca poi  – anche in misura severa – la condanna penale per essi prevista?
In prospettiva, del resto. Se  e’ vero che un’alta percentuale   (del totale) dei reati   commessi annualmente,  in Italia,  corrispondono a fatti compiuti entro le mura domestiche, la proposta di escludere, in casi del genere, la vittima da qualsiasi possibilita’ di tutela risarcitoria,  contro il congiunto/reo,  non equivarrebbe a una semi-abrogazione ufficiale dell’art. 185 c.p.? Comunque a una sorta di ritorno a diritti primitivi, aurorali – sistemi orientati a vedere,  nei  filamenti piu’  deboli del nucleo domestico,  poco piu’ che delle cose, degli oggetti; in ogni caso,  esseri inermi contro le prepotenze del pater familias, proni ai vessilli dell’unita’ casalinga, privi di ogni legittimazione a difendersi?[3]
Resta il fatto che nel  ricorso alla sanzione penale e’ non di rado ravvisabile –   all’interno della famiglia,  stando alla prassi corrente –  una  sorta di forzatura funzionale.  
Ci si riferisce a quelle varie situazioni in cui il coniuge vittima  del mancato adempimento,  ad opera del partner,  di questa o  quella prestazione,  patrimoniale o non patrimoniale  (misura   stabilita in un precedente provvedimento giudiziale: ad es., decisioni sull’uso della casa d’abitazione, sull’assegno di mantenimento, sulla corresponsione di alimenti,  sull’affidamento dei figli),  si orienta a utilizzare –  quale braccio immediato per  la realizzazione di detta pretesa –  la messa in gioco del diritto penale. Ossia procede contro il partner, inosservante o moroso,  attraverso una denuncia ex art. 388 c.p. (inosservanza del provvedimento del giudice o di pubblica autorita’).
Che dire al riguardo?
E’ palese  come il raggiungimento dell’ obiettivo  che interessa andrebbe,    in casi del genere,  perseguito ben diversamente:  ossia mediante una promozione di  giudizi di esecuzione coattiva, o attraverso azioni di responsabilita’ civile. Cosi’ com’e’ pacifico, aggiungiamo,   che iniziative  siffatte non vengono di solito messe in campo dalle vittime per ragioni contingenti,  estemporanee –   di tipo essenzialmente “culturale”: manca  nel nostro ambiente (accademico e forense)    una sensibilita’ davvero diffusa,   ramificata,  circa i compiti e le effettive risorse  dell’illecito civile[4].
Di nuovo e’ chiaro  tuttavia – anche con riguardo  alle situazioni concrete in cui  un ricorso ex art. 388 c.p. (x) apparisse promosso congruamente dall’interessato, (y) si rivelasse ben fondato nella sostanza, (z) conducesse  in effetti alla condanna penale del coniuge inadempiente –  come non per  questa ragione il danno subito dal ricorrente potrebbe dirsi risarcito, in tutto o in parte.

[1] Emblematica,  al riguardo, proprio la vicenda sottoposta all’esame della Cass., 7 giugno 2001,  n. 7713, cit., dove il padre  – inadempiente all’obbligo di mantenimento e imputato del reato di cui all’art. 570 c.p.  – aveva chiesto il patteggiamento e corrisposto integralmente tutti gli arretrati: tuttavia, l’inadempimento dell’obbligo protrattosi per diversi anni, quale illecito ex se, aveva provocato un danno residuale – appunto esistenziale – nei confronti del minore.
[2] Si vedano M. DOGLIOTTI e A. FIGONE, I rapporti familiari, in La responsabilità civile, VIII, cit., 68, i  quali  richiamano una sentenza di Cassazione in cui era stata ritenuta la condanna del marito che aveva contagiata la moglie con una malattia venerea.
[3] Né  – benché la prudenza sia in questi casi d’obbligo –   il richiamo a  motivi di stampo “femministico” apparirebbe, nell’ipotesi che stiamo esaminando,  tanto stonato o  fuori luogo. Semplici  coincidenze  (viene da chiedersi)  il fatto che coloro i quali avversano più fieramente l’ingresso della responsabilità in famiglia siano,  di solito,  giuristi di sesso maschile?  e che le vittime del danno, nelle  non molte sentenze emesse finora in Italia,  risultino sovente delle donne?
[4] A riprova della stortura  vi è lo stesso dato sostanziale dell’art. 388 c.p., quale norma diretta a tutelare l'”amministrazione della Giustizia”,  e non  già la persona in quanto tale o il rapporto di filiazione o la tutela del minore (o, almeno, non in via esclusiva): in sostanza, il bene protetto dalla norma è diverso da quello effettivamente leso,  in fattispecie siffatte,  dalla vittima dell’illecito (ad es., il  genitore che si vede violato quanto al diritto di visita; il  minore  o il coniuge che non riceve il mantenimento dal debitore, etc.). Dunque, nei casi di illeciti endo-familiari non sempre vi è una perfetta coincidenza tra lo strumento predisposto dal legislatore penale e l’interesse giuridicamente rilevante, come appena esemplificato con i casi di applicazione dell’art. 388 c.p.: in queste ipotesi  solo la r.c.  può neutralizzare i danni consumati tra le pareti domestiche. Ed infatti, se la vittima scegliesse lo strumento (improprio) penale e decidesse di azionare l’art. 388 c.p. mediante una querela, il risarcimento sarebbe alquanto modesto, posto che il danno morale è comunque agganciato alla gravità del reato (la pena è assai modesta, il reato si patteggia, in molte ipotesi la pena detentiva viene convertita in pena pecuniaria).
Il fatto che lo strumento nello specifico (art. 388 c.p.)  appaia inadeguato, emerge a maggior ragione ove si consideri che occorre sempre e comunque –  ai fini della punibilità  – una sentenza o un provvedimento della autorità giudiziaria collegabile ad altre fattispecie (es. separazione, divorzio), mentre esso non sarebbe utilizzabile ad elidere il danno negli altri casi. Si richiamano le sentenze citate retro, alla nota 26.


9. Pluralita’ di tutele in ambito privatistico: concorso della r.c. con altri rimedi

Scendendo allora di un gradino, e passando all’ipotesi di un  concorso di rimedi tutti quanti  privatistici, particolarmente indicativo  – dal punto di vista della  sovranita’ della lex  Aquilia – appare il ventaglio di quelle situazioni  in cui, dal legislatore,   figura menzionata esplicitamente la possibilita’ di  difendersi contro  il torto:  (a) con un’ azione di tipo petitorio o inibitorio o risolutorio o di adempimento coattivo o altro ancora;  (b) nonche’,  parallelamente,  con un’azione di risarcimento del danno.

Basta pensare, in proposito, a quanto figura disposto dall’art.7 c.c.,  circa la tutela del nome; oppure dall’art. 10,  in relazione all’abuso dell’immagine altrui.

E si segnalano, ulteriormente, fattispecie  come quelle di cui all’art. 917, in merito  alla distruzione  degli argini dovuta colpa di uno dei proprietari;  all’art. 935,  per le opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui; all’art. 936,   nel  caso di opere fatte da terzo con materiali propri;   all’art. 937,  nell’eventualita’ di opere fatte da un terzo con materiali altrui; all’art. 938,  rispetto  all’occupazione di fondo attiguo; all’art. 939,  a proposito dell’unione e della  commistione; all’ art. 948,  in materia di rivendicazione della proprieta’; all’art. 949, in tema di azione negatoria; all’art 1015,  a proposito degli abusi  dell’usufruttuario;  dall’art.1079,  in merito alle azioni a difesa delle servitu’; dall’art.  11711,  sul terreno della denunzia di nuova opera.

Oppure – passando al campo delle obbligazioni e dei contratti –   ecco i casi previsti dall’art. 1192 (pagamento eseguito  con cose altrui); dall’art. 1197 (prestazione in luogo di inadempimento); dall’ art. 1224  (danni nelle obbligazioni pecuniarie); dall’art.  1382,  in ambito di clausola penale; dall’art 1453, in tema di risoluzione del contratto per inadempimento; dall’art. 1480 (vendita di cosa parzialmente altrui);  dall’art. 1494  (vizi della cosa venduta); dall’art. 1512  (garanzia di buon funzionamento); dall’art. 1515  (esecuzione coattiva per inadempimento del compratore); dall’ art. 1516  (esecuzione coattiva per inadempimento del venditore);  dall’art. 1526  ( vendita a rate e risoluzione del contratto); dall’art. 1553 (evizione);  dall’art. 1668  (difetti dell’opera nell’appalto); dall’art. 1751  (cessazione del rapporto di agenzia);  dall’art. 1804  (inadempimento del comodatario).
Potremmo ancora  ricordare l’ipotesi disciplinata  dall’art. 2234  (inadempimento del prestatore d’opera); oppure  quelle indicate in  varie norme in materia di societa’. Ne’ il discorso  appare limitato al codice civile: basti pensare,  nel c.p.c.,   a previsioni come quelle di cui agli artt. 64  (responsabilita’ del consulente),  67   (responsabilita’ del custode),  89  (espressioni sconvenienti e offensive), 162   (nullita’ degli atti).

E’ appena il caso di sottolineare come, in tutte queste evenienze [1],  il risarcimento del  danno non sara’ qualcosa destinato a scattare automaticamente. Potrebbe darsi che un danno ingiusto fosse stato  pur arrecato, alla persona della vittima –  e che l’esercizio del rimedio particolare si annunciasse  tale comunque,  nella fattispecie concreta,  da neutralizzarlo completamente.

Potrebbe non essere cosi’, tuttavia. E in tale eventualita’ l’ulteriore possibilita’ del ricorso alla misura aquiliana restera’, per l’appunto,  aperta a beneficio del danneggiato.

[1] Altri esempi sono reperibili  nella legislazione speciale. La possibilità di far capo ad uno o più rimedi specifici contro il torto, e di richiedere in più il risarcimento del danno, appare stabilita  a chiare lettere – in particolare –  nell’ art. 10, l. 353/2000  (legge-quadro in materia di incendi boschivi), nell’art. 58, d.lg. 152/1999 (tutela delle acque dall’inquinamento),  nell’art. 44, d.lg. 286/1998 (testo unico sull’immigrazione),  nell’art. 2, l. 192/1998 (disciplina della sub-fornitura nelle attività produttive),  nell’art. 35, d.lg. 80/1998 (controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa),  nell’art. 18, l. 675/1996 (trattamento dei dati personali),  negli artt. 12 e 17, d.lg. 111/1995 (viaggi, vacanze, circuiti «tutto compreso»),   negli artt. 34, 37,  44, 45,  47, 48, 75, 76, 79,  81, della  Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, negli  artt. 20 e 42, l. 203/1982 (contratti agrari, con riguardo al diritto di ritenzione e al diritto di ripresa),  nell’art. 18, l. 300/1970  (statuto dei lavoratori, reintegrazione nel posto di lavoro),  nell’art. 108, d.p.r. 1229/1959  (ufficiali giudiziari e aiutanti ufficiali giudiziari, mancata esecuzione degli atti),  nell’art. 12, l. 47/1948 (disposizioni sulla stampa (riparazione pecuniaria oltre al risarcimento), nell’art. 66, l. marchi  (azione inibitoria per la tutela contro violazioni di marchi), negli  artt. 142  e  158 l. autore, nell’art. 85, r.d. 1127/1939 (brevetti per invenzioni industriali, violazione),  nell’art. 8, r.d.l. 436/1927 (disciplina dei contratti di compravendita degli autoveicoli).


10.   L’art. 2043 c.c. come clausola generale


Quanto detto  non significa  d’altro canto  (e scendiamo cosi’  ancora di un gradino)    che la’ dove il legislatore  figuri aver previsto,  contro determinate condotte,   unicamente sanzioni di natura specifica –  senza ulteriori precisazioni circa la possibilita’ concorrente del risarcimento –  l’accesso alla lex Aquilia rimarra’  per cio’ stesso precluso[1].
Basta scorrere  un  qualsiasi repertorio di giurisprudenza –  l’imbarazzo e’  solo quello della scelta,   tanti  appaiono i passaggi  in grado di interessare il lettore.
Ad esempio: il locatario,  il quale sia stato vittima di qualche molestia di  fatto,  ad opera di un terzo, puo’ – come si sa – richiedere direttamente a quest’ultimo la cessazione delle stesse. Il legislatore non prevede espressamente, nel testo dell’art.1585 c.c.,  la possibilita’ dell’azione ex art. 2043 c.c. (o norme collegate). Nessuno  dubiterebbe pero’ che,    la’ dove la turbativa in questione vanti i crismi dell’illiceita’, e qualora un pregiudizio residui  al vittorioso esercizio del rimedio specifico (magari con riferimento al periodo anteriore alla cessazione),   tale voce andra’ risarcita al conduttore.
Oppure: tutti concordano – benche’ il codice, in sede di disciplina  dell’azione di reintegrazione possessoria, non menzioni la possibilita’ del risarcimento –   che laddove danni di sorta perdurino in capo al possessore di buona fede (spogliato violentemente o clandestinamente,   in ordine  all’eventualita’ di distruzione, smarrimento o  restituzione tardiva della cosa),  tali danni dovranno  ripararsi dall’autore dello  spoglio.
Ancora: chi abbia subito un‘immissione  tale da superare la (soglia della) normale tollerabilita’,   puo’ pretendere la cessazione dell’attivita’ immittente per il futuro;   e  potra’  chiedere altresi’ all’autore il ristoro dei danni,  in relazione al periodo passato.  Cosi’ pure la vittima di un atto emulativo. E parimenti, il  contraente che  figuri vittima dell’altrui violenza  o del dolo negoziale, ad opera  della controparte, oppure del terzo,  potra’ – oltre all’annullamento del contratto –  ottenere pure il risarcimento del danno che  residuasse alla disposta invalidazione. 
Ancora: la (possibilita’ del ricorso alla) misura  aquiliana  restera’ aperta,  correntemente,  a chi risulti vittima di una frode, di messinscene testamentarie, di usurpazioni in mala fede,  di distruzioni o alienazioni dolose della cosa indebitamente consegnata,  di abusi dei  rapporti di vicinato, di illeciti di stampa,  di violazioni della proprieta’ industriale, etc.
Sul piano istituzionale l’osservazione di fondo, in tutte queste ipotesi,   non muta. L’art. 2043 c.c. costituisce una “clausola generale” – norma da applicare ogniqualvolta ricorrano, in concreto,  determinati estremi di fondo:  anche nel nostro caso,  un comportamento illecito e l’inflizione di un danno alla vittima.
Naturale, se non altro per ragioni di economia,  che solo occasionalmente il legislatore, disciplinando le singole situazioni conflittuali,   si faccia carico  di menzionare      expressis verbis – accanto allo  strumento tipico di salvaguardia –  l’ulteriore possibilita’ del ricorso all’azione risarcitoria  (o ad altri mezzi difensivi di ordine generale).

[1] Opportunamente la dottrina distingue la rilevanza giuridica che un medesimo fatto, commesso da un coniuge nei confronti dell’altro, può assumere quale causa di causa personale di separazione e divorzio e, rispettivamente,  quale fonte di illecito risarcibile. Si afferma, in particolare: “In altri termini, lo stesso fatto – in ipotesi colposo – rileva quale mero indice della intollerabilità della convivenza ai fini della separazione personale e del divorzio, ma ben può rilevare quale presupposto del risarcimento del danno ove la parte lesa intenda servirsi di uno strumento di tutela che le spetta nei confronti di tutti i consociati. Si consideri, tra l’altro, che una soluzione diversa trasformerebbe le disposizioni relative alla separazione personale ed al divorzio in norme di favore per il coniuge responsabile, determinando un’immunità per l’illecito eventualmente commesso che non trova alcun fondamento nel sistema, né alcuna giustificazione razionale”: così S. PATTI, Famiglia e responsabilità civile,  cit.,  77.


11. Addebito  della separazione e condanna risarcitoria 


Tornando allora ai materiali di cui al primo libro del c.c.: non si vede perche’  il legislatore  –   trattando della famiglia –     avrebbe dovuto preferire (cioe’  avrebbe adottato)  una tecnica disciplinare sostanzialmente differente,  o addirittura opposta,  rispetto a quanto operato  via via in materia di possesso,  di locazione, di indebito.
Difficile capire insomma – tenuto conto che, se i reati commessi entro il focolare sono alquanto numerosi, tanto piu’ lo sono le figure di danneggiamento casalingo aventi comunque i crismi dell’illiceita’ –   come mai in casi simili il pregiudizio (patito dal coniuge, da un figlio, da un fratello)   non dovrebbe essere risarcito[2].
Impossibile, piu’ in generale, scorgere le ragioni che farebbero della cinta domestica un luogo deputato  a privare l’individuo – quasi fossimo dinanzi a un ingresso nella legione straniera, nei feuilleton  del primo novecento – dei suoi diritti piu’ preziosi. 
Ne’ mancano del resto   ipotesi in cui e’ lo stesso legislatore, dei nostri tempi,  ad avere    previsto che determinati torti, compiuti in ambito familiare,  saranno passibili sia di una sanzione specifica, sia dell’obbligo risarcitorio.
Ad esempio,  l’art. 49, della l. 184/1983 –  dopo aver stabilito nel primo comma che  “l’adottante deve fare l’inventario dei beni dell’adottato e trasmetterlo al giudice tutelare entro trenta giorni dalla data della comunicazione della sentenza di adozione” –   precisa  nel secondo comma che  “l’adottante che omette di fare l’inventario nel termine stabilito o fa un inventario infedele puo’ essere privato dell’amministrazione dei beni dal giudice tutelare, salvo l’obbligo del risarcimento dei danni”.
La conclusione non sara’ diversa tuttavia nella sostanza  – questo il dato da rimarcare – allorquando la seconda via d’uscita (quella aquiliana) non risulti menzionata espressamente.

Prendiamo l’esempio forse di maggior spicco in materia, l’addebito  nella separazione fra coniugi.  Quest’ultima misura –  con i vari riflessi suscettibili di conseguirne (in punto di  assegno di mantenimento, o di esclusione dei diritti ereditari) –   scattera’ in tutti i casi in cui il venir meno della comunione materiale e spirituale,  cioe’ l’intollerabilita’ della convivenza tra gli sposi,  appaia imputabile alla condotta  violativa degli obblighi fra marito e moglie. Il baricentro e’ posto cioe’ dall’ordinamento sul comportamento offensivo.
Viceversa, ecco il punto,   il risarcimento appare un mezzo destinato a  entrare in gioco la’ dove sia stato leso l’individuo,  in quanto tale –  sotto il profilo statico  o  dinamico, reddituale o meno, fisico come psichico:  allorche’ risultino compromesse, in particolare, l’esplicazione e la realizzazione della sua personalita’ (anima  e corpo), per colpa di un familiare. Il fuoco disciplinare appare riferito, insomma, alle condizioni peculiari della vittima.
Nella prima ipotesi la funzione essenziale e’ quella assistenziale/solidaristici (e cio’ vale anche per assegno divorzile)[3];  nella seconda quella reintegratoria/sanzionatoria.
Non a caso si e’ parlato in dottrina (considerando la diversita’ di rationes tra norme del primo e, rispettivamente, del quarto libro) di “concorso formale” o di “pluri-antigiuridicita’” dell’illecito –  con riguardo alle situazioni in cui il gesto,  da censurare sul piano aquiliano,  sia tale da integrare  al tempo stesso   la violazione degli obblighi  matrimoniali.
Detto altrimenti. Sappiamo come il vittorioso esercizio del rimedio familiare,  qualora una lesione (del diritto soggettivo) della persona si sia  verificata,  non bastera’  – di regola – a neutralizzare o ad assorbire il danno eventuale,  presso il singolo coniuge[4]. Ed e’ un punto che verra’ ripreso fra breve, nell’esame di alcuni casi significativi.
Ma i  conti tornano per l’interprete   – questo il dato da sottolineare –   pure dall’angolo  strettamente funzionale.
Cosi’, anzitutto, pensando  ai provvedimenti relativi alla crisi della famiglia. In particolare: e’  risaputo    come i compiti  e le finalita’ cui e’ chiamata la condanna al pagamento dell’assegno di mantenimento,  per effetto dell’addebito della separazione.  siano di natura essenzialmente alimentare –   tanto che l’art. 156 c.c. condiziona ogni erogazione alla prova della mancanza di adeguate risorse, in capo allo sposo cui non sia addebitabile la separazione.

Ne’ il discorso e’ diverso, occorre aggiungere,  per cio’ che attenga alla misura della  perdita dei diritti ereditari (in capo  allo  sposo “colpevole”):  ci troviamo dinanzi a uno strumento non certo idoneo, ancora una volta,  ad eliminare le negative conseguenze economiche dell’illecito –  soprattutto ove  si consideri quanto l’introduzione del divorzio ne abbia, sotto vari aspetti, affievolito i tratti sanzionatori.

[2] Per un caso pionieristico di responsabilità civile tra familiari, si veda  Trib. Piacenza, 31 luglio 1950, in Foro It., 1951, I, 987,  in cui fu accolta la domanda di risarcimento  del danni proposto da una minore contro i genitori,  che le avevano trasmesso l’infezione luetica (c.d. sifilide). Il pregio della sentenza, al di là di ogni considerazione per i tempi,  sta nel fatto che essa esclude ogni possibile immunità o privilegio in capo al familiare: “se è fatto illecito trasmettere la lue a persona già esistente, non si vede perché non lo debba essere ugualmente a persona futura, sempre che il legame causale esista”.
[3] Per tutti M.DOGLIOTTI e A.ANSALDO, Gli effetti patrimoniale e personali fra coniugi, in La Famiglia, cit, Torino, 200, VI, 1117 segg., in particolare 121, ove ampi richiami di giurisprudenza. Da ultimo D. CULOT, Separazione e divorzio in appello, Milano, 2002, 311.
[4] Che gli strumenti specifichi previsti dal primo libro di matrice familiare siano inadeguati ad eliminare il danno subito da un coniuge per il comportamento illecito dell’altro  è opinione  condivisa da A. FRACCON, op. cit., 385 e s.  Si sottolinea qui, in primo luogo,  la incongruenza del sistema che prevede la pronuncia di addebito come ipotesi eccezionale, i cui vantaggi patrimoniali  – viene rimarcato – non sono esaustivi delle istanze del coniuge economicamente più debole. Del pari, la tutela penalistica sarebbe limitata alle sole ipotesi di illeciti dolosi.
Inadeguato  – può osservarsi – va ritenuto  pure  l’art. 145 c.c., avente una  funzione  prettamente “conservatrice” del vincolo,  nonché riparatrice della frattura  coniugale:  qui il giudice svolgerà  un ruolo puramente conciliativo,  essendo la norma priva di qualsiasi  valenza afflittiva.
Tale impostazione è seguita – in generale –  dalla dottrina, secondo la quale le sanzioni specifiche sia civilistiche che penalistiche sono talvolta una reazione insufficiente,  e talaltra una misura inutilizzabile per le varie infrazioni, “giacché l’addebito della separazione non sembra avere la capacità di riparare il pregiudizio subito dal coniuge adempiente, mentre gli altri mezzi di coazione sono oggetto di un’applicazione settoriale, limitata alla protezione di alcuni specifichi diritti”: così G. VILLA, Gli effetti del matrimonio, loc. ult .cit.
Sul punto si veda anche Trib. Milano, 10 febbraio 1999, in Fam.  dir., 2001, 185, con nota di M. BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?; nonché in Dir. fam. pers., 2001, 3, 988.  Se da un canto –  afferma il Tribunale –  esiste una tutela specifica accordata dal codice civile e dalla legge sul divorzio (come l’addebito di cui all’art. 151 c.c., 2° comma, ovvero la sanzione di cui all’art. 146 c.c.), nonché dal codice penale (con il reato di cui all’art. 570 c.p.), è anche vero che “tali normative non esauriscono affatto il sistema delle misure atte a colpire il comportamento illegittimo, in primo luogo perché si tratta di sanzioni settoriali o solo eventuali, come l’addebito (la perdita del diritto all’assegno di mantenimento presenta il duplice limite di colpire solo il coniuge che ne avrebbe avuto il diritto e di non avere alcuna conseguenza pratica, in presenza di modeste capacità finanziarie dell’obbligato, per non parlare della perdita del diritto a succedere, che è sanzione sostanzialmente svuotata di significato dall’istituto divorziale), che è comunque insufficiente a riparare il pregiudizio subito dal coniuge adempiente. Secondariamente, in quanto la tutela penale viene ormai riconosciuta soltanto alla violazione del dovere di assistenza economica e morale, con esclusione del dovere di fedeltà”. Conclude su tale punto,  il tribunale,  affermando che “le sanzioni specifiche, che costituiscono una tutela della famiglia,  come formazione sociale primaria e, altresì, dei suoi componenti, non esauriscono, a parere del Collegio, i rimedi a tutela del coniuge adempiente in quanto persona, per il quale la famiglia può e deve costituire un ambito di autorealizzazione e non di compressione dei diritti irrinunciabili, quali quello della salute, dell’incolumità personale, dell’onore, ecc.” (così in motivazione).

12. Tipologia dei  pregiudizi interconiugali

La fondatezza dei rilievi sin qui svolti  non varia significativamente a seconda della tipologia   delle conseguenze lesive  che vengano,  volta  a volta,  in evidenza.
(a) Cosi’ per quanto concerne, anzitutto,  il campo dei danni patrimoniali[1]. 
Potra’ trattarsi –  secondo una gamma di cui la cronaca giudiziaria  e’ tristemente ricca –   di  un “danno emergente”: la moglie derubata o truffata dal marito;  oppure bersaglio  di qualche appropriazione indebita, di un incendio doloso, di  illeciti bancari, di    falsificazioni nella firma. O  piuttosto   un marito   vittima   (poniamo) di condotte rilevanti sul terreno meramente civile, ad opera della moglie:  distruzione di quadri, uccisione di animali, smarrimenti colposi,  vendita di beni personali dell’uomo, alienazioni di beni della comunione  –  tali per cui i rimedi di cui all’art.184 c.c. non saranno, poi,  in grado di neutralizzare questa o quella fascia di perdite[2].
Oppure, restando al danno patrimoniale,  potra’ trattarsi di un’ipotesi di “lucro cessante”: un coniuge che abbia (mettiamo) colpito e ferito il proprio coniuge –  volontariamente,  colposamente, in circostanze tali da attivare criteri oggettivi di imputazione – mettendolo cosi’    in condizioni di non potere piu’ pensare, disegnare, viaggiare, indire riunioni,  amministrare il proprio patrimonio, per un arco di tempo piu’ o meno ampio.
In entrambi  i casi la conclusione appare la medesima:   nessun ricorso ai mezzi  difensivi di tipo familiare  varra’ a compensare,  di norma,  il danno che e’ stato prodotto  – non del tutto almeno. L’eventuale pronunzia di separazione o di divorzio o altro non impedira’ al coniuge vittima di chiedere,    pertanto,   il risarcimento.
(b) Stesso discorso, mutatis mutandis,   in ordine al capitolo dei danni biologici interconiugali.
Il caso potrebbe  essere –  questa volta –   quello di un  marito il quale abbia arrecato lesioni volontarie alla propria moglie; o  potra’  trattarsi di  un incidente automobilistico,  a seguito del quale uno sposo sia rimasto ferito, essendo l’altro sposo alla guida della vettura.
Altro scenario familiare: quello di  una moglie la quale abbia, consapevolmente e deliberatamente,    contagiato di AIDS il marito. O  il cattivo di turno sara’,  piuttosto,  un marito il quale architetti (come Charles Boyer nel film “Angoscia”)  messinscene e arcani rumorosi in soffitta, onde far impazzire la propria moglie  (Ingrid Bergman) e che quasi riesca nel proprio intento[3].
Che dire al riguardo?  Il  fatto che  i due protagonisti siano sposati fra di loro (o che sia magari iniziata  o conclusa,  tra i due, una pratica di separazione o di divorzio)  non  incidera’ sui tratti di piena risarcibilita’ di quelle lesioni –  laddove il coniuge colpito fisicamente o psichicamente intendesse, rimedio tipico a parte,  chiedere a un certo punto  il risarcimento.
(c)  Non diverse le conclusioni sul terreno dei danni morali. 
Cosi’ anzitutto nelle ipotesi – gia’ accennate – di  percosse, di lesioni, di sfregi, di maltrattamenti, da parte di uno sposo contro un altro sposo;  cosi’, parimenti, nell’eventualita’ di tentato omicidio, di offese, di ingiurie, di calunnie,  di diffamazioni; oppure in caso di gravi reati commessi,  da  parte di uno dei  genitori, contro un proprio figlio (in relazione alle sofferenze inflitte, per riflesso,  all’altro coniuge/genitore). 
Ancora una volta: non si comprende perche’  i risvolti dolorosi collegati ad uno di questi reati –  nel quadro di vicende destinate a concludersi, abitualmente,  con la fine ufficiale di quel me’nage –  non dovrebbero consentire allo sposo/vittima di agire, contro l’ex partner,  sul terreno dell’art.2059 c.c. (e norme collegate). (c) Lo stesso  infine sul terreno dei danni esistenziali.

Molte  anche qui le  occasioni di offesa, disagio o  spaesamento  immaginabili –  esempi magari gia’ incontrati sopra,  e da riconsiderare  ora sotto il profilo colloquiale/relazionale. Basta sfogliare i repertori di giurisprudenza:
– violazioni,  anzitutto,  di un diritto della personalita’  del coniuge (attentati alla segretezza,  alla corrispondenza, alla privacy)[4];  limitazioni delle sua liberta’,  imposizione di culti  religiosi[5] tali da intralciare  pesantemente la vita quotidiana;  ingiurie e diffamazioni della famiglia del partner, del suo lavoro[6], del suo ruolo, dei suoi amici, della sua  professione; maltrattamento   dei  figli di primo letto dello sposo;
–  minacce al tenore di vita,  e al benessere economico,  del compagno o della cellula domestica in quanto tale: truffe,  inganni, abusi di fiducia, invadenze, usurpazioni; privazioni di ogni supporto alimentare,  gesti di irresponsabilita’ patrimoniale: il marito  prodigo e spendaccione, che dissipa i beni di casa, che rifiuta sistematicamente di lavorare, che gioca in continuazione alle corse, che presta denaro a destra e a manca; frivolezze esagerate della moglie, smanie per i gioielli, frequentazione di strozzini, bovarismi, scompensi tra “balocchi e profumi”, ricerche ossessive del lusso, della vita mondana;
– torti compiuti da un coniuge in danno dell’altro nella fase di separazione,  oppure dopo lo scioglimento del matrimonio:  inadempimento, ad es.,  degli obblighi di mantenimento[7], invasioni del domicilio,  molestie,  bugie o dilazioni processuali pretestuose, appostamenti, terrorismi, alterazioni contabili,  violazioni  dei diritti di visita[8];
– illeciti legate all’universo dei figli, futuri e presenti: la moglie o il marito, poniamo,  che rifiuta a ogni costo di programmare un bambino, senza serie ragioni, calpestando magari precedenti accordi (documentati con lettere  e promesse al tempo del  fidanzamento):  il marito che procrastina,  artatamente,  i tempi e i gesti del concepimento fino al punto da rendere impossibile per la donna di generare; menzogne circa l’identita’ del vero padre[9];  imposizioni varie (nei confronti   della moglie)   ad affrontare  cure estenuanti contro l’infertilita'[10];
– violenze grandi e piccole della quotidianita'[11]:  corruzioni del linguaggio, persecuzioni accusatorie;  il mondo di Guy de Maupassant;  gelosie  costanti e senza motivo, vittimismi smodati, convivenze imposte in casa (parenti, commilitoni, ultras, correligionari);  pressioni indebite, la moglie  e la suocera che istigano forsennatamente il marito a guadagnare  piu’ soldi[12], a fare carriera in fretta e con ogni mezzo;   impedimenti  e divieti,   da parte del marito alla moglie,  a lavorare, a riprendere gli studi,  a coltivare se stessa, a esprimere i propri talenti;
– pesantezze legate al sesso:   gusto sfrenato per i travestimenti,  inclinazioni alla pedofilia, sadismi e masochismi di vario genere; reati, incesti, incitamento o sfruttamento della prostituzione; sopraffazioni, abusi,  spionaggi e voyeurismi continui, insaziabilita’;  “fantasie malate”, costrizioni della moglie agli scambio di coppia, magari a comportamenti sconvenienti o ripugnanti;   corrispondenze  postali e chat ossessivi, collezioni disgustose,  abbonamenti segreti a iosa, feticismi oltremisura,  frequentazione spasmodica di   siti pornografici,   su Internet o in TV;
– comportamenti  morbosamente asociali,  bizzarri, immaturi:  misantropie croniche,  sordita’ ostinate,  allacciamenti interrotti unilateralmente,  blindature al limite della paranoia, rifiuti totali  del dialogo  in casa (come nel film “Le chat “; Jean Gabin che decide di comunicare con la moglie Simone Signoret, da un certo momento in poi,  solo attraverso foglietti); esclusioni  del coniuge da ogni contatto con gli altri;  accidie spropositate, infantilismi, meschinita’ sentimentali, glacialita’ alla Karenin,  monopolio di ogni chiave,  dedizione fanatica a hobby individuali  (calcio, speleologia, alpinismo),  trascuratezze igieniche,  anancasmi, regressioni,  eccessivi  attaccamenti alla famiglia di origine.
E’ palese quale sara’, in ipotesi del genere, il filo orientativo per l’interprete: impossibilita’ di far capo, tecnicamente,  a letture  e ricostruzioni in cui risultasse  denegata al coniuge-vittima  (deciso,  oppure no, a separarsi e a divorziare dal proprio  partner)  la possibilita’ di chiedere il risarcimento.
Ed e’chiaro altresi’, agli effetti pratici, il valore che una simile conclusione assumera’ particolarmente sull’ultimo crinale  esaminato, quello dei   danni  di natura esistenziale:   ove appaiono destinate a interagire, in chiave contrastiva o patologica,   un po’  tutti i filamenti connessi alla sfera del “fare/essere”  quotidiano –  le voci piu’ importanti,  forse,  nella vita di ciascun essere umano,    al di la’ di distinzioni legate al sesso, alla provenienza geografica, alle condizioni sociali e culturali, all’eta’, e cosi’ via. 

[1]  Lo stesso codice civile prevede un’ipotesi di danno patrimoniale tra coniugi: si tratta della fattispecie prevista dall’art. 217 c.c., che regola l’amministrazione e il godimento dei beni. In primo luogo, se ad uno dei coniugi è stato conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro, con l’obbligo di rendere il conto, questi è tenuto verso l’altro secondo le regole del mandato. In caso di mala gestio del mandatario, il coniuge danneggiato potrà dunque azionare una domanda risarcitoria.
In secondo luogo, la stessa norma prevede che –  in caso di ingerenza illecita di un coniuge nella amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo l’altro coniuge –  questi ha diritto al risarcimento del danno. Lo stesso varrà  nel caso in cui un coniuge compia di atti di disposizione dei beni di proprietà esclusiva dell’altro.  Nessun dubbio che, in tali ipotesi,  il coniuge leso potrà chiedere ed ottenere il risarcimento del danno patrimoniale subito.
[2] Sui problemi di responsabilità collegati all’art. 184 c.c., vedi i riferimenti (anche comparatistici) offerti da P. CENDON, Comunione fra coniugi  e alienazioni immobiliari, Padova, 1979,  245, testo e nota 25.  Per  un caso più recente, Trib. Terni, 3 febbraio 1993, in Rass. Giur. Umbra, 1993, 369, con nota di PALMA.
Oltre ai possibili casi di danni patrimoniali, si segnala, per la peculiarità della vicenda, la decisione di una corte di merito, Trib. Milano, 22 luglio 1993, Est. Casentini, inedita, che ha dichiarato inefficace ex artt. 2901 c.c. e 2902 c.c. nei confronti dell’acquirente, l’atto di compravendita di un immobile effettuato da un coniuge in danno dell’altro. In questo caso, il marito, prevedendo l’imminente azione di separazione della moglie, per sottrarsi alle proprie obbligazioni di mantenimento di moglie e figlia, nonché per vanificare il diritto delle stesse di vedersi assegnata la casa coniugale, aveva trasferito la proprietà della stessa al coniuge del suo legale di fiducia, il quale non poteva certamente ignorare il suo intendimento.
[3] Stessa situazione nel famoso  film “I diabolici” di H. G. Clouzot.
[4] Così un coniuge non potrà interferire nella privacy dell’altro, con intercettazioni telefoniche, al fine di acquisire la prova della infedeltà altrui. In tal senso si è espressa la Cassazione, con sentenza 10 giugno 1994, n. 7738, in Fam. dir., 1994, 4, 453, con nota di M. DEL GAUDIO, Le interferenze illecite nella riservatezza del coniuge, secondo la quale <<i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno dei coniugi, ma anzi ne presuppongono l’esistenza, perché la solidarietà è possibile solo tra persone che si riconoscono avere pari dignità>>. Né, aggiunge la Corte, è ipotizzabile una perdita del diritto alla riservatezza quale sanzione alla violazione dei doveri coniugali, poiché una tale sanzione richiederebbe una esplicita previsione normativa: il diritto alla riservatezza esclude la liceità delle intercettazioni telefoniche operate da un coniuge nei confronti dell’altro. Il reato di cui all’art. 617 c.p. non può essere scriminato né ex art. 51 c.p., perché la disponibilità dell’utenza telefonica intestata al reo non lo autorizza a violare la riservatezza del coniuge, né ex art. 52 c.p. in quanto egli non ha la necessità di difendere il proprio diritto contro l’offesa altrui e ciò perché i mezzi utilizzati (installazioni di apparecchiature volte a violare la riservatezza) si rivelano sicuramente sproporzionati alla difesa del diritto eventualmente violato. In realtà –  afferma la Corte –  <<l’esimente della legittima difesa è riferibile solo alle condotte intese a impedire l’offesa ingiusta, non alle condotte destinate ad acquisire la prova dell’offesa; altrimenti si vanifica la riserva di giurisdizione posta dall’art. 15 Cost. a tutela della libertà e della segretezza di qualsiasi forma di comunicazione>>.
In dottrina si veda G. BONILLINI, op. ult.  cit.,  103, il quale afferma che “gli atti di un coniuge – quale il controllo della corrispondenza dell’altro coniuge – anche se miranti a verificare l’inesecuzione dei doveri coniugali, debbono reputarsi illeciti, rappresentando una sorta di autotutela, non ammessa dall’ordinamento: la sanzione dell’inosservanza degli obblighi coniugali è assicurata dall’ordinamento (…) ma nel rispetto delle libertà fondamentali dell’individuo, fra le quali, appunto è la segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.) alla cui tutela concorrono anche le norme racchiuse negli art. 616 ss. c.p.”  Nello stesso senso M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi – Artt. 143-148,  in Comm. SCHLESINGER, Milano, 1990, 60; G. GIACOBBE E A. GIUFFRIDA, Le persone, III, Diritti della personalità, a cura di P. CENDON, Torino 2000, 348 segg.;  M.  DOGLIOTTI, Il  <<diritto>> alla libertà, in Trattato Rescigno, 2° ed., I, Torino, 1999,  223-226.
[5] Trib. Patti, 10 dicembre 1980, in Dir. fam. pers., 1983, 111,  il quale esclude che un coniuge possa rispondere di addebito della separazione  per il mutamento di fede religiosa, essendo questo un diritto costituzionalmente garantito.   Si veda altresì Cass.,  7 febbraio 1995, n. 1401, in Dir.  fam. pers., 1995, 1383,  in ordine alla compatibilità di tali diritti con gli obblighi coniugali.
[6] A. FRACCON, op. cit.,  371, nota 13: “la libertà di svolgere un’attività lavorativa rientra nei fondamentali diritti di libertà della persona, che sono suscettibili di compressione soltanto parziale, pur a fronte dell’interesse familiare. In primo luogo il diritto al lavoro riceve dalla Costituzione una tutela specifica (artt. 4 e 35). D’altro lato, il principio di uguaglianza dei coniugi ha come sua applicazione il dovere di entrambi di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alle sostanze e alla capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143, 3° comma e art. 148, 1° comma, relativamente al dovere di mantenimento verso la prole)”. Si veda altresì la giurisprudenza ivi citata: Cass., 21 ottobre 1980, n. 5641, in Arch. civ., 1981, 129, nonché Cass.,  9 maggio 1985, n. 2882, in Corr. giur. 1985, 1134.
[7] Secondo la giurisprudenza è ammissibile tutelare con un provvedimento ex art. 700 c.p.c. il diritto al mantenimento di un coniuge privo di mezzi di sostentamento  in caso di abbandono improvviso della casa coniugale da parte dell’altro. Il caso è singolare, in quanto la moglie, di fronte alla irreperibilità del marito evoca in giudizio il di lui  datore di lavoro al fine di ottenere il pagamento di una somma di denaro per soddisfare i sui bisogni primari: Pret. Cosenza, 11 dicembre 1991, in Dir. fam. pers., 1992, 757.

[8] Si veda Tribunale di Roma, 13 giugno 2000, in Dir. fam. pers., cit.,  che ha riconosciuto il danno (biologico) in favore di un padre il quale era stato ostacolato dal coniuge affidatario della prole nel suo esercizio del diritto di visita: si tratta di una sentenza assai significativa –  al di là della terminologia usata –  in quanto viene affermato il diritto di un genitore non affidatario a stabilire un rapporto affettivo ed educativo con il figlio, che a seguito della separazione venga affidato all’altro coniuge. 
[9]  Si tratta di un caso non ancora deciso dai giudici, ma i cui estremi sono stati pubblicati nelle pagine di cronaca locale, della città di Genova, di un quotidiano ( Il Secolo XIX, 20 ottobre 2002, 21): un marito chiede  al Tribunale civile un risarcimento cospicuo a titolo di danno esistenziale per l’inganno subito dalla moglie, circa la paternità del figlio nato in costanza di matrimonio. Per ben sei lunghi anni l’uomo aveva creduto di essere il padre del bambino, lo aveva visto nascere, accudito, accompagnato a scuola, festeggiato in vari compleanni e ricorrenze, curato, amato. All’improvviso, la moglie –  nel corso di una lite –  gli confessa che il figlio non è suo. Verosimilmente, in  casi del genere sarà ipotizzabile un danno esistenziale per lo stravolgimento sul piano affettivo e relazionale della vittima di tale disinvoltura.  Eppure   in casi simili – bisogna dire –  lo strumento specifico, quale potrebbe essere una pronuncia con addebito, non sarà certamente idoneo qui a neutralizzare il danno subito.
[10] E’ il caso deciso dal Trib. Lecce, 4 ottobre 1994, in Dir. fam., 1995, 1047: la moglie, ormai giunta in età avanzata,  aveva deciso di abbandonare pesanti cure di fertilità contro la volontà del  marito,  il quale non accettava la sterilità della consorte e  desiderava a tutti i costi avere un figlio. Di fronte a tale decisione il marito chiede la separazione con addebito. Il  comportamento del marito verrà considerato  contrario all’obbligo di assistenza morale e materiale – obbligo  che,  secondo il tribunale di Lecce, si risolve nel dovere di “accettare la persona, che si è liberamente scelta, per quello che è, senza degradarla a mera fattrice di figli” (in motivazione).
[11] Nel caso deciso da Trib. Catania, 31 dicembre 1992, in Dir. fam. pers.,  1993, 680, viene censurata la condotta di un marito il quale aveva imposto alla moglie l’allontanamento dal letto coniugale, adducendo quale causa giustificativa che i disturbi respiratori della stessa gli impedivano il sonno. Tale comportamento aveva determinato una grave mortificazione nella sfera della moglie e compromesso l’equilibrio della vita intima della coppia, a tal punto da determinare una pronuncia di addebito a carico del marito stesso. In realtà, il comportamento del marito, al quale il tribunale addebita la separazione, si inseriva in un quadro ben più drammatico: il coniuge impediva ai familiari della moglie di frequentare la casa coniugale, assumeva atteggiamenti violenti e vessatori nei confronti della prole e della consorte, alla quale aveva addirittura precluso di frequentare il parrucchiere (provvedeva egli stesso a tagliare i capelli alla famiglia), di uscire, di frequentare parenti ed amici. Il Tribunale qualificherà tale atteggiamento come “arbitraria lesione del reciproco diritto che i coniugi hanno di determinarsi liberamente per quanto attiene alla cura della propria persona”.
[12] Si veda Cass., 30 dicembre  1981, in Foro it., 1982, I, 1992,  che ha sanzionato con la pronuncia di addebito, per violazione dell’obbligo di assistenza morale e materiale, nonché del dovere di collaborazione, il comportamento della moglie non solo per l’assenza di qualsiasi manifestazione di affetto, ma anche per le assillanti e persistenti richieste di denaro, per la totale noncuranza verso la famiglia, consentendo altresì illecite ingerenze da parte della madre. A sostegno della decisione, la Cassazione ha affermato che le peculiarità personali del coniuge non lo esimono dalla osservanza di “quegli obblighi di carattere non solamente  giuridico di una reciproca comprensione e di appoggio anche morale ed esteriormente manifestato, necessari per mantenere la comunione spirituale” (in motivazione).

13.  – Gli obblighi  fra marito e moglie


E’ appena il caso  di sottolineare,  al punto a cui siamo giunti,  come le indicazioni circa la piena riparabilita’  dei pregiudizi domestici (ove mancassero pur previsioni di dettaglio sulla r.c.,  in qualche testo di legge “familiare”; valga l’esempio  offerto  sopra in materia di adozione)   sarebbero argomentabili gia’ alla stregua delle norme ordinarie sui fatti illeciti –   quelle  accolte alla fine del quarto libro del c.c.
Nessun dubbio in effetti che,  a monte delle sofferenze patite dal   coniuge-vittima (le poste lesive or ora inventariate, o  altre consimili)  siano ravvisabili  tecnicamente   – per ricordare una formula  celebre  in dottrina  e in giurisprudenza –   altrettanti “interessi meritevoli di tutela”.
E  lo stesso varrebbe ove si parlasse,  in termini piu’ ampi e diffusi,  dei  vari pregiudizi arrecati ai minori (figli legittimi, naturali, adottivi)  –   nonche’, dandosi il caso,   di quelli sofferti via via dai fratelli, dagli zii, dai  nonni, magari dagli affini, e cosi’ di seguito.
Gia’ alla stregua dell’art 2043 c.c   e  norme collegate (testi di cui sono  stati appena sottolineati i tratti di sovranita’:  tali da gettare una luce di “duplicita’”   su ogni disposizione contenente previsioni  specifiche di un obbligo risarcitorio) sarebbe possibile, insomma, concludere come  a quei riflessi lesivi  del coniuge   spetti  la qualifica di “ingiustizia”.
Con la necessita’ di concludere, man mano,  in senso favorevole  alla possibilita’ di una tutela risarcitoria –    a favore dell’attore.
Tanto piu’ solido un risultato del genere  suona comunque   (ecco il dato da rimarcare)  sul piano della nomenclatura e delle fonti  generali del torto –    a tener conto cioe’,   ulteriormente,   delle indicazioni di cui al primo libro del c.c.,  e precetti di contorno[1]. Tre i  passaggi che spiccano allora  in proposito:
(a) benche’ non manchino differenze fra i due gruppi, le peculiarita’ dell’istituto della famiglia sono tali da consigliare una trattazione unitaria,  o quantomeno  integrata,  dei  diritti/doveri di natura prettamente coniugale (collaborazione, coabitazione, fedelta’, etc.)   e dei  diritti/doveri pertinenti a ciascuno degli sposi in via  ordinaria e generale  (integrita’ psicofisica, salute, riservatezza, etc.);
(b) e’ palese come le singole poste dannose passate sopra in rassegna, specialmente il ventaglio delle  ripercussioni di tipo esistenziale, siano tutte ricollegabili piu’ o meno direttamente – a considerare le chiavi di riferimento – a qualcuno dei “diritti e doveri  reciproci dei coniugi” di cui all’art. 143 c.c.[2]
(c) nessun dubbio circa la necessita’ di ravvisare in questi ultimi (non gia’ parametri vaghi o  improvvisati, bensi’) obblighi giuridici in senso stretto; di sicura pertinenza, dunque,  per il montaggio dei referenti attraverso cui  andra’ impostata,  volta per volta,  l’inchiesta sull’ “ingiustizia” dei singoli  danni.

14.  Danni e doveri  matrimonali.


Quanto al primo  segmento del giudizio  (rapporti correnti  fra danno e illiceita’),  il problema   sara’  – allora – quello di raccordare minuziosamente  (x)  ciascuna delle sequenze ripercussionali sopra esaminate (y)  con  la tipologia dell’ obbligo interconiugale che debba ritenersi, caso per caso,  trasgredito.
Alcuni  passaggi si lasciano cogliere a prima vista. 
(I)  E’  verosimile che gran parte delle compromissioni di cui sopra (anche se i casi di confine possono apparire numerosi)  saranno prospettabili, cosi’,  quali violazioni del dovere di assistenza.
Sotto un’egida che e’  ormai venuta perdendo ogni sapore  infermieristico o paternalistico (“assistere”, “assistito”, assistenziale”),  per  acquistare invece timbri  sempre piu’ ispirati alla solidarieta’,  ala comprensione, si finisce per spaziare dalle violazioni dei diritti classici della personalita’,  ai comportamenti lesivi verso la prole;   dai rinvii pretestuosi circa la messa in cantiere di figli, alle disgregazioni nel linguaggio domestico, sino alle varie aggressioni alla salute  del partner (profili   di tipo biologico, oppure morale, o inerenti al mancato guadagno del partner);  e cosi’ via.
(II) Altro contenitore di prim’ordine quello inerente agli oneri di  contribuzione economica[3].
Basterebbe –  per trovare esempi  eloquenti –    sfogliare a caso  (accanto o al posto dei repertori di  giurisprudenza, civile o penale)   qualche romanzo,  in prosa o in poesia;   oppure novelle, testi teatrali, fiabe, racconti per bambini. E’  palese quanto minuziosamente, (limitando pure lo spoglio alla letteratura europea degli ultimi duecento anni,  l’elenco delle deprivazioni e dei  guasti legati all’egoismo, alla poverta’,  alla de’bauche, all’avarizia,  al disimpegno in famiglia,  potrebbe essere tracciato dallo studioso.
(III)  Non diversi  i  discorsi in merito al dovere di collaborazione.
Anche qui  l’inventario  potrebbe   scorrere  in varie direzioni: ondeggiando (poniamo)  fra gelosie circa il proprio know how, comportamenti truffaldini,   rivalita’ professionali,  sperperi di pellicce,  micro-sabotaggi,  tavoli da gioco e  collezioni lussuose, inganni,   possessivita’; oppure, cattive amministrazioni,  pur  meramente colpose, dei beni comuni o dei propres del coniuge.
E – ancora  – gli abusi nella distribuzione della potesta’ genitoriale, in fase di crisi[4]; gli ostacoli frapposti al lavoro del partner, le pressioni indebite, le chiusure a qualsiasi dialogo profondo. I rifiuti di informazione, il diniego testardo di ogni prestito o garanzia, l’indisponibilita’ a concedere anche briciole del proprio tempo.
(IV)  Minore,  verosimilmente,  il numero delle figure (di notevole importanza comunque) riconducibile al polo del dovere di fedelta'[5]. 
Le condotte illecite dunque: i  tradimenti veri e propri,  i rapporti sessuali (con altre persone)  protratti nel tempo e vissuti con intensita’ e perdimento. Le intese,  anche caste  e platoniche, ma esclusive, avvolgenti, tali comunque da monopolizzare ogni fremito del  convenuto.  In qualche modo – nei casi limite – anche le evidenze esterne della “tresca”,  le supposizioni non  contrastate,  i pettegolezzi tollerati o incoraggiati. Sopratutto la fenomenologia (forse meno vistosa ma tanto piu’ desolante)   dei “recessi”  totali nella qualita’ dello scambio:  le fughe ingiustificate dalla comunicazione,  allora, i silenzi crescenti,  gli steccati ritorsivi, il gelo fra le lenzuola, l’aridita’ pervasiva,  il muro contro muro, il non fare piu’ niente insieme. 
E i contraccolpi  – dall’altro lato  – di tutto cio’:  frustrazioni notturne, romanticismi dissolti, attese sprecate, gesti non piu’ tentati, palpiti solitari. Il   senso della rottura e  del rifiuto,   le catatonie  del corpo e della mente, le emozioni scomparse, i ricordi e paragoni crudeli. Il contrario di cio’ per cui ci si era sposati[6]. 
(V)  Ancora,  le varie partite riportabili sotto il segno (di una violazione) del dovere di coabitazione.

Indicazioni anch’esse, talvolta,    non prive di valore pratico.  Soprattutto pero’ (bisogna dire)  qualora prospettate in stretto collegamento con la trasgressione di altri doveri coniugali –   piu’ adatti a conferire ai materiali  in gioco  il necessario  tocco di esistenzialita’, di vivezza terrena.
Senza di che, forse,  e’ verosimile che i richiami alla varia fenomenologia messa in causa (targhe asportate, doppie cucine, solitudine, stanze vuote, mancanza di rumore in casa;  oppure distacchi chilometrici, armadi sgombri, dissociazioni anagrafiche, cassetta postale senza lettere, ritorni al passato)   non potrebbero neppur ambire –  in certi casi –   alla cifra di “danni giuridici”  in senso stretto[7].


[1] La letteratura sul tema è alquanto ampia: si segnalano, tra le numerose  pubblicazioni, F. RUSCELLO, I rapporti personali tra coniugi, cit.; M. C. DE CICCO, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio, in La Famiglia, I, Torino, 2002, 355 e ss.; M. PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit.; M. DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, 1995; F. SANTORO PASSARELLI, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di G. CIAN, G. OPPO, A. TRABUCCHI, Padova 1992; M. FORTINO, Diritto di Famiglia, I valori, i principi, le regole, Milano, 1997, 179 ss.; P. ZATTI, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, cit., 13 segg.;  C.M. BIANCA, Diritto civile, II, 3° ed., Milano, 2001, 61 segg.; M. BESSONE, G. ALPA, A. D’ANGELO, G. FERRANDO, M.R. SPALLAROSSA, La famiglia nel nuovo diritto, 4° ed.,  Bologna 1995,  79 ss.; G. FERRANDO, Il matrimonio, in Tratt. CICU-MESSINEO, Milano, 2002,  83 ss.; G. FERRANDO, I rapporti personali tra coniugi, in Aa. Vv.,  Famiglia e servizi, Milano, 2001,  183 segg.
Sul contenuto degli obblighi coniugali, si veda Cass., 7 giugno 1982 n. 3437, in Rep. Foro it., 1982, Separazione di coniugi, n. 63: la sentenza attribuisce rilevanza, ai fini dell’addebito della separazione, al comportamento del coniuge,  consistente nella volontaria aggressione della personalità dell’altro, per annientarlo, deprimerlo, o comunque ostacolarlo, privandolo oltretutto di qualsiasi aiuto o conforto spirituale. 
[3] Per qualche rilievo, A. GABRIELLI, Mantenimento e alimenti: la violazione degli obblighi, in Trattato breve dei nuovi danni, cit. II,  1381 segg..
[4] In generale, M. CERATO, La potestà dei genitori. I modi di esercizio, la decadenza e l’affievolimento, Milano, 2000.
[5] La  giurisprudenza si è occupata  in più di un caso della responsabilità del terzo chiamato a risarcire il danno subito  dal coniuge, a causa del tradimento, pronunciandosi abitualmente in senso negativo. V. i richiami offerti retro. Si veda  altresì Trib. Monza, 15 marzo 1997, in Fam. dir., 462, con nota di A. ZACCARIA, Adulterio e risarcimento dei danni per violazione dell’obbligo di fedeltà, con richiami di precedenti e letteratura straniera. In questo caso, il Tribunale di Monza nell’escludere la responsabilità del terzo per il concorso nella violazione dell’obbligo di fedeltà, afferma  non esistere “un diritto assoluto  avente ad oggetto la famiglia, come tale fonte di un generale dovere di astensione da ogni interferenza da parte degli altri. Una simile prospettazione evocherebbe un’arcaica concezione della famiglia. La famiglia è nel nostro ordinamento una comunità di persone libere con dei reciproci diritti e doveri”. Si tratta, afferma il Tribunale, di obblighi personalissimi e necessariamente collegati allo status di coniuge, che solo quest’ultimo può violare. Il Tribunale di Monza esclude, poi, possa ipotizzarsi una induzione all’inadempimento degli obblighi coniugali da parte del terzo, “posto che, fino a prova contraria entrambi i coniugi sono persone pienamente capaci d’intendere e di volere e quindi in grado di autodeterminarsi nelle proprie scelte”.  Pur rigettandosi in concreto la domanda risarcitoria del marito, non  si esclude in astratto una responsabilità del terzo, in caso di reiterate condotte ingiuriose idonee a ledere l’onore della vittima: condotte che,  ovviamente,  non potranno essere valutati secondo “la percezione soggettiva dell’attore”.
Anche la sentenza del Trib. Roma, 17 settembre 1989, cit. si risolve in un vero e proprio obiter dictm: qui il giudicante, chiamato a decidere esclusivamente sulla responsabilità del terzo, ammette in astratto, sia pure con qualche incertezza,  la responsabilità dell’estraneo nella sola ipotesi  per induzione all’inadempimento del coniuge dell’obbligo di fedeltà. La vicenda sottoposta ai giudici romani ha il sapore di un romanzo di appendice: il marito scopre casualmente, a seguito di un accertamento della guardia di finanza, che la propria consorte,  con la complicità del fidato commesso della azienda di famiglia, distraeva  i ricavi e i redditi provenienti dalla attività commerciale, avviata in comune.   Oltre a ciò, la moglie, aveva intrapreso con il dipendente una relazione extraconiugale, dalla quale era nato anche un figlio.  Nella motivazione, la Corte romana, pur riconoscendo che dalla violazione degli obblighi coniugali possa derivare un danno, e pur affermando che le teorie sull’induzione all’inadempimento elaborate dalla dottrina civilistica possano essere trasferite nel campo degli obblighi matrimoniali, conclude per il rigetto della domanda.  Ritiene il Tribunale che: “il comportamento del terzo, estraneo al rapporto matrimoniale, che induca la moglie di altri all’adulterio, può qualificarsi come ingiusto ed integra – qualora sia colposo o doloso e causativo del danno – la figura dell’illecito aquiliano, in quanto lesivo di interessi che, nel nostro ordinamento e nell’attuale momento storico, sono ritenuti meritevoli di tutela – (naturalmente ad analoghe conclusioni deve pervenirsi se sia un uomo sposato ad essere oggetto delle affettuosi ed insistenti attenzioni di un’altra donna)”.
Certamente, non può condividersi la tesi del Tribunale di Roma: il  punto è che terzo deve andare esente da responsabilità non solo per il fatto che gli obblighi coniugali sono necessariamente personalissimi, ma soprattutto per il fatto che la disciplina della  induzione all’inadempimento è, in questa materia, inapplicabile, e ciò in forza del principio della autodeterminazione del coniuge, salvo sempre il caso di condotte altamente lesive della personalità del coniuge (infedeltà ingiuriosa): Cass.  civ., sez. I, 19 giugno 1975, n. 2468, cit.
In tal senso anche G. BONILLINI, op.cit., 103, secondo il quale  – pur essendo la violazione del  dovere di fedeltà sprovvista di una sanzione specifica –  qualora sussistano gli estremi dell’art. 2043 c.c. potrà configurarsi in capo al coniuge fedifrago una responsabilità, ove tale sua condotta dovesse determinare nell’altro coniuge un danno da discredito.

[6] Il dovere di fedeltà viene inteso in senso ampio ed elastico, quale dovere di correttezza, lealtà e comunicazione,  e non più come ius in corpus. In questo senso sembra esprimersi la giurisprudenza più recente. Emblematica la Corte di Appello di Torino del 21 febbraio 2000, che richiama in motivazione il concetto di correttezza reciproca, di tipica matrice negoziale.
Si veda anche Cass.,  18 settembre 1997, n. 9287, in Giust. civ., 1997, I, 2383, secondo la quale il dovere di fedeltà –  collocato dall’art. 143 c.c. tra gli obblighi nascenti dal matrimonio –  consiste nell’impegno, ricedente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimonio e non deve essere intesa soltanto come astensione da relazione sessuali extraconiugali. E’ a dir poco riduttivo concepire quel dovere come mera astensione dall’adulterio. In effetti, la nozione di fedeltà coniugale va avvicinata a quella di lealtà, la quale impone di saper sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di saper sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda.>>.  
Per un concetto ampio di fedeltà anche nel periodo di separazione, si veda Cass.  Sez. I, 17 luglio 1999, n. 7566, in Fam. dir., 2000, 2, 130 con nota di R. DE MICHEL. 
[7] Significativa  Cass., 11 aprile 2000, n. 4558, in Arch. civ., 2000, 831, nonché in Giur. it., 2000, 2235, con nota di MASSAFRA: in questo caso, la Suprema Corte ritiene irrilevante la violazione dell’obbligo di coabitazione sancito dall’art. 143 c.c. ai fini dell’addebito della separazione. La fattispecie sottoposta all’esame del Supremo Collegio riguardava una coppia di sposi, i quali, per motivi professionali, avevano consensualmente stabilito la loro dimora e residenza in città diverse, incontrandosi durante il fine settimana. Dopo dieci anni di matrimonio, il marito aveva chiesto alla moglie di trasferirsi presso di lui, avendo ella cessato di lavorare: il rifiuto era giustificato dal fatto che la signora preferiva continuare a risiedere nella sua città, per stare vicina ai figli nati da un precedente matrimonio.
I giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, pur pronunciando la separazione dei coniugi, rigettano la domanda di addebito proposta dal marito. Le sentenze di merito, impugnate dal marito in questione e che vengono confermate dalla Corte Suprema, stabiliscono che l’art. 144 c.c.  consente ai i coniugi di fissare la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. In tal modo è salvaguardato il principio di eguaglianza tra i coniugi, i quali fissano la comune residenza ed in difetto di accordo in tal senso  è loro consentito il ricorso congiunto al giudice. Nel caso sottoposto ai giudici di legittimità,  il disaccordo insorto in ordine alla coabitazione non poteva ritenersi causa di addebito, nulla potendosi imputare all’uno o all’altro dei coniugi, essendo ciascuno di essi legato alla propria città, per motivi professionali il primo,  per motivi affettivi la seconda.
Nel senso di una progressiva evoluzione e trasformazione dell’obbligo di coabitazione, si veda F. RUSCELLO, I rapporti personali tra coniugi, cit., 286, nonché M. BONA, Famiglia e responsabilità civile: la tutela risarcitoria nelle relazioni parentali, cit.,  391, secondo il quale l’obbligo di coabitazione deve essere inteso nel senso di realizzazione una comunanza nella vita di coppia;  in generale, P. ZATTI, Dei diritti e dei doveri del matrimonio, cit., 69, secondo il quale il termine coabitazione debba assumere il significato di “communio”.

15.   Giuridicita’ dei riferimenti di  cui all’art. 143 c.c


Resta da aggiungere  come i tratti di vincolativita’ dei  doveri di cui all’art.143 c.c. – messi in dubbio da qualche interprete,  nel passato piu’ o meno  lontano  (sulla scorta degli argomenti piu’ vari: pretesa degiuridificazione[1] della famiglia, dal punto di vista penalistico;  autodeterminazione del coniuge quanto alla violazione di  determinati obblighi;  supposta incoercibilita’  formale dei comportamenti umani;   e cosi’  via)  – tendano oggigiorno ad essere riconosciuti,  in maniera pressoche’ unanime,  sia dalla giurisprudenza[2] che dalla dottrina[3]
Vari  gli argomenti  spesi in proposito:
(a) vi e’ chi fa leva,  anzitutto, su riscontri ed argomenti di tipo prettamente costituzionale: ecco allora le  sottolineature  circa il fatto che l’art.  29, 2° co., Cost.,    nel sancire l’uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi,  riconosce  piena valenza tecnica alle situazioni intercorrenti  nella coppia  – posto che  eguaglianza nel diritto  (si sottolinea)  significhera’   necessariamente   attribuire rilevanza  interna/esterna all’intero  sistema dei rapporti endo-familiari;
(b) da altri si rileva come non varrebbe,  al fine di escludere le stigmate della giuridicita’,   affermare che il contenuto degli obblighi coniugali sia  – per se stesso  – “incoercibile”[4]. La   coercizione (si sottolinea)  rimane concetto diverso,  ed estraneo,  rispetto a quello della sanzione per gli obblighi giuridici. Soprattutto nel diritto privato, le  sanzioni sono destinate a manifestarsi   in vario modo[5], anche indirettamente,  come  potra’ accadere nel caso di perdita dei diritti ereditari (quale riflesso dell’addebito della separazione):  mentre il risarcimento in forma specifica,  quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo giuridico,  e’, si rileva,  reazione di carattere  abbastanza eccezionale;  
(c)  quasi ogni autore[6] esalta qui, d’altronde, l’elemento letterale relativo a certe disposizioni civilistiche:   sottolineandosi   in particolare come,  dall’art. 143 c.c.,  figuri affermato  esplicitamente che i coniugi, con il matrimonio,  acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi  doveri; mentre l’art. 160 c.c. precisa, dal canto suo, che  “gli sposi non possono derogare ne’ ai diritti, ne’ ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”[7];   
(d) non meno convinta –  presso gli interpreti recenti –   la valorizzazione  dei  risvolti  d’ordine reattivo/afflittivo, in rapporto alle eventuali inosservanze per quei doveri: provvedimenti, ad es., come l’addebito  della separazione (art. 151, 2° co., c.c.); come  l’obbligo del mantenimento in caso di addebito (art. 156,  1° co., c.c.);  come il sequestro conservativo dei    beni, in caso di allontanamento ingiustificato dalla casa coniugale (art. 146, 3° co., c.c.); come  la disciplina dell’assegno divorzile (art. 5, l. 1.11.1970 n. 898 e successive modifiche),   come i riflessi dell’addebito   dal punto di vista successorio;  ecco altrettanti esiti  testuali comprensibili – si rileva –   solo postulando crismi di ben precisa giuridicita’ e imperativita’,  quanto ai precetti sottostanti violati;
(e)  frequenti  altresi’,  in dottrina, i  riferimenti al dato della tutela penale  che e’ destinata ad  operare rispetto alle diverse posizioni in famiglia –  comprese  quelle di natura interconiugale: qualora a fronte dell’obbligo di mantenimento (viene  osservato)     non fosse riscontrabile  alcun bene giuridicamente rilevante, il reato di  cui all’art. 570 c.p. non avrebbe piu’ ragion d’essere; e si ricorda inoltre come gli artt. 571, 574  e 573 c.p. richiamino anch’essi, implicitamente, i doveri che vigono fra gli sposi[8];
(f)  unanime altresi’  la riluttanza –   attraverso il richiamo ai  contro-processi di “giuridificazione” della famiglia (in corso sempre piu’ diffusamente,  sul terreno sia del diritto privato[9]  che di quello amministrativo)  – ad attribuire peso al dato del  diminuito interesse dello Stato a perseguire certi reati (ad es., l’adulterio);  e in generale al fatto che tanti aspetti familiari  abbiano visto scemare, nel corso del tempo, la loro pregnanza d’ordine punitivo/pubblicistico (non tutti,  ad ogni modo;   come dimostrano gli esempi offerti retro, sub lett. (e): e senza contare  poi i nuovi reati familiari,  che sono venuti aggiungendosi in questi ultimi anni)[10];
(g) diffuse parimenti le  conclusioni secondo cui, nel  cambio con le perdute aure pubblicistiche,   il coefficiente di giuridicita’ della famiglia dovra’ ritenersi – tutto sommato  – ben maggiore che  un secolo fa;  ove si consideri,  tra l’altro,  che alcuni degli obblighi coniugali  appaiono in vario modo negoziabili,  in una visione sempre piu’ laica e secolarizzata  del matrimonio: donde un rilancio ben preciso di motivi come lealta’, correttezza, buona fede,  coerenza, affidabilita’, etc. –  notazioni tanto piu’ significative (viene fatto osservare) riguardo all’ipotesi in cui l’autonomia fra  coniugi  si sia tradotta nella messa a  punto di vere e proprie convenzioni, con la prefigurazioni di specifici diritti e doveri,  in capo  al marito e alla moglie;

(h) nette anche in dottrina –  sotto un profilo piu’ vasto –   le confutazioni circa ogni deduzione interpretativa di tipo evasivo/lassista (nel segno della rassegnazione o  del disarmo tecnico), argomentata  con la supposta evanescenza e inafferrabilita’ del mondo dei sentimenti;  il cuore avra’ pure le sue ragioni  – si ribatte –  ma  e’ indubbio che alcune ridde, e malegrazie, tra  sposi appaiono destinate ad attingere soglie di pesantezza notevoli; se l’amore domestico e’ probabilmente inesigibile, e’ raro siano  tuttavia impercettibili – o non documentabili all’esterno – certe offese e compromissione della personalita’  di uno sposo (fra cucina, bagno, salotto, ripostigli, camera da letto), e comunque i guasti quotidiani/relazionali che ne derivano;
(i) abituale infine  (contro i moniti circa  supposte indeterminatezze dei doveri  di cui all’art.143 c.c.)  la replica di chi, un po’  catastalmente,   si limita  a stendere  l’elenco delle varie “clausole generali”  che sono presenti nel nostro c.c. – e dal cui soffio, si ricorda, la disciplina di un po’ tutti gli istituti del diritto privato appare attraversata:   buona fede, allora, e poi correttezza, diligenza, equita’, stato di bisogno,  ingiustizia, tollerabilita’, inclinazioni, pubblico interesse, necessita’ della famiglia, eccessiva onerosita’,  iniquita’, e cosi’ via.  


[1] L. LENTI, Famiglia e danno esistenziale, in Il danno esistenziale, cit.,  255 e ss.. L’autore esclude  possa riconoscersi un danno esistenziale tra coniugi, e in generale in famiglia, e ciò sul presupposto che i rapporti affettivi all’interno della famiglia sono rapporti governati dalla logica della gratuità e del dono reciproco. Data la loro peculiarità, le norme che disciplinano i rapporti familiari “devono essere interpretate (o dovrebbero esserlo) in armonia con la loro natura più profonda. E’ questo che fa di gran parte del diritto familiare un settore retto da principi diversi da quelli che reggono il diritto privato delle relazioni di scambio”. L’a.. ritiene che nell’ambito dei rapporti coppia si assiste ad una “progressiva e sempre maggiore “degiuridificazione” degli obblighi derivanti dal matrimonio, auspicando de iure condendo l’abrogazione dell’art. 151 c.c.,  comma 2. Si afferma che non avrebbe alcun senso “abrogare la colpa nella separazione per poi prevedere che il coniuge, il quale ha fatto molto soffrire l’altro violando i suoi doveri matrimoniali, fosse obbligato a risarcirgli il danno”.
E’ facile accorgersi, in realtà, come la tesi della degiurificazione della famiglia – accampata per escludere la responsabilità civile tra congiunti – sia priva di ogni consistenza. Basta considerare,  anche a voler escludere rilevanza giuridica agli obblighi coniugali, che, ove un fatto integri gli estremi di un illecito civile o anche penale,  non esiste in effetti alcuna norma che attribuisca una “immunità speciale” in capo al familiare,  che abbia così agito  in danno a un proprio congiunto.
Del resto lo stesso autore in esame – può osservarsi – ritiene risarcibile il danno morale ex art. 2059 c.c. in ipotesi di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. Difficile vedere, allora,  per quale motivo non si dovrebbe riconoscere il risarcimento del danno in altre figure integranti gli estremi di un illecito civile.
[2]Anche il diritto vivente ha individuato negli obblighi matrimoniali vere e proprie “regole di condotte imperative”. Così, in particolare,  Cass., sez. I, 9 giugno 2000, n. 7859, in  Giur. it., 2001, 239, con nota di ENRIQUEZ: si afferma qui,  che gli obblighi ex art. 143 c.c., con   riferimento  al tratto della fedeltà,  costituiscono    regole di condotta imperative (art. 143,  comma 2,  c.c.), oltre che  direttive morali di particolare valore sociale. Anche la giurisprudenza di merito ne ha riconosciuto la natura pienamente giuridica: v. ad esempio, Trib. Milano, 10 febbraio 1999,  in Fam. dir.,  cit. 
[3]  Si veda C.M. BIANCA,  Diritto civile, II, Milano, 2001, 66, il quale ritiene che –  sebbene l’adempimento degli obblighi coniugali sia rimesso alla spontanea osservanza da parte dei  coniugi, nonché “allo spontaneo atteggiarsi del rapporto matrimoniale” –  gli obblighi di cui all’art. 143 c.c. “costituiscono veri e propri obblighi giuridici, cui corrispondono altrettanti <<diritti>> in capo all’altro coniuge”.  Da ultimo V. PILLA, Separazione e divorzio, cit., 102 e 104.
In senso contrario coloro (ad es., SANTORO PASSARELLI, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, cit.,  504-505; v. anche F. SANTOSUOSSO, Il matrimonio, in Giur. sist. civ. comm.,  a cura di Bigiavi, Torino, 1989, 230) che individuano negli obblighi coniugali le funzione esclusiva  di salvaguardare l’unità e la stabilità della famiglia.  Bisogna dire come da tale visione, eccessivamente paternalistica,  della famiglia discenda  una ridotta e limitata tutela dell’individuo –  il quale finirebbe per non vantare alcuna posizione di diritto soggettivo. In effetti la dottrina da  ultimo citata, sia pure in chiave dubitativa, esclude che ciascun coniuge possa vantare,  rispetto agli obblighi matrimoniali, una posizione di diritto soggettivo.

[4] Si veda V. DE PAOLA Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, 117;  F. MASE’ DARI, Danni da adulterio e da separazione personale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 688. Si tratta del commento ad una sentenza del Tribunale di Parma del 4 febbraio 1948, est. Stellati (inedita),  che aveva riconosciuto il risarcimento del danno a favore del coniuge (nel caso,  il marito) vittima del reato di adulterio, il quale  aveva agito in sede civile nei confronti della moglie e del “correo”. Il Tribunale di merito aveva ritenuto risarcibile il danno patrimoniale,  consistente nel costo necessario “per assumere una prestatrice d’opera retribuita che, in luogo della moglie separata in seguito all’adulterio accudisse ai figli e aiutasse il marito nella gestione della propria impresa”. 
Per un caso in cui – con motivazioni arieggianti l’idea di una mera rilevanza morale degli obblighi matrimoniali – venne respinta la richiesta del risarcimento del danno a carico di un coniuge il quale aveva abbandonato il domicilio coniugale, vedi Cass. Roma, 27 maggio 1921, in Foro it., 1921, 778.
[5] Secondo autorevole dottrina, F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, I, 1957, 28-29, il concetto di sanzione non può identificarsi con la “coazione (o coercizione) – ossia un atto di forza (non necessariamente materiale), che costringa all’osservanza della norma, colui che l’ha violata -; ovvero nella coercibilità, cioè nella possibilità della coazione, la quale agendo come pressione psichica preventiva (c.d. misura coercitiva: intimidazione), dovrebbe indurre il destinatario della norma all’osservanza spontanea (e quindi dovrebbe prevenire l’inosservanza), pel timore, o nella previsione che la norma si riaffermi egualmente a posteriori, quando sia rimasta inosservata, cioè sia stata trasgredita. Ma, contro siffatte concezioni della sanzione, può facilmente replicarsi che: a) con la coazione, quasi mai si costringe veramente, chi non voglia, a fare ciò che non vuole (certi obblighi di fare; adempimento dei doveri familiari etc.) (nemo ad factum cogi potest); b) che esistono obblighi di non fare i quali sono incoercibili; c) che anche la coercibilità può talvolta restare senza efficacia preventiva. In altre parole, la coazione, la cui essenza sta nel dar luogo a una sanzione diretta (atto esercitato sulla persona) riceve applicazione soltanto in dati casi. (…) La verità è che la sanzione opera soltanto in via indiretta e non sotto forma di coazione. (…) Infatti, la sanzione (quanto meno, nel campo del diritto privato) opera in un senso caratteristico: ossia, nel senso che, nel caso di inosservanza della norma, da parte del destinatario – per l’ordinamento statale, è sufficiente che – previo intervento del giudice, provocato dall’azione dell’interessato, altri faccia, in luogo del destinatario, ciò che egli si sia rifiutato di fare, ovvero che in luogo dell’atto omesso dal destinatario, si possa ottenere l’equivalente, a danno o in pregiudizio di lui; o che si possa, ancora a danno e spese del trasgressore, ripristinare una situazione compromessa. (…) Per concludere: la sanzione giuridica non si manifesta in forma costante; essa può andare dalla minaccia di un male, alla repressione di certi atti, o al ripristino di una situazione compromessa, o all’impedire il conseguimento di un risultato. Tuttavia, è pur dato costante, che in ogni caso, quando (a violazione avvenuta) agisce – la sanzione si concreta in qualcosa che non si limita a essere la mera riprovazione da parte dei consociati, ma è un fatto di ordine materiale, il quale tocca o i beni, o gli interessi, o (più raramente) la persona del violatore”.
[6] V. PILLA, Separazione e divorzio, cit., 104.
[7]  Quanto poi alla sistematica dei Lebensgüter,  correlabili  specularmente   ai detti  obblighi interconiugali,   vari appaiono i poli di fondo intorno a cui ordinare –    dal punto di vista del danno esistenziale –    i vari materiali che rilevano.  E  s’intende come non mancheranno simmetrie rispetto agli insiemi (costruiti sul  momento del  “dovere” coniugale) che sono stati appena indicati.
Ecco  così i tratti riportabili, in termini immediati,  al Leit-motiv   della comunicazione, dell’affettività, della sessualità. Il diritto-interesse alla fedeltà, certamente,   ma anche il bisogno della confidenza (tendenziale e prevalente),  le aspettative al dialogo e alla complicità circa i sogni, le sfide o  i progetti  vicini e lontani –  quelli  della coppia e quelli di ciascuno dei suoi membri. Diritto alla comprensione per la propria fisicità e originalità pulsionale,  alla condivisione o all’udienza rispetto ad ogni inclinazione (non impresentabile e non perversa, beninteso); diritto all’abbandono emotivo, forse a tutte le gioie del sesso,  comunque al riscontro dei propri gesti,  alla tenerezza ricambiata, ad esser percepiti come soggetti desideranti.
Poi  i passaggi più strettamente individuali, se vogliamo “borghesi” o più canonici: il diritto a vedere rispettate del coniuge, dentro e fuori le mura di casa,  sfere come quelle della segretezza (cassetti,  nascondigli, doppifondi), della riservatezza (fotografie, lastre, cassette, registrazioni,  e-mail),  dell’onore, dell’identità personale, del nome, del decoro.
Le voci riportabili, ancora, al ceppo della pace domestica,  del benessere,   della sicurezza economica. Il diritto-aspirazione  ad avere una casa allora –  e  che,   se c’è n’è una, questa  sia messa a disposizione della famiglia;  che venga poi ammobiliata, se possibile;  che il coniuge/proprietario non la tenga solo per  sé, che chi dei due può  farlo provveda a restaurarla,  a  riscaldarla d’inverno, e ad aggiustarla quando occorre.
Il  diritto al cibo, poi, alla contribuzione domestica, al vestiario, al sostegno nella gestione del ménage, ad un uso oculato delle risorse. Il no – ancora una volta – agli sperperi, agli azzardi eccessivi, alle scommesse sconsiderate. 

Tutti i  riferimenti aventi a che fare –  in generale –    con il mondo dei figli, presenti o futuri. Il desiderio di averli, in primo luogo, la disponibilità a cercarli con il partner, a rispettare i patti tessuti del momento del fidanzamento. E anche la necessità  che un assillo del genere (aver un figlio proprio) non diventi comunque qualcosa di spasmodico, tanto da costringere l’altro coniuge  a comportamenti ossessivi, a pratiche o ricerche prive di senso.
La giustificata aspettativa, da parte di ciascun genitore,  che il compagno faccia con  la  prole  la sua parte, che assuma  le proprie responsabilità fino in fondo. Svolgendo   i  suoi compiti specifici, o quelli suggeriti dalle circostanze, riversando sul figlio affetto e intelligenza;  dimostrando  capacità d’ascolto,  premura, comprensione, indulgenza, fermezza, scrupolosità. Seguendo i cuccioli nella vita di ogni giorno,  il più possibile. 
[8] Sul tema v. F. FIERRO CENDERELLI, La violazione degli obblighi di assistenza familiare, Padova, 1999.
[9] Per un’attenta analisi della evoluzione sociale, politica e culturale della disciplina familiare, si veda P. RESCIGNO, Introduzione al codice civile, Roma-Bari, 2001,   66-88: l’a. analizza le scelte normative ‘compromissorie’ del legislatore, chiamato a soddisfare le istanze politiche, religiose e sociali di volta in volta emergenti. Agli esordi del codice del 1942 vi è una concezione paternalistica della famiglia, al cui interno –  afferma l’a. –  viene mantenuta,  nei rapporti personali tra coniugi e nei rapporti tra genitori coi figli, “ la dominante posizione del marito e del padre”. Si passa, in sostanza, dal controllo pubblicistico dei rapporti famigliari di matrice fascista, con la rilevanza penale dell’adulterio e la indissolubilità del vincolo matrimoniale, alla piena parità tra coniugi introdotta con l’art. 29 della Costituzione,  fino ad arrivare –  attraverso la lenta e consapevole opera della giurisprudenza costituzionale e dei movimenti politici  – alla riforma del diritto di famiglia e alla introduzione delle leggi sul divorzio e sulla interruzione della gravidanza, quali espressioni delle libertà fondamentali dell’individuo.
In questa evoluzione normativa della famiglia, l’adulterio –  che in origine non solo integrava una fattispecie di reato, ma costituiva prima della riforma una causa specifica di separazione –  perde via via rilevanza, in sé e per sé considerato: ciò che conta nei rapporti personali tra coniugi è,  piuttosto,  la violazione di un dovere di lealtà e salvaguardia della sfera personale del proprio marito o della propria moglie. V. anche P.ZATTI, Familia, familiae, cit.,  32  (“E’ ormai questo il principio costitutivo della famiglia: il reciproco rispetto della personalità,  e il reciproco, positivo sostegno a sviluppare e svolgere la personalità, sono i cardini giuridici del rapporto tra i membri della famiglia. Tale principio traduce, sul terreno giuridico, quel fondamento che storici e sociologi della famiglia riconoscono quando parlano di famiglia <<fondata sugli affetti>>).
[10] La vera questione sta nel fatto che spesso si confonde la libertà di autodeterminazione, e, dunque, di separarsi, di lasciare, di “non amare più”, con la responsabilità conseguente ad illeciti gravi consumati da un familiare in danno dell’altro. Una parte della dottrina ritiene, infatti, che il progressivo evolversi dei costumi sociali abbia portato ad una progressiva degiuridificazione e depatrimonializzazione degli obblighi coniugali – che sarebbe confermata dalla perdita dell’assegno divorziale di ogni profilo risarcitorio a seguito della l. n. 74 del 1987. In tal senso V. CARBONE, Un significativo spaccato di costume, in Danno resp. 1998, 1142 e, in particolare su tale punto,  1146. Qui l’autore commenta la triste vicenda decisa dal Trib. Palermo, 2 giugno 1998, in Fam. dir., 1998, 1140: lo sfondo è uno sperduto paesino della Sicilia, nel quale un avviato e affermato professionista “seduce” una fiorente e bella ragazza, celando il suo matrimonio con altra donna, mentre si impegna con la neo fidanzata a celebrare le nozze, anche simulando un matrimonio religioso, procrastinando altresì  nel tempo la promessa di matrimonio, con meschinità e sotterfugi, sino al punto di concepire con la donna ben due figli. Dopo una convivenza durata oltre due anni, finte nozze, benedizioni e complicità della madre di lui, l’uomo, stanco della relazione, abbandonerà  la giovane, restituendola alla casa di origine, con la scusa che la donna non rispecchiava il suo ideale.
Il comportamento spregevole e irresponsabile verrà  giustamente inquadrato dai giudici nella clausola generale dell’art.2043 c.c.: il  Tribunale però, al momento della individuazione del danno risarcibile, afferma sussistere nella fattispecie una perdita di chances, per la perdita di altre occasioni matrimoniali più favorevoli, non dimostrate nel caso di specie.
Può osservarsi allora: a parte la difficoltà di dimostrare in concreto eventuali proposte matrimoniali, ciò che si risolverebbe in una  diabolica probatio, è certo che un caso del genere si sarebbe prestato alla prospettabilità di un vero  e proprio danno esistenziale –  anche in considerazione dell’ambiente sociale e culturale in cui la vicenda si è svolta.
In effetti: è ben vero che si è liberi di interrompere una relazione sentimentale formalizzata in un matrimonio e a maggior ragione tra conviventi;   ma è altrettanto vero che ciò che rileva,  ai fini della responsabilità tra coniugi e in genere nelle relazioni affettive,  sarà la modalità con la quale certe scelte  – di per sé libere – vengono poste in essere. In tal senso si veda G. VILLA, op.cit., nota 65.

16.  Natura  della responsabilita’ entro la cerchia domestica


Circa i nodi della “natura” e delle “funzioni” di un’eventuale obbligazione risarcitoria,  affermata fra coniugi, non sara’ il caso di spendere qui troppe parole.
E’ noto come sia in crescente ribasso,  fra  gli interpreti, il  peso attribuito – in generale – alla distinzione fra responsabilita’ contrattuale ed extracontrattuale; e il campo della famiglia non sembra fare eccezione alla regola.
Le differenze quanto ai fondamenti e allo statuto fra i due regimi esistono, beninteso: trattasi pero’ (come hanno osservato i nostri interpreti piu’ attenti)   di notazioni  non tali da poter essere sopravvalutate –  e cio’ soprattutto per  quanto concerne i passaggi maggiormente significativi agli effetti processuali, ossia   i momenti  inerenti all’onere della prova.
In ogni caso, i punti da tenere fermi parrebbero  soprattutto i seguenti: (a) scarso,  o del tutto inesistente, appare il tasso di convenzionalita’  nei rapporti familiari diversi da quelli fra i coniugi, e cio’ varra’ pure in ordine all’eventuale  responsabilita’;  (b)    anche fra marito e moglie, e’ dubbio,  almeno sul terreno non patrimoniale, che  elementi di  accentuata negozialita’ nelle intese avvenute prima o anche dopo il matrimonio  siano  tali  di per se’ da  gettare,  sull’intreccio dei diritti e doveri fra i coniugi,  tratti di contrattualita’ in senso tecnico; (c) nessuno in Italia dubita, oggigiorno,  dell’ ammissibilita’  di  un concorso fra responsabilita’ contrattuale ed extracontrattuale, allorche’ nel fatto ascrivibile al convenuto siano presenti i presupposti di entrambe le sanzioni[1]; (d) pure con riferimento alla famiglia,  avra’ certamente  natura extracontrattuale la violazione di tutte le posizioni  della vittima  riportabili, tecnicamente,  al ceppo del diritto soggettivo assoluto; (e)  declinante, ormai, la lettura che ravvisava in quest’ultimo le colonne d’Ercole dell’istituto aquiliano, e’ difficile oggigiorno immaginare –  fra le posizione meritevoli del coniuge/vittima –  qualcosa di  cosi’ labile da non poter ambire a una cittadinanza nel “salotto buono” dell’art. 2043 c.c.


17. Profili funzionali


Venendo ai profili funzionali[2] della responsabilita’ civile in famiglia,   non vi sono variazioni di rilievo rispetto alle indicazioni correnti.
(A) Nessuna differenza –  in particolare –  si segnala  in merito alla necessita’ di impostare diversamente il discorso,  a seconda che a venire in gioco sia un (risarcimento del) danno patrimoniale, piuttosto che biologico, esistenziale, morale.
(B) La funzione  reintegratoria appare di gran lunga la piu’ importante, anche fra marito e moglie: non sono pochi i casi in cui il risarcimento si annuncera’ come una partita preziosa per consentire alla vittima, in concreto,  l’acquisizione di beni o servizi atti a fronteggiare/neutralizzare il disvalore relazionale dell’illecito subito.

(C) La funzione sanzionatoria  ha certamente un gran peso: non sono rare, come osserveremo fra breve, le occasioni in cui  soltanto colui che abbia agito per fare il male di proposito si vedra’ chiamato al risarcimento. D’altronde, e’ pur vero che   il posto della colpa non puo’ essere grandissimo,  in un campo in cui e’ difficile che le cose avvengano per sbaglio, per semplice irriflessione.
E’ certo, ad ogni modo,   che quanto piu’  odioso e raffinato appaia l’intento  malefico del coniuge “cattivo” verso il coniuge “buono” (la’ dove tale sia il gioco delle parti),  tanto maggiore  tendera’ ad essere il quantum  del risarcimento.
(D) Per quanto riguarda le  funzioni piu’ generali, di tipo organizzativo, selettivo, distributivo, ordinatorio, particolare risalto assume  il fatto che la r.c. attua  in famiglia un principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), escludendo  immunita’ e privilegi in favore di qualcuno.
Non si vede  in effetti    per quale motivo,   a fronte del medesimo illecito,  il terzo dovrebbe essere condannato, mentre il familiare,  cioe’ proprio chi e’ chiamato a svolgere compiti di protezione/comunicazione  – colui nel quale la vittima aveva riposto affetto e fiducia -,   andrebbe esente da responsabilita’. Ecco la strada, allora, per un’attuazione  della piena parita’ tra gli sposi,  scongiurandosi abusi e forme di autoritarismo da parte di soggetti “forti” (economicamente o fisicamente) in danno di soggetti “deboli”.
(E) Quanto alla funzione che possiamo definire macro-sistematica  (quella dei giochi di influenza linguistica, fra le diverse stanze del diritto) il problema si porra’ essenzialmente   come  esigenza di adeguamento tra i crinali disciplinari di uno stesso istituto,  nonche’   come opportunita’ di un ripiano fra i  singoli comparti del diritto  privato.
E per l’interprete si   trattera’ in particolare di: (i)   cogliere,  da un lato,  il senso dei  percorsi  lungo cui sono destinate  a compiersi determinate scelte della famiglia,  incidenti anche su terreni non strettamente risarcitori:  somiglianze e differenze,   allora,  nelle (finalita’ di base che orientano le) decisioni relative via via alla casa, all’affidamento dei figli, alle vaccinazioni,  alle regole nell’amministrazione dei beni, ai mandati taciti, ai risparmi, alle vacanze, alla beneficenza, alla medicina, all’allontanamento del membro violento, forse anche alla misura dell’assegno alimentare;  (ii)  illustrare, dall’altro lato,  gli itinerari destinati ad  aprirsi nel sistema,  una volta  che i nuovi soffi antropologici  si  siano aperti  il varco al di la’ della responsabilita’ civile;  con tutti i ritorni, contagi  e pendolarismi del caso – in un gioco che (tra applicazioni del primo, del  quarto libro, e oltre) dovrebbe vedere la “rivoluzione esistenziale” scoprire man mano i suoi confini applicativi, e trovare sempre piu’ la  propria ragion d’essere.
(F) In merito alla funzione  preventiva,  e’ verosimile che essa mutera’ d’intensita’ a seconda dei conflitti in esame: anche entro la cellula domestica (e’ ben vero) i guai e’  tendenzialmente meglio prevenirli  che reprimerli;  se occorre proprio litigare o separarsi,  meglio farlo senza commettere illeciti;  e non v’e’ dubbio che lo spettro di una condanna risarcitoria,  a salvaguardia delle posizioni del partner, possa avere pur nell’ambito della famiglia un qualche significato ammonitore/deterrente;  in generale, si tratta comunque di risvolti da non sopravvalutare: troppo grande appare, tendenzialmente, il valore delle dinamiche emotive e pulsionali,   fra marito e moglie, perche’  calcoli di self-restraint possano esercitare qui un ruolo decisivo.
(G) La funzione simbolica-enfatica della responsabilita’ avra’ pur essa un peso significativo; specie nei casi in cui   protervia, ingenerosita’, spregiudicatezza, petulanza, frigidita’,  irriconoscenza, siano corse a dismisura, da un lato all’altro della coppia (o da una parte soltanto all’altra, come  verosimilmente nel caso deciso dai giudici di Milano), e’ plausibile che  la semplice condanna pronunciata dal giudice –  anche  la’ dove l’ammontare complessivo dell’esborso risultasse poi modesto –   avra’ l’effetto di lenire in parte l’orgoglio ferito del coniuge vittima.
(H) Non e’ difficile ritrovare il cuore dell’intera raggiera,  teste’  illustrata,   nella funzione  che possiamo chiamare di  stimolo alla realizzazione personale.

E fra i  primi  riscontri toccati da un’indicazione del genere si colloca, verosimilmente,   il tema della lettura  – unitaria  – da cercare per l’insieme degli obblighi familiari.  Il nucleo domestico concepito non gia’ come luogo per la concretizzazione di falserighe preconfezionate, in punto di  convivenza fra uomo e donna, bensi’, coerentemente agli artt. 3 e 29 della Costituzione,  quale luogo: di  pungolo, crescita e arricchimento per la coppia unitariamente considerata (il progetto collettivo, fusionale); di rigoglio e fioritura personale,  per ciascuno dei  due coniugi  (il  profilo singolare,  diversificato).
I doveri di solidarieta’ familiare,   e’ stato detto,  quali elementi simmetrici  alle direttrici del “diventare quello che si e’” –  per l’individuo come per la  coppia. Ciascuno dei momenti  in gioco (quello singolare non meno che quello collettivo) come funzionale,  strettamente,  al dispiegarsi e allo sviluppo complessivo  dell’altro[3].


[1] Per tutti, P.G. MONATERI, Cumulo di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, Padova 1989.
[2] In generale, sulle funzioni della responsabilità civile, vedi C. SALVI, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Napoli, 1985, 83 segg. Per qualche rilievo, S.PATTI,  Famiglia e  responsabilità, cit., 77
[3]  Si tratta, occorre dire,  di un  trend  che appare affermato esplicitamente  anche nella sentenza da cui siamo partiti (là dove si afferma che l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi  dovrebbe intendersi quale legittima aspettativa dei coniugi ad un pari benessere, e ad una pari realizzazione personale nella vita coniugale;  e ciò  pure in relazione alle diverse prerogative ed esperienza,  correlate alla specialità di genere di ciascuno e di necessaria tutela della maternità).
Influenzati da un baricentro del genere,  può aggiungersi, appaiono un po’ tutti i  doveri di cui all’art. 143 c.c.:  sicché ognuno di essi finisce per  trovare una sorta di inedito  ubi consistam –  anche per quanto concerna il secondo momento (quello individuale)  sopra indicato:
– sul terreno del dovere di assistenza, allora: e al  centro del discorso si collocheranno  tutti gli sforzi, gli investimenti,  le udienze,    magari i sacrifici,   certamente  i puntelli offerti compiuti per far sì che il compagno di vita  dia corso alle proprie potenzialità,  ai propri slanci.
– quanto alla fedeltà:  occorrerà parlare, qui,  soprattutto di impegno alla  non dispersione di quell’ humus affettivo sul quale il compagno, assumendo i propri impegni di vita, aveva fatto conto per costruire i singoli passi della  futura esperienza;
– i doveri di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, poi: tenuto conto di  quanto il legislatore specifica lui per primo nell’art. 147 c.c. (parlando di capacità, attitudini e inclinazioni da rispettare;  e  lo stesso varrà per i vari  auspici  di cui gronda la normativa nazionale  e internazionale, anche  in tema di adozione), non occorrerà  spendere qui molte parole;
– i  richiami al motivo della coabitazione poi:  si presteranno all’inventario di tutto quanto, della fertilità e ricchezza inventiva di uno sposo,  deperirebbe  verosimilmente   in  caso di  distacchi logistici o geografici troppo accentuati; 
– la collaborazione, ancora: l’accento sarà destinato, qui,   a cadere sulla possibilità/necessità che allo sposo (in vista di  un consolidamento delle voci  aventi a che fare sia con l’”avere”, sia soprattutto col “fare” e  con l’”essere”)   vengano messi a disposizione,  da parte dell’altro sposo,    tempi, spazi e denaro,  risorse, tecnologie, archivi, infrastrutture;  nonché  trasmesse  notizie e spiegazioni,  allestite  e aggiustate reti di protezione,  garantite occasioni di contatto, assicurate perizie e consulenze,  e così di seguito. 

18.  Il  bilanciamento degli interessi.


Venendo allora  ai termini di svolgimento del giudizio risarcitorio, i passaggi da mettere piu’ attentamente in luce  – una volta sottolineata la necessita’ di sussistenza,  in concreto,  per tutte le componenti dell’art. 2043 c.c. (in particolare, rispetto al danno; alla causalita’;  alla colpa o al dolo, secondo i casi;  all’imputabilita’)  – appaiono quelli inerenti al rapporto fra  responsabilita’ civile e strumenti del diritto di famiglia; alle modalita’ di attuazione dell’inchiesta sull’ingiustizia;  ai tramiti attraverso cui giungere alla scelta del criterio di imputazione;  agli elementi destinati a incidere sull’ammontare del danno risarcibile.
RUOLO “SUSSIDIARIO” DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE – Le rivendicazioni  circa il carattere di sovranita’ della r.c.  non possono far dimenticare l’esistenza degli strumenti tipici di reazione,  quali previsti nel primo libro del c.c. (o  norme di contorno),  contro i torti coniugali.
Il  raccordo da tracciare fra i due  insiemi sanzionatori appare tale, anzi,   da coinvolgere   piu’ di un crinale applicativo.
Dal punto di vista del danno, l’armonizzazione sara’ destinata a  tradursi  – abbiamo detto – nel principio secondo cui,  affinche’ possa farsi luogo a una condanna riparatoria, occorrera’ che i pregiudizi fatti valere (patrimoniali o non patrimoniali) siano tali per cui nessun provvedimento di separazione, di divorzio, di  allontanamento, di  invalidazione,  di modifica della potesta’ genitoriale, etc., riuscirebbe a neutralizzarli completamente.   
Sono intuibili  la ratio e i corollari di un’indicazione del genere: (I) niente impedisce ad un coniuge, il quale cosi’ preferisca,   di rinunciare a farsi risarcire il danno arrecatogli dall’altro coniuge;  (II)  qualora la decisione sia  pero’ quella di agire ex lege Aquilia,  e di procedere   senza indugi, non sara’ facile che il me’nage matrimoniale possa, di fatto, rimanere in piedi;  (III)  ove  si punti cioe’ sul risarcimento,  non si potra’ non pensare anche a una domanda di separazione;  e se si  desidera invece mantenere la pace,  si dovra’ rinunciare a chiedere i danni: (IV)  accadra’,  non di rado,  che  la concessione del rimedio familiare nasconda o trascini, con se’,  riflessi di tipo satisfattorio, piu’ o meno profondi e significativi, pure in ordine cioe’ all’esistenza o alla misura del danno,  per il passato o per il futuro; (V) naturale che a dover essere esercitati o indagati in prima battuta dal giudice  saranno percio’, di regola,  i momenti relativi alla dissoluzione formale del rapporto.


RINVIO DELL’AZIONE RISARCITORIA RISPETTO AL MOMENTO DEL DANNO –  Ecco allora  che, nell’ipotesi in cui vi fosse un differimento significativo (nell’esperimento) dell’azione risarcitoria, si tratterebbe  per il giudice  di stabilire, caso per caso:
– se tale rinvio sia spiegabile con l’intento,  da parte del coniuge/vittima, di soprassedere solo contingentemente e in via provvisoria ad iniziative di natura “bellicosa” e dissolutoria,    contro il partner:  e cio’ nel nome di ragioni  nobili o superiori, diciamo pure di forza maggiore o rispondenti all’interesse generale della famiglia   (ad es., il proposito di. non far soffrire i figli piccoli, oppure la volonta’  di risparmiare traumi a genitori o a suoceri di notoria fragilita’ psichica, e cosi’ via);  nel qual caso il risarcimento potrebbe essere, piu’ tardi,  ammesso;
– o se il rinvio in questione si debba piuttosto al fatto che,  rispetto a quel danneggiamento,  erano intervenute tra gli sposi, subito dopo il momento della commissione,  iniziative riportabili ad un vero e proprio spirito di riappacificazione o “resettaggio”  dei codici domestici  (in via unilaterale o bilaterale,  non importa):  nel qual caso  la (possibilita’ di) condanna aquiliana sarebbe, poi, tendenzialmente da escludere.


TRANSAZIONI INTERMEDIE – Variazione  non secondaria rispetto a quest’ultima ipotesi: nulla impedira’ che, soprattutto riguardo a perdite di tipo patrimoniale  (tenuto conto di tutti i fattori  mobilitati nella cerchia di casa), possa intervenire,  fra marito e moglie,  una  sorta di transazione o composizione negoziata della lite.
Non,  cioe’,  una rinuncia formale all’azione di danni,  ne’ tanto meno una remissione parziale del debito, o atti consimili; piuttosto, una  determinazione in via amichevole dell’ammontare pecuniario dovuto,  magari una corresponsione in via immediata[1].
Non si trattera’  in fondo   che di un suggello,  di tipo economico,  alle conclusioni  finali – raggiunte da una coppia   – circa il fatto che quel   torto e quell’impoverimento non possano restare (fin da subito) senza riscontri;   e che  i motivi per restare insieme  in famiglia superino,  tuttavia,  quelli che potrebbero indurre al distacco.

EVITABILITA’ DEI DANNI ULTERIORI – Nel caso di  torti destinati  a protrarsi nel tempo, e che appaiano punteggiati da  offese persistenti, da momenti di degrado  cronicizzati o irreparabili (non bilanciabili da contro-motivi di sorta), e’ chiaro come al coniuge/vittima non restera’ altra via se non quella della separazione,  magari del divorzio.
Scegliendo strade diverse –  e cioe’ orientandosi a restare comunque  accanto al coniuge “cattivo”, magari per ragioni di orgoglio, di mitezza  o di verecondia mondana –  il danneggiato si precludera’ (sostanzialmente ex art.  1227 c.c.; sempre che non siano indico, s’intende,  beni altamente protetti) la possibilita’ di far valere,  un giorno,  i danni subiti da un certo momento in poi;  e potra’ agire solo in  relazione ai pregiudizi maturati fino ad  un certo tempo, prescrizione permettendo[2].


CONTRAPPOSIZIONi  – Venendo al nodo generale dell’ingiustizia, che costituisce il passaggio  piu’ delicato dell’inchiesta,   va sottolineato come (ancor piu’ che in altri campi)   si  imponga  qui la necessita’ di un accorto  bilanciamento fra i beni in gioco. 
In effetti: ciascuno fra gli interessi, afferenti all’uno o all’altro sposo,  ha la sua propria caratura tecnica, che il giudice dovra’ ricostruire,  e corredare,  sulla base del  sistema nel suo insieme. E  si puo’ dire come  il raffronto  sia,  in generale,  destinato ad avvenire tra due istanze  “politiche” fondamentali –  il motivo della liberta’ e quello della solidarieta’. 
Si trattera’  cioe’  (messo il discorso in questi termini)   di paragonare volta per volta il vantaggio che preannuncia nella sfera di uno sposo il raggiungimento di un certo risultato,  con gli oneri e i fardelli destinati a incidere,  in via speculare,  sul convenuto. E di verificare –  in concreto – fino a che punto l’accantonamento  di taluni  spazi di vita,  da parte del marito, sia in grado di  arrecare  una effettiva convenienza alla moglie;  e viceversa.
Di esempi se ne potrebbero fare molti.
Cosi’,  non sara’ lecito pretendere dal  consorte – per mero capriccio –  che non vengano coltivate  determinate passioni, quali il giardinaggio, la musica, il birdwatching, la collezione di fumetti;  o che non si approfondiscano relazioni  sociali tutto sommato innocenti, ma idiosincratiche e sgradite al partner; o che si  rinunci  all’esercizio di questa o quella liberta’ di pensiero, di scienza, di tifoseria calcistica, di frequentazione politica,  di fede, di bricolage,  di banda musicale, di  “compagnia” o gruppo di folklore nel quartiere.
Nessun danno ingiusto, d’altro canto,  per la moglie o il marito che lamenti la noia,  qualche attacco di spleen  o il senso diffuso di solitudine,  nei momenti in cui l’altro e’  (giustificatamente) impegnato fuori casa.
Altro discorso, beninteso,  qualora  uno degli sposi abbandonasse  l’altro sposo versante  in serie difficolta’,  o in uno stato di malattia  (e supponiamo che le condizioni del malcapitato si aggravino,  poi,  causa il mancato  intervento medico o del servizio sociale):  il tutto,  semplicemente,   per perseguire un “egoistico” svago  o piacere d’ordine sportivo-dopolavoristico.


COLPEVOLEZZA – Quanto ai profili della colpa e del dolo, si puo’ dire che la valutazione del “comportamento dovuto”, e delle sue peculiarita’ soggettive,   sara’ destinata ad avvenire  sulla base di alcuni parametri:
– da un lato, occorrera’  prestare riguardo al rango intrinseco del bene,  minacciato nella vittima: nel senso che, quanto piu’ gli interessi appaiano “sensibili” e di natura primaria  (ad es. la salute, la liberta’  o la dignita’  personale),  tanto meno dovra’ bastare,   agli occhi del giudice,  in punto di reprensibilita’/colpevolezza (sara’ sufficiente anche una negligenza leggera   ai fini di un’eventuale responsabilita’);  e quanto piu’ invece la posizione fatta valere figurasse labile, pretenziosa  o  banale,   tanto piu’ riprovevole  dovrebbe manifestarsi la condotta dell’autore, anche come coloritura interna/psicologica, onde potersi  fare luogo a condanne riparatorie;
– d’altro canto,  non si trattera’ di attivare standard  del tutto esteriori, oggettivati: qualsiasi apprezzamento  giudiziale (per la definizione del “comportamento matrimoniale” esigibile) dovra’ effettuarsi in chiave ragionevolmente soggettivistica, ovvero in funzione delle aspettative della vittima e degli impegni in concreto assunti con le nozze (magari nel suggello formale di questa o quella pattuizione);
– scontato,  infine,  il  rilievo da assegnarsi ai   tratti generali  della correlativita’/vicendevolezza, fra condotta dell’autore e, rispettivamente,  della vittima. Occorrera’ procedere, dunque, ad una valutazione in chiave storicizzata dei singoli comportamenti, per il passato e per il presente (non disgiunta, beninteso,  da considerazioni di tipo assiologico,   quanto ai  modelli sociali e culturali comunemente accettati).

FATTORI RILEVANTI NEL GIUDIZIO –  Elementi ulteriori, di vario genere,   sono destinati a pesare nel bilanciamento fra le  opposte posizioni.
Preliminarmente: e’  pacifico come ogni apprezzamento  andra’ impostato in maniera distinta  in funzione del versante (conflittuale) che,  venga a volta,  in rilievo: diverso  sara’, cosi’,  il taglio delle valutazioni  secondo che i  dissidi insorgano fra coniuge e  coniuge,  oppure, poniamo,  tra genitori e figli, magari tra fratelli, fra  nonni e nipoti, e cosi’ via (v. anche retro, § 16).
Inutile sottolineare, ad esempio,  la gravita’ del  comportamento della futura  madre la quale non si sottoponga alla necessarie cure,  che  si droghi o si impasticchi nel corso della gravidanza,  che fumi o beva in abbondanza, che metta in qualsiasi modo a rischio la salute del nascituro, che  trasmetta  (tanto piu’ sapendo di essere  malata)  una malattia ereditaria al proprio bambino[3], e cosi’ di seguito.
In generale, poi: non poco contera’ –   nelle decisioni  sulla responsabilita’ fra sposi –  il riguardo per fattori  riferentisi   all’eta’, all’etnia di provenienza di ciascuno,  allo stato di salute, a elementi di tipo religioso e culturale, alla durata del matrimonio sino al momento dell’illecito,   oltre che, come s’e’ detto,  alle aspettative reciproche  (stanti i vari  atteggiamenti nel passato, e  gli eventuali  accordi intervenuti).


VALUTAZIONE DEL DANNO RISARCIBILE –  Per cio’ che attenga ai  dettagli del quantum respondeatur non resta,  come sempre,  che sottolineare (specialmente sul terreno del  danno non patrimoniale)  la decisivita’ del riferimento all’art. 1226 c.c.
Molteplici   i riferimenti da tenere presenti.
– anzitutto sul terreno soggettivo:  in ordine, cioe’,   alla  persona del danneggiante e alle modalita’ dell’azione/omissione (intensita’  e grado del dolo o della colpa,  particolari necessita’ di vita, reiterarsi eventuale delle condotte, esser  stato  il torto consumato alla presenza dei figli piuttosto che di estranei, etc.),  come pure alla figura della vittima  (lignaggio del bene leso, gravita’ delle ripercussioni negative, conformazioni[4], penchant  e bisogni speciali); 
– nonche’, piu’ ampiamente,  su quello oggettivo e ambientale: durata del matrimonio, contesti religiosi, luogo della celebrazione, fondali  complessivi delle parti,  contorni familiari d’origine,  peculiarita’  condominali o di quartiere, e cosi’ via.


PLURALITA’ DI SETTORI E VOCI TRASVERSALI –   E’  appena il caso di aggiungere, infine,  come la ricognizione dei lemmi tipici della famiglia,  nell’ottica di un dizionario per le nuove figure lesive,  costituira’  solo il primo passo dell’indagine.
Il gradino ulteriore sarebbe rappresentato dalla ricerca di analoghi assemblaggi,  sugli altri terreni che interessano: ossia i  consultori, la scuola,  le comunita’ di protezione, la scienza, l’arte, lo svago, il territorio;  e, ancora, il lavoro, la citta’, il reparto ostetrico, la cultura, lo sport, i servizi, i luoghi di cura e di morte.  Con la possibilita’ di tratteggiare analogie di vario tipo, censendo   e riorganizzando (agli effetti disciplinari,  in una visione attenta ai nessi tra famiglia e contesto esterno)  ogni differenza  e/o  corrispondenza,  a livello statutario e semantico.
Ad  es., il valore del lemma “ascolto”,   per  i minori, nella cerchia domestica e, rispettivamente,  nella  scuola;  la voce “ distensione”  nei luoghi di lavoro e nel tempo libero; la  “non-violenza”   nelle associazioni e nei luoghi di reclusione; il “sostegno” quotidiano,  per gli anziani o per gli handicappati,  in famiglia e presso i servizi territoriali; e cosi’ di seguito.

19.   Criteri di imputazione e aree della responsabilita’.


Ecco allora, in definitiva, un distribuirsi  tendenziale dell’area della responsabilita’  civile lungo tre fasce differenti –     ciascuna governata da un ben preciso statuto,  e a delineare ognuna delle quali contribuira’,  anzitutto,  il riguardo per il tipo di interesse  volta a volta colpito.
Area della colpa – Un primo settore da riscontrare  appare, in questa luce,  quello affidato al  c.d. “principio di sufficienza della colpa”. La semplice presenza di una negligenza in capo allo sposo/convenuto (una  trasgressione anche ordinaria, un atteggiamento continuo di disinteresse, l’oblio sistematico rispetto alle altrui aspettative)   sara’ sufficiente  di regola, qui,  per l’affermazione di un obbligo risarcitorio.
Il bene in gioco (ecco il tratto caratterizzante) figura  tale da collocarsi  questa volta ai primi posti nella scala del sistema: salute, integrita’ fisio-psichica, capacita’ procreativa, onore, dignita’, liberta’  di movimento[5]. Massima    quindi     la necessita’ di salvaguardia per il plaintiff, minimo il tenore dei rimproveri necessari  per far sorgere la responsabilita’.
Prendiamo la vicenda  esaminata,  qualche anno fa,  dal Tribunale di Firenze[6]. Il caso  era quello di un marito  disinteressatosi  della malattia psichica della moglie per anni di seguito –  cio’ che aveva provocato un aggravamento crescente dei disagi e dei sintomi nella sventurata. Indubbia, in situazioni del genere,  la necessita’ di far luogo a una condanna risarcitoria,  e cio’ anche, si badi,  dinanzi a semplici noncuranze e distrazioni del defendant   (nel caso concreto vi era stato,  per la verita’,  ben piu’ di questo:  malizie,  approfittamenti, implicite cospirazioni –   atteggiamenti  idonei di per se’ a influenzare il verdetto, e tenuti verosimilmente in conto dal giudice;  ma la responsabilita’ sarebbe potuta scattare, ecco il punto,   gia’ in presenza di una mera culpa levis). 
Stessa conclusione nell’esempio dell’omesso mantenimento in famiglia. Siamo dinanzi  qui a  un interesse  della persona (sopravvivenza) che e’  non soltanto di carattere economico, bensi’ anche d’ordine esistenziale o spirituale:  comunque a  una posta domestica di particolare irrinunciabilita’, primarieta’.  L’inadempimento  minaccia  in chi lo subisce   serie cadute di identita’ familiare, nonche’ un senso tendenziale di ostracismo –  tanto maggiore  quanto piu’ debole  sia il creditore della prestazione.  Naturale,  percio’,  il favor verso una regola intonata alla  sufficienza tendenziale della  colpa: intesa, quest’ultima,  non tanto, s’intende,   come difficolta’  individuale a produrre reddito,  bensi’ come “menefreghismo”  o anche solo dimenticanza cronica, rispetto a  esborsi  alla portata delle risorse dell’obbligato (e magari gia’  definiti dal giudice).
Area del dolo – Seconda zona da considerare,  quella  governata dal principio di necessita’  del dolo:  inteso  quest’ultimo nel significato piu’ ampio, quale insieme cioe’ di pensieri,  gesti  e programmi consapevolmente aggressivi  o noncuranti dei beni altrui – e piu’ ampiamente di tutte le realta’ psicologiche situabili oltre la frontiera della  colpa (ad es., malafede, reticenza, sorpresa, fraudolenza, inganno, preordinazione, scienza, menzogna, animus).
Anche in tale ambito, puo’ osservarsi,  sara’  la considerazione per  il tipo di  interesse violato specificamente nella vittima  (meno pregnante rispetto al caso precedente)   a segnare i confini del “comportamento dovuto”  nel defendant.
Gli esempi potrebbero essere (poniamo) quelli dell’interesse al benessere spirituale, del gusto per la tenerezza e premurosita’,  dei  bisogni  di comprensione, gentilezza e pulizia. E’  plausibile  che, dinanzi all’eventuale  frustrazione di  momenti del  genere,  la colpa  dell’autore sarebbe irrilevante,  giuridicamente perdonabile. Ai fini della responsabilita’,  occorrera’ la presenza di una vera e propria intenzionalita’ o  cattiveria,  forse non proprio del dolo specifico, comunque della malafede o della consapevolezza – quantomeno della colpa grave, in ipotesi di maggior rango  formale e sostanziale del bene minacciato.
Cosi’, l’infedelta’ coniugale non potra’  – neppur essa – essere fonte di responsabilita’ civile,  verosimilmente,  se non la’ dove appaiano oltrepassate certe soglie estreme di ingiuriosita’  o di arroganza[7] (e lo stesso varra’,  beninteso,  per  quanto riguardi la posizione aquiliana del “terzo complice”: perseguibile in via risarcitoria, tendenzialmente, solo nei  casi-limite di  dolo specifico,  accompagnato magari dalla  coscienza circa la particolare fragilita’ del coniuge tradito).   
Lo stesso in merito alla violazione della  riservatezza –  dove  non basterebbe, a fini di censura aquiliana, una scoperta o una divulgazione meramente casuale, seppure imprudente, delle notizie e dei segreti altrui.
Anche il fatto di imporre convivenze sgradevoli – nell’abitazione domestica – non potra’ essere fonte di responsabilita’, di regola,  se non la’ dove sussistano particolari circostanze, pure dal punto di vista soggettivo (sordita’, protervie).
Cosi’, ancora, per quanto concerne il rifiuto di prestazioni sessuali: soltanto qualora gesti  del genere si inseriscano in un quadro di ripulsa,   di messa al bando deliberata e caparbia, magari di giochi volti calpestare e dileggiare la personalita’ del compagno (estremi che non occorrerebbero, tendenzialmente, ai fini dell’addebito),   potrebbe farsi luogo alla responsabilita'[8].

Beninteso  – resta da aggiungere (e si tratta di un rilievo non privo di risvolti pratici,  specie sotto il profilo della prova)  –  le attivita’ umane non sono tutte quante omologabili, dl punto di vista psicologico.
Vi sono condotte  le quali possono, in  effetti,  immaginarsi  senza difficolta’   come ispirate sia dal dolo, che dalla colpa. Per  altre  iniziative  – verosimilmente  la maggioranza,  in ambito domestico  –  sara’  vero piuttosto il contrario: difficile credere, qui,  che chi  ha agito o si e’ astenuto non si  sia reso conto di  quanto stava accadendo, nonche’  del   danno che quella condotta  veniva arrecando all’altro sposo. Si potrebbe parlare, allora,  di  un vero e proprio  dolus in re ipsa.
Cosi’ nei casi di  demolizione spirituale del coniuge, di messa alla berlina con gli amici, di  sbeffeggiamento per le sue sembianze fisiche – come nel caso del c.d. mobbing familiare,  deciso anni fa dalla Corte di Appello di Torino[9]. Siamo dinanzi a modalita’  tali da palesare qui, di per se’,  un atteggiamento  maligno, insofferente.
Area della irresponsabilita’ – In questa fascia ricadranno, infine,  le azioni/omissioni del defendant corrispondenti all’esercizio  di un interesse costituzionalmente tutelato, o tali da mettere in questione una liberta’ fondamentale dell’individuo.
Nessun risarcimento, a questa stregua,  per il danno patrimoniale o non patrimoniale  che arrecasse all’altro coniuge  (indifeso,  innamorato, sprovveduto)  il fatto puro e semplice della separazione, del divorzio[10],  dell’annullamento del matrimonio. Unica eccezione   – per la verita’ non facile da immaginare, comunque non frequentissima –   quella di un breakdown familiare perpetrato con modalita’ crudeli e inopinate, all’esclusivo fine di  infierire sull’altro sposo: noto magari al partner per l’accentuata fragilita’ fisio-psichica, per le propensioni a pensieri  depressivi e a gesti tragici.
Soluzione analoga –    di norma –   di fronte all’interruzione di gravidanza posta in essere  unilateralmente dalla moglie;  pur al di fuori di ogni stato di necessita’,  in contrasto con  qualche accordo pre o post-matrimoniale. Nella decisione di non portare avanti la maternita’ deve ravvisarsi, in effetti,   l’esercizio di una liberta’  che la legge n. 194/78 rimette all’esclusivo potere della donna[11] –  mentre il marito non potra’  vantare, simmetricamente,  alcuna aspettativa di paternita’  rilevante ai fini aquiliani. Risposta inversa, anche qui, nel    caso-limite di un aborto che apparisse eseguito dalla moglie al solo scopo di  far soffrire  e umiliare il marito, magari per  ripicca o per vendetta.  
Lo stesso, tendenzialmente,  con riferimento  all’esercizio di qualcuno fra i droits  insuscetptibles  d’abus   – per ricordare la nota formula francese –  cioe’ sul terreno delle condotte strettamente personali e discrezionali  (sempreche’ tali da non minacciare,  beninteso,    le prerogative dell’altro coniuge).   Prepotenze leggere, allora,  collegate magari a scelte di lavoro e di religione,   comunicazioni inquinate da   un doppio legame.  Le piccole coazioni a ripetere,  la mania di canticchiare,  uno stile di vita eccentrico, il fatto  puro e semplice della non coabitazione occasionale; un   temperamento ostinatamente taciturno –  o all’opposto un eccesso periodico di esuberanza.
Ne’ dovra’ rispondere il marito il quale (malgrado le richieste dell’altro coniuge)  ascolti solo musiche medievali, prediliga mangiare vegetariano,  o che  ami frequentare scuole di ballo,  dar da mangiare due volte al giorno ai gatti del quartiere,  non andare mai in chiesa o in spiaggia. Come pure la  moglie  decisa a  fare e/o a inventare solitari con le carte,  a lavorare fuori casa in mezzo ai maschi,  a capeggiare circoli femministi,  a sperimentare piatti esotici  e immangiabili (come nel film “Frenzy”),   a raccogliere ogni mese centinaia di conchiglie[12].

20.  Conclusioni.


Da quanto sin qui  detto  non  puo’ esprimersi che un giudizio favorevole  –  tornando al punto da cui siamo partiti – in merito ai risultati cui il Tribunale milanese e’ pervenuto.
Si sa come nei   momenti della gravidanza,  della procreazione,  del puerperio, la sensibilita’  di ogni donna  sia destinata ad affinarsi grandemente; e,  in  condizioni del genere,  il risultato e’ spesso quello di una accentuata fragilita’. Naturale che   un comportamento  “abbandonico”  del compagno, inadempiente agli obblighi di assistenza,  sia destinato a incrinare qui  molte tra le difese della vittima –  provocando quel nocumento che, secondo la piu’ recente dottrina e giurisprudenza, si concretera’ (prevalentemente)  in un danno esistenziale.
Nessun dubbio  in effetti,  sotto un profilo generale, che: 
(a) una donna la quale aspetta un bambino deve considerarsi,  in via di massima, un soggetto “debole”;
(b) il diritto civile ben conosce questa categoria (nei tratti essenziali),  e le sue regole di base sono fatte per modificarsi, piu’ o meno significativamente, in circostanze  del   genere;
(c)  il  criterio simboleggiato nella formula del common  law   “take your plaintiff as you find him”  corrisponde  a un  principio  di giustizia  accolto in  tutti i sistemi moderni di responsabilita’ civile;
(d)  il primo soggetto tenuto a osservare  quel comandamento, nel caso di un matrimonio,  sara’ proprio il marito. 
Restiamo ai fatti della causa allora.   Ad una giovane donna   (che,  in un momento particolare della sua vita,  appare particolarmente bisognosa di protezione e cure, ma soprattutto di sostegno materiale e affettivo)  viene all’improvviso a mancare l’appoggio dello sposo, nonche’  futuro padre della sua creatura.    La delusione e’    tanto maggiore tenuto conto che, nel caso di specie, la scelta della filiazione era stata    condivisa originariamente da ambedue gli interessati – i quali avevano, a seguito di un lungo fidanzamento, deciso  le nozze proprio per procreare.
Vari – come s’e’ visto – i capi d’accusa gravanti sull’uomo:  il distacco materiale e morale dalla sposa, anzitutto;  la relazione  accesa con un’altra donna, la probabile consumata infedelta’; il disgregarsi del linguaggio; lo spregio e il crescente  disinteresse mostrato verso la compagna di vita, nonche’ rispetto al nascituro;  l’immaturita’ nell’avere calpestato un sincero affidamento;  la leggerezza per  avere, evidentemente,  contratto il matrimonio in modo disinvolto e inconsapevole.
Giustificata percio’ la condanna a risarcire il danno.
Una  riserva soltanto. Non sembra possa parlarsi, nel contesto in esame, di un quantum risarcitorio  (dieci milioni di vecchie lire:  il prezzo di un’utilitaria usata)  davvero adeguato all’intensita’ dell’illecito. Ne’, verosimilmente,  di un ammontare  proporzionato alla serieta’ delle ripercussioni  inflitte alla donna –  tenuto conto, in particolare,  della solitudine di quest’ultima nel corso della gravidanza,  dell’irrispettosita’  del  ricorso  sistematico ai bigliettini, della latitanza nei contatti con i medici, delle molte  altre ombre e risonanze per la vittima (quali   indovinabili nella vicenda: i vituperi per la femminilita’, il  senso di vuoto e smarrimento in casa, un figlio da allevare da sola per l’avvenire, le aspettative piu’ profonde irrise, gli imbarazzi  e disagi circostanti).
Resta l’indubbia importanza, giuridica e culturale,  della decisione milanese:  la quale contribuisce,  significativamente,  a consolidare gli orientamenti sull’illecito che sono venuti emergendo in questi anni –  finalizzati all’attuazione del diritto alla “realizzazione personale”   e alla piena valorizzazione dell’individuo, nelle varie formazioni sociali di cui fa parte.

[1] Per qualche rilievo, G. CECCHERINI, Contratti tra coniugi in vista della cessazione del ménage, Padova, 1999, 108.
[2] Si veda Trib. Milano 1999, in Fam.  dir., 2001, 185, cit., nonché in Dir. fam. pers., 2001, 3, 988, ovvero il caso in cui il marito aveva sottaciuto il suo difetto di mascolinità, privando la compagna di ogni rapporto sessuale ed affettivo con la moglie e aveva interrotto le cure per ovviare a questa patologia: la moglie aveva azionato una domanda di risarcimento, lamentando uno stato di frustrazione per la mancata maternità e per la assoluta mancanza di gesti affettuosi e di desiderio, etc.: si doleva in sostanza di un danno biologico o di un danno alla vita di relazione per tali comportamenti illeciti del coniuge,  in quanto violativi degli obblighi di cui all’art. 143 c.c..
Qui il Trib. Milano nega la responsabilità del marito per induzione al matrimonio mediante inganno e/o per errore essenziale ex art. 122 c.c., per intervenuta decadenza; riconosce tuttavia la fondatezza astratta della responsabilità, escludendola,  nella specie,  per mancanza di antigiuridicità del fatto: la moglie si era  in effetti separata solo dopo molto tempo, protraendo la convivenza per oltre venti anni, accettando di fatto tale situazione.
[3] Trib. Piacenza,  31 luglio 1950, cit.
[4] Sulla rilevanza delle peculiarità fisiche e psichiche, della vittima o del danneggiante, in ambito di responsabilità civile, v. M. BUSSANI, La colpa soggettiva, Padova, 1991, passim, e con particolare  riguardo ai profili di addebito nella separazione personali fra coniugi, p. 118 ss.
[5] Su quest’ultimo punto, G. e F. TORNESELLO, La segregazione del familiare debole, in Trattato breve dei nuovi danni, cit., II, 1289.
[6] Nel caso della sentenza del Trib. Firenze, 13 giugno 2000, cit., ciò che rileva è piuttosto un vero e proprio dolo,  in quanto il marito aveva consapevolmente e deliberatamente “abbandonato” la moglie –  la quale era affetta da sindrome depressiva –  per ben quattro anni, nel salone di casa, senza provvedere ad alcuna cura. L’abiezione di questo marito  verrà evidenziata ancora di più allorquando,  dovendo liberare l’abitazione e restituire l’immobile all’ente di previdenza che aveva provveduto a concederlo,  egli si “ricorderà” della esistenza della moglie e la farà  ricoverare in una clinica specializzata. In questo caso, la mancata assistenza morale e materiale aveva determinato un aggravamento delle condizioni della donna, nonché alcune patologie di carattere fisico tipiche dei malati di mente.
Il marito inoltre si stabilirà  in una nuova abitazione: quando la moglie si presenta però all’uscio di casa, dopo la cura, egli la ripudia.
Il tribunale riterrà di dover cumulare gli strumenti  previsti specificamente in caso di violazione degli obblighi coniugali,  con la condanna risarcitoria prevista dall’art. art. 2043 c.c.:  il danno viene qualificato come biologico e  quantificato in oltre 200 milioni di vecchie lire.  Sostiene la corte fiorentina che,  nella fattispecie sottoposta al suo giudizio,  la domanda risarcitoria era pienamente proponibile, stante “la stretta connessione con la domanda di addebito della separazione”. 
Sembra dunque esserci, secondo la sentenza in esame, una inevitabile correlazione tra la domanda di risarcimento del danno e la richiesta di addebito della separazione. 
Tuttavia – va  aggiunto –  occorrerà  pur sempre verificare la sussistenza di tutti gli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c.
E’  palese allora,  in un caso del genere,  il connotato di  antigiuridicità della condotta:  configurabile nella omissione  del dovere di assistenza morale e materiale, derivante dal matrimonio. In effetti: la moglie era stata abbandonata in uno “stato assoluto di degrado fisico e psichico”,  senza alcun conforto igienico e sanitario, tanto che la donna contrarrà  una rara malattia della pelle,  derivante dalla mancata cura dei capelli per lungo tempo (generalmente riscontrabile nei soggetti con disturbi psichici).
Il danno ingiusto è rappresentato, d’altro canto,  dalla compromissione del bene “salute” della vittima –  rimasta, oltretutto, sola “senza alcun contatto con i familiari e il mondo esterno, per le condizioni di degrado fisico e psichico e per lo stato larvale nel quale si [era] ridotta a vivere in tale periodo”.
Infine il nesso causale è tutt’uno con  l’inescusabile ritardo  nell’attivazione delle cure  – cure che, se intervenute tempestivamente,  avrebbero verosimilmente evitato un aggravamento della malattia della signora
Non secondari poi, anche sotto il profilo del quantum respondeatur,  elementi come  la motivazione meramente utilitaristica che aveva sorretto il marito nella ricerca delle cure  per la moglie, la scarsa umanità e generosità della esigenza di liberare l’appartamento,  la assoluta indisponibilità di accogliere la moglie nella nuova casa.
[7] Cass,  civ., sez. I, 19 giugno 1975, n. 2468, cit.

[8] Sul tema v. M. DOGLIOTTI,  Nota a Trib. Firenze, 13 giugno 2000, cit. in Fam Dir., 2001, 167, nota 14, ove richiami di giurisprudenza
[9] App. Torino, 21 febbraio 2000, in Foro it, 2000, I, 1555, cit.  Qui – può osservarsi – non era stata prospettata una azione di danni; ove proposta,  tale azione avrebbe  ben potuto trovare in ogni caso accoglimento:  il marito,  al quale era stata addebitata la separazione,  aveva infatti consapevolmente demolito l’autostima della moglie, inducendola a cambiare lavoro, ad isolarsi, additandola come brutta e di estrazione sociale umile in presenza di parenti ed amici (sullo sfondo vi era anche una induzione all’aborto da parte del marito, fatto  non provato, ma presumibilmente a lui attribuito in quanto costui non voleva figli).
[10] Trib. Civitavecchia, 24 novembre 1982, in Temi Romana, 1985, 167, con nota di F. STORACE,  rigetta la domanda di risarcimento del danno proposta da una donna, unitamente all’azione di annullamento del matrimonio, per inconsumazione dello stesso, sul presupposto che “il divorzio, nel vigente sistema, non è visto come un evento dannoso risarcibile se connesso a comportamento colposo o doloso del coniuge, ma semplicemente come rimedio conseguente all’esistenza eventuale di un tale comportamento” (secondo il Tribunale,  poi,  non conferiva rilevanza ai fini della   domanda risarcitoria neppure la circostanza del discredito che aveva arrecato alla signora  la pubblicità del fatto della mancata consumazione del matrimonio, conseguente all’inoltro di un ricorso da parte del marito all’Autorità ecclesiastica: e ciò   per mancanza di prova, nonché  per il fatto che il ricorso ecclesiastico, presumibilmente fondato sulla impotentia coeundi del marito, avrebbe se mai comportato discredito soprattutto a quest’ultimo).
In tema di risarcimento del danno per in consumazione del matrimonio, si veda altresì Trib. Napoli, 23 febbraio 1987, in Giust. Civ., 1987, I, 1549, il quale rigetta la domanda risarcitoria della donna, sia per il fatto che in tema di divorzio tutti gli effetti, ivi inclusi quelli  patrimoniali, sono   ricompresi nella disciplina dell’assegno divorziale (che, quale sanzione specifica, ha natura composita), sia in considerazione della natura assistenziale e compensativa di tale assegno.  Afferma  inoltre la corte   che il divorzio costituisce una libertà fondamentale, intesa come “potere di sciogliere il vincolo, altrimenti valido, e non quale sanzione di una patologia negoziale, come invece l’annullamento del matrimonio”.  In questa seconda ipotesi, il Tribunale di Napoli sembra più aperto ad ammettere una responsabilità ex art. 1388 c.c.
Per la disamina delle problematiche connesse alla responsabilità e all’annullamento del matrimonio, si veda S. PATTI, Famiglia e responsabilità, cit., 79 e segg. Per qualche rilievo sul danno da matrimonio non consumato e da pronuncia di divorzio, G. BONILLINI  e  F. TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, in Comm. SCHLESINGER, Milano, 1997,  286 e 484. Oppure G. VILLA,  op.loc. cit., nota 65 (per il quale non appare decisivo, al fine di escludere la responsabilità tra coniugi, il rilievo secondo cui “la decisione di separarsi è espressione di un diritto di libertà, dal cui esercizio non potrebbero derivare conseguenze risarcitorie,  dal momento che qualunque diritto di libertà trova limiti nelle modalità del suo estrinsecarsi”). 
[11] Si veda Cass., 5 novembre 1998, n. 11094, in Fam.  dir., 1999, 2, 125, secondo la quale “la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 5 della l.194/78 (che riconosce alla donna il diritto di decidere in via esclusiva circa la prosecuzione o l’interruzione della gravidanza) sollevata nel corso di un giudizio di risarcimento del danni intentato dal marito è prima ancora che infondata, del tutto irrilevante con riferimento al giudizio stesso”.
La sentenza è l’epilogo di una annosa vicenda di un marito che aveva convenuto in giudizio la moglie, chiedendo il risarcimento del danno a causa della mancata paternità, e ciò per avere la propria consorte  interrotto la gravidanza senza il consenso del coniuge.
Il Pretore di S. Donà di Piave, con ordinanza del 16 novembre 1984, in Giur. cost, 1985, II, 305, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l.194/78. Sulla norma denunciata, sia pure sotto un profilo diverso da quello sollevato successivamente in Cassazione, la Corte Costituzionale aveva ritenuto che l’art. 5 l. 194/78 deve ritenersi “frutto della scelta politico-legislativa – insindacabile da parte di questa Corte – di lasciare la donna unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza”: così  Corte Cost., n. 389/1988, in Giur. Cost., 1988, I, 1714, con nota di VINCENZI AMATO.
In dottrina, si veda,  quale commento a Cass,  11094/1998, cit., G. FERRANDO, L’interruzione della gravidanza tra autonomia della donna e accordo tra coniugi,  in Fam. dir.  1999, 2, 127-131, secondo la quale  – anche a voler fa rientrare la decisone circa la interruzione della gravidanza tra gli “affari essenziali” di cui all’art. 144 c.c. –   tale scelta  deve necessariamente ascriversi alle libertà dell’individuo,  a mente dello stesso articolo 5 l. 194/78, che ammette la partecipazione del padre alla procedura solo <<ove la donna lo consenta>>. Aggiunge l’A.: “anche quando nell’interruzione della gravidanza possa riscontrarsi una violazione dei doveri del matrimonio, le sue conseguenze sono la separazione e l’eventuale addebito al coniuge responsabile, non invece la nascita di un’obbligazione risarcitoria a carico del coniuge responsabile nei confronti dell’altro”.  Vedi anche L. GAUDINO, sub art. 2043, in Comm c.c. CENDON, Aggiornamento 1991 –2001, Torino, II, 2002, 1709.
[12]  Vi saranno così –  guardando le cose dal punto di vista della vittima –   abitudini e iniziative sempre salvaguardate, sul terreno risarcitorio –  in particolare quelle legate al godimento delle posizioni fondamentali della persona:  integrità fisica, salute psichica, dignità, libertà di movimento, diritto all’onore, utilizzo dei beni legati alla più stretta quotidianità. Poi, le valenze non difendibili  se non a certe condizioni, tendenzialmente solo contro la malizia (o quanto meno la colpa grave) del partner: quelle ludiche, ad esempio,  oppure le iniziative evasive, collezionistiche, domenicali, gastronomiche, tutto ciò che attenga allo sport amatoriale,  al tempo libero, allo shopping, alla frequentazione dei festival, alle vernici, ai viaggi in Internet, etc. Infine il settore delle attività mai suscettibili di salvaguardia,  sul terreno risarcitorio: le imprese illecite ovviamente (contrabbando, racket, prostituzione, spaccio di droga, commercio di armi), e poi quelle  immorali,  le ore dedicate all’alcol,  i passatempi meramente oziosi, le frivolezze marcate, i giochi pericolosi, i pettegolezzi accaniti, le tresche, le mondanità turbolente, etc..
E’ appena il caso di sottolineare come neppure la malattia sopravvenuta di un coniuge potrà essere fonte di responsabilità, per il danno che l’altro coniuge risenta a causa di tale evento. Vedi al riguardo Trib. Monza,  10 settembre 1994, in Nuovo dir., 1995, 163, con nota di V. SANTARSIERE. Il caso era quello di una donna la  quale, dopo il matrimonio, si era ammalata di sclerosi multipla: il marito chiederà sia l’annullamento del matrimonio per vizio del consenso (errore essenziale), sia il risarcimento del danno. Il Tribunale negherà entrambe le domande:  sia  per intervenuta decadenza delle azioni,  sia per essere il fatto in questione intervenuto successivamente alla celebrazione delle nozze.

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