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EDITORIALE: La sicurezza alimentare e gli strumenti per garantire l’effettiva tutela del consumatore

12 Dicembre 2002 Commenta

Sebbene sia tuttora diffuso il pregiudizio di ritenere il diritto dei consumatori confinato in provvedimenti occasionali e settoriali, per lo piu’ sul versante del diritto civile, e’ ormai chiaro che il complesso delle norme esistenti si pone con caratteri di trasversalita’, tale da condurre all’affermazione di un vero e proprio status di consumatore ([i]), meritevole di tutela in tutti i campi del diritto e dunque anche da parte della norma penale laddove -naturalmente- i diritti e gli interessi dei consumatori siano posti in pericolo da condotte caratterizzate da un alto grado di offensivita’.

Del resto, a ben guardare, il legislatore, fin da epoche meno consumistiche di quella attuale, si e’ preoccupato di sottoporre a sanzione penale la frode sulla qualita’ del prodotto: si pensi alla truffa, ma anche a tutta quella serie di disposizioni, contenute soprattutto nella legislazione speciale, in materia di frodi e sofisticazioni.
Nel codice penale spicca la fattispecie disciplinata a norma dell’art. 515 del codice penale e’ rivolta a garantire la pubblica fiducia nei rapporti commerciali: “chiunque nell’esercizio di un’attivita’ commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile per origine, provenienza, qualita’ o quantita’, diversa da quella dichiarata o pattuita”.

La norma si pone a garanzia della buona fede negoziale e si traduce concretamente nel garantire gli interessi di tutti i protagonisti del mercato, beneficiandone tanto la generalita’ dei consumatori (sotto il profilo dell’affidamento negoziale), tanto produttori e commercianti (con riguardo al leale e corretto svolgimento del mercato in termini concorrenziali).
Forse proprio su queste basi la norma andrebbe rivalutata con buona pace di chi ritiene il moderno mercato caratterizzato ormai irrimediabilmente dalla progressiva perdita di potere del singolo acquirente, il cui ruolo rischierebbe di divenire subalterno rispetto alle strategie di produzione, promozione e vendita delle grandi imprese.

Tale punto di vista non puo’ naturalmente essere condiviso: basterebbe richiamare la progressiva affermazione in tutti i campi del diritto degli interessi dei consumatori, intesi come soggetti titolari di posizioni giuridiche, ormai sancite anche solennemente (legge 281 del 30 luglio 1998) alla stregua di veri e propri “diritti fondamentali”.
Sul versante penalistico, certo, il quadro legislativo attuale (fortemente inciso dalla depenalizzazione intervenuta ad opera della legge n. 689 del 24 novembre 1981 e del d. lgs. 507 del 30 dicembre 1999) si caratterizza per una forte frammentarieta’ accompagnata da un accentuato tecnicismo che non agevola il consumatore ne’ nella effettivita’ delle garanzie ne’ nella percezione dei propri diritti.

Tra questi l’art. 515 prevede il diritto a ricevere la consegna di cosa conforme a quanto dichiarato o pattuito. La norma si trova nel titolo VIII del libro secondo del codice Rocco, intitolato ai “Delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”.
Secondo molti, tale collocazione confermerebbe la ratio dell’incriminazione, volta a tutelare l’ordinato e leale svolgimento dei rapporti commerciali, garantendo l’interesse al mantenimento della fiducia negli scambi e l’esigenza di rafforzare l’ordine economico generale ([ii]).
Aderendo a tale interpretazione, la giurisprudenza si e’ prevalentemente espressa individuando l’interesse tutelato in quello dello Stato al leale esercizio del commercio piuttosto che non in quello dei singoli consumatori-acquirenti ([iii]).
Tuttavia, fin da epoche piu’ risalenti, alcuni Autori hanno posto in rilievo che, nell’ambito dei reati contro la pubblica economia, l’articolo 515 sarebbe destinato ad apprestare specifica tutela al “momento in cui la ricchezza gia’ formata passa dal produttore al consumatore” ([iv]), con cio’ argomentando il fondamento della tutela penale del consumatore nella stessa materialita’ oggettiva della fattispecie che appare incentrata sull’interesse privato dell’acquirente (e del suo patrimonio) e quindi sulla tutela dei consumatori uti singuli.
Indubbiamente deve ammettersi che “il fatto descritto non possiede alcuna caratteristica idonea a porre in risalto l’offesa di interessi riconducibili ad una cerchia indeterminata di soggetti quali dovrebbero essere quelli protetti dalle norme ricomprese nel titolo in esame.” ([v]).
Sebbene sul punto altra autorevole dottrina abbia, invece, insistito nel sostenere la rilevanza soltanto riflessa dell’interesse privato ([vi]), ad avviso di chi scrive, la lettera della norma sembra prestarsi ad una lettura evolutiva che tenga conto dell’interesse del pubblico dei consumatori (traducibile nella lealta’ degli scambi “al dettaglio” e nell’affidamento dei singoli acquirenti), sanzionando le violazioni del principio di buona fede contrattuale che dovrebbe informare i rapporti tra venditori e consumatori.

A tale ricostruzione sembra aderire Carlo Paterniti il quale giunge a conclusioni analoghe proprio approfondendo l’analisi della fattispecie delineata dall’articolo 515 ([vii]).

Secondo l’autore la previsione di una pluralita’ di comportamenti si traduce nella descrizione “aperta” dell’attivita’ di vendita al minuto della quale il legislatore coglie una serie di passaggi e situazioni, escludendo dal precetto gli acquisti all’ingrosso, cosi’ come tutte le operazioni di approvvigionamento dei mercati. Tali operazioni, infatti, non potrebbero farsi rientrare nell’ambito della “dichiarazione” o “pattuizione”, qualificati come “comportamenti di breve respiro e tali da esaurirsi in un rapporto quasi occasionale al di fuori di una stabile e complessa procedura contrattuale” ([viii]).
Le considerazioni fin qui svolte sembrano legittimare una lettura consumer oriented della fattispecie, primo baluardo della tutela penale del consumatore. Certamente tale prospettiva era estranea all’epoca della codificazione, ma cio’ non toglie che -in ragione delle argomentazioni illustrate- se ne possa offrire una rilettura: il bene della “buona fede contrattuale” sembra, infatti, poter ispirare questa nuova esegesi della norma, non potendosi dubitare del fatto che il precetto investa gli aspetti terminali dell’attivita’ produttiva e commerciale, cioe’ quelli piu’ prossimi alla vendita al dettaglio dei prodotti. ([ix])
Con cio’ non si vuole dimenticare l’ovvia considerazione per cui l’affidamento, oltre che rilevare nei rapporti intersubiettivi, finisce per fare da sfondo all’attivita’ economica generale, cosicche’ le norme penali possono incidere su determinati settori, moralizzandoli e rendendoli maggiormente affidabili, riuscendo anche nella piu’ ampia tutela dell’interesse generale.
Appare ormai chiaro come, nel campo della tutela “alimentare” del consumatore non ci si possa ormai privare di una visione allargata a tutti gli strumenti offerti dall’ordinamento a cominciare, direi, da quelli d’ordine penalistico, i piu’ idonei a contrapporsi a casi di vera e propri “delinquenza alimentare” quali quelli recentemente registrati dalle cronache, riguardanti i macelli clandestini di carni sfuggite ai controlli sanitari imposti dopo lo scandalo “mucca pazza”.
La speranza e’ di veder rifluire gli spunti offerti dalla piu’ avveduta dottrina in un approccio che induca la giurisprudenza ed il legislatore ad abbandonare l’artificioso confine che e’ stato eretto tra diritto penale e tutela dei consumatori.

NOTE AL TESTO:


[i] Sulla configurabilità di un vero e proprio status di consumatore si è espresso con particolare efficacia Alpa G. (Il diritto dei consumatori, Roma-Bari 1999) sostenendo che l’ampiezza e la genericità dei riferimenti contenuti nei Trattati comunitari, riletti alla luce dell’intervento operato dalla legge 281/1998, sembrerebbero condurre a concludere per l’effettiva esistenza di uno “statuto del consumatore”, intendendosi per tale l’attribuzione di una serie di situazioni giuridiche soggettive individuate dalle norme indicate.
[ii] In tal senso si esprime la Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale, vol. II, pag. 301.
[iii] Cass., 7 marzo 1984, Casavecchia, Giust. pen. 1984, II, 385; Cass., 18 marzo 1981, Topazzini, Riv. pen. 1982, 371.
[iv] Berenini A., Delitti contro l’economia pubblica, l’industria ed il commercio, in Trattato di diritto penale, a cura di E. Florian, Milano, 1937, pagg. 24 e 198. Nello stesso senso Bellavista G., La tutela penale dell’economia corporativa, Roma 1936, pag. 182, che pone il reato tra i delitti “contro il consumo della ricchezza”.
[v] Mazzacuva N., Delitti contro l’industria e il commercio, in AA. VV., Diritto penale lineamenti di parte speciale, Bologna 1998, pag. 258.
[vi] Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, VII, Torino 1963, pag. 202 (edizione aggiornata a cura di P. Nuvolone e G. D. Pisapia).
[vii] Paterniti C., Industria e commercio, delitti contro, in Enc. giur. Treccani, vol. XVI, Roma 1989, pag. 3.
[viii]  Paterniti C., Industria e commercio, delitti contro, cit., pag. 3
[ix] Non sarebbe giusto tacere sull’orientamento della giurisprudenza che ha quasi sempre ritenuto di attestarsi su posizioni più tradizionali, frutto di un approccio sistematico al capo VIII del codice, cogliendo solo occasionalmente l’opportunità di porre l’accento sulla pubblica fede e sul rapporto fiduciario tra venditore e consumatore (Cass., 23 ottobre 1950 in Giust. pen., 1951, II, 155, 136; Cass., 18 gennaio 1983, Mastromauro, CED Cass., n. 159223, nella quale si rinviene una particolare attenzione all’interesse del consumatore, desumendone l’assunto della competenza del Giudice del luogo di vendita e non di produzione del prodotto).

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