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Giusto processo anche contro il patteggiamento allargato.

10 Luglio 2003 Commenta

Il Tribunale di Roma in composizione collegiale ha sollevato questione di legittimita’ costituzionale in merito ad alcuni articoli della legge n. 134 del 2003, che ha introdotto nel nostro Paese l’istituto del c.d. “patteggiamento allargato”.
Ad avviso del Collegio, questa nuova forma di incentivazione al rito speciale del patteggiamento lede seriamente gli interessi della Giustizia (nonche’ delle parti civili costituitesi nei procedimenti penali) alla speditezza dei processi. Insomma, il Legislatore pone il fianco (per l’ennesima volta) alle sanzioni che la Corte Europea ci infligge – con sempre maggiore frequenza – per la lentezza dei processi italiani.

Prima di affrontare la lettura dell’ordinanza della Quinta Sezione Penale del Tribunale di Roma datata 1/7/03, appare opportuno fare una breve premessa circa la legge n. 134 del 2003.
La Legge 12 giugno 2003, n. 134 “Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti” (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 136 del 14 Giugno 2003) con i suoi cinque articoli introduce la possibilita’ per l’imputato di sospendere per 45 giorni il processo, al fine di valutare la possibilita’ di chiedere il c.d. patteggiamento (ovvero il rito speciale dell’applicazione della pena su richiesta delle parti – art. 444 c.p.p.). Nulla di strano, di primo acchito.
La particolarita’ di questa nuova disposizione, pero’, riguarda i tempi in cui si puo’ chiedere il patteggiamento. In precedenza, il codice di procedura penale poneva un imponente limite all’imputato per la richiesta del patteggiamento (che, come si sa, offre il beneficio di uno “sconto” di pena fino a un terzo); cioe’ questi (e anche il pubblico ministero) poteva formulare al giudice la richiesta al massimo entro la fine della presentazione delle conclusioni del p. m. e dei difensori (nell’udienza preliminare) ed entro la fine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo (art. 446, comma 1, c.p.p.).

Con la nuova legge, invece, tale sbarramento non c’e’ piu’.
Infatti, l’art. 5, comma 1, l. 134/03 prevede che le parti possano chiedere il patteggiamento anche dopo il limite massimo di cui si e’ parlato e, inoltre, “anche quando sia gia’ stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente” (ecco perche’ si parla di patteggiamento “allargato”).

Nell’ordinanza del Collegio (fra cui e’ presente in maniera illustre il giudice Gennaro Francione – passato alla cronaca come il “giudice anti-copyright”) ritiene si debba accertare e dichiarare l’incostituzionalita’ dell’articolo 1 e dell’articolo 5 della legge menzionata, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.. Sarebbe quanto mai opportuno leggere con attenzione le intelligenti motivazioni che il Collegio porta a conforto delle proprie tesi. Se l’art. 1 della predetta legge amplia l’applicazione del patteggiamento alle pene detentive che, tenuto conto delle circostanze e diminuite fino a un terzo, non superino i “cinque” anni (mentre prima era previsto che non superassero i “due” anni), si va inevitabilmente a far rientrare nel circuito premiale del patteggiamento la maggior parte dei processi celebrati in Italia. Basta fare un breve calcolo e si potra’ facilmente osservare, infatti, che la maggior parte degli imputati in Italia sono processati per delitti che comportino la pena detentiva nel massimo di quindici anni. Inoltre, l’art. 5 della legge n. 134/03, con l’annullamento delle barriere temporali di cui si diceva, fa cadere nel nulla proprio l’intera ratio del patteggiamento.
Questo rito speciale, infatti, nasce sull’esigenza di venire incontro all’imputato (consentendo lo “sconto” di pena), ma ponendo un limite massimo entro cui formulare la richiesta: cioe’ – in poche parole – vale a dire “sconto di pena, si’, ma il tutto deve svolgersi in tempi brevissimi”. Altrimenti – cosi’ come ideato – l’intero istituto dell’art. 444 c.p.p. non avrebbe senso! Dunque, per cercare di capire il senso della presente ordinanza, si puo’ affermare che il perno del pensiero del Collegio sia proprio quello di non compromettere ancora di piu’ la velocita’ dei processi italiani.
Il grido di protesta sembra non essere affatto un coro di voci isolate, poiche’ si assiste a esperienze di altri Paesi europei in cui i processi hanno tempi ridottissimi; ma, soprattutto, perche’ l’Italia e’ continuamente ripresa dalla Corte Europea per la lentezza dei processi e, al fine di generare un’inversione di tendenza, lo stesso Legislatore ha introdotto la legge 89/01 con cui si voleva proprio ridurre i tempi dei procedimenti.
Con la presente ordinanza, infine, si solleva anche un importante problema: quello delle esigenze della parte civile in un processo in cui venga applicato il rito del patteggiamento. L’art. 444 c.p.p., comma 2 seconda parte, prevede infatti che (se viene applicato il patteggiamento) la parte civile veda la propria domanda cadere nel vuoto, poiche’ il giudice non decidera’ piu’ sulle sue richieste (e, pertanto, dovra’ agire solamente in sede civilistica). Dunque, come afferma il Collegio, la parte civile “vedrebbe crollare le proprie legittime aspettative, dovendo ricominciare il processo ex novo sia nei confronti dei coimputati innanzi ad altro giudice sia separatamente – in sede civile – nei confronti di colui che e’ stato ammesso al patteggiamento”.

Come gia’ la Corte Costituzionale ha precisato nella sentenza n. 443/90, non appare incostituzionale che il giudice (una volta che sia stata concessa l’applicazione del patteggiamento) non possa piu’ decidere sulla domanda della parte civile. La Corte cosi’ motivo’: “Non sussiste disparita’ di trattamento rispetto al danneggiato da reato piu’ grave o da reato identico ma il cui imputato non si avvalga del patteggiamento, ne’ vi e’ una irragionevole e ingiustificata concessione di benefici all’imputato a scapito del danneggiato: le azioni di risarcimento e di restituzione sono subordinate all’azione penale e percio’ ‘subiscono tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale’ (Corte Costituz. n. 171 del 1982), prevale percio’ l’interesse costituzionalmente rilevante ad una rapida definizione dei procedimenti penali. Non sussiste violazione del diritto all’azione posto che l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e le restituzioni nel processo penale non e’ l’unico strumento di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto al quale il reato ha recato danno”.
Oggi invece, poiche’ e’ stata modificata proprio la norma di cui all’art. 444 c.p.p., sarebbe opportuno che la Corte Costituzionale rivedesse il proprio orientamento, favorendo in qualche modo le pretese della parte civile.
Questa e’ un’altra richiesta fatta in maniera esplicita dal Collegio, dunque, che si fa notare per aver portato subito all’attenzione di tutti gli importanti problemi del “giusto processo” e, quindi, della speditezza dei medesimi procedimenti, in relazione alla legge emanata il 12 giugno scorso.


TRIBUNALE DI ROMA 5^ SEZIONE PENALE R.G. 783/2001


Il Tribunale in composizione collegiale, costituito dai magistrati:


dott. Mario Bresciano – presidente
dott. Gennaro Francione –
giudice
dott. Laura Scalia –
giudice

v. gli atti del procedimento penale a carico di:
Tizio, Caio, Sempronio, Mevio
Imputati
Tizio: a) artt. 81, 110, 319 CP; b) art. 81, 476 e 482 cp; c) art. 48, 81, 479 cp; d) artt. 81, 110, 314, 61 n. 2 cp; e) artt. 81, 624, 625 n. 7, 61 nn. 2 e 9 c.p. Fatti commessi in Roma fino al tutto il 1996.
Caio: f) art. 81, 110, 319 cp; In Roma fino al settembre 1996;
Sempronio: i) art. 321 cp in relazione all´art. 319 cp; In Roma, nel novembre 1996;
Mevio: o) art. 321 in relazione all´art. 319 c.p.; In Roma nel gennaio 1996;
premesso in fatto che:

Gli odierni imputati sono stati rinviati a giudizio, dopo l´udienza preliminare, per rispondere dei reati sopra indicati e meglio descritti nei capi d´imputazione.
Vi e’ stata costituzione di parte civile.
Il processo era oggi fissato per la sola discussione.
All´odierno dibattimento l´imputato, Tizio tramite difensore munito di procura speciale, ha chiesto la sospensione del processo ai sensi dell´art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134;
i difensori degli altri imputati, privi di procura speciale, hanno chiesto ugualmente la sospensione del processo ai sensi della norma citata;
considerato in diritto che:
1. L´art. 5, della legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce che:
1. L’imputato, o il suo difensore munito di procura speciale, e il pubblico ministero, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in cui sia prevista la loro partecipazione, possono formulare la richiesta di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge, anche nei processi penali in corso di dibattimento nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall’articolo 446, comma 1, del codice di procedura penale, e cio’ anche quando sia gia’ stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente.
2. Su richiesta dell’imputato il dibattimento e’ sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l’opportunita’ della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare.
3. Le disposizioni dell’articolo 4 si applicano anche ai procedimenti in corso. Per tali procedimenti la Corte di cassazione puo’ applicare direttamente le sanzioni sostitutive.”
Questo Tribunale dubita della legittimita’ costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
La norma non appare ragionevole sotto diversi profili in particolare:
a) in relazione al disposto del comma 1, che consente di formulare la richiesta anche oltre il termine fissato dall´art. 446, comma 1, CPP;
b) in relazione al disposto del comma 2, che impone, su richiesta dell´imputato, una sospensione di 45 giorni, fissando il termine di decorrenza dalla prima udienza utile successiva alla data di pubblicazione;
c) in relazione al disposto del comma 3 che dispone applicarsi le disposizioni dell´art. 4 della medesima legge anche ai processi in corso;
2. In primo luogo, in relazione al contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all´art. 3 Cost. si osserva che l´istituto della pena concordata e’ stato introdotto nel codice di rito vigente per determinare un effetto deflattivo del procedimento penale. In sostanza si e’ concesso alle parti di concordare la pena per evitare i costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie determinate dalla complessita’ dell´udienza preliminare o del dibattimento; in cambio di tale risparmio, l´imputato gode di uno sconto di un terzo della pena.
Tale principio e’ stato affermato anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 129 del 1993, laddove afferma, con riferimento ai riti speciali, che “l´interesse dell´imputato a beneficiare dei vantaggi conseguenti a tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia al dibattimento e venga percio’ effettivamente adottata una sequenza procedimentale che consenta di raggiungere l´obiettivo di una rapida definizione del processo”. Il carattere premiale del rito previsto dall´art. 444 cpp e’ stato ancora confermato dall´ordinanza n. 172 del 1998 di codesta Corte.
Ne consegue che lo sbarramento previsto dall´art. 446 comma 1 CPP per l´introduzione del rito ha una sua logica ferrea ed ineludibile, altrimenti verrebbe meno il principio stesso su cui si fonda il rito premiale. Il legislatore, con la novella del 2003, avrebbe dovuto consentire di presentare la richiesta lasciando inalterato il limite di cui all´art. 446, comma 1, CPP. Invece non ha operato neppure una distinzione fra i processi per i quali e’ stato aperto il dibattimento, ma non e’ stata compiuta alcuna attivita’ istruttoria e processi per i quali l´istruttoria e’ gia’ avanzata o addirittura e’ stato dichiarato chiuso il dibattimento e si e’ in fase di discussione.
Consentire la riduzione della pena anche a chi non ha fatto risparmiare alcuna risorsa allo Stato e ai cittadini, dopo che e’ stata celebrata l´udienza preliminare o il dibattimento e’ stato celebrato ed e’ stato addirittura dichiarato chiuso ed e’ addirittura in corso la discussione, non appare ragionevole e contrasta con i principi che sottendono l´istituto dell´applicazione della pena concordata.
3. Si ravvisa l´ulteriore contrasto con l´art. 111 Cost. oltre che, sotto diverso profilo, con l´art. 3 Cost. Quest´ultimo, nella parte relativa alla ragionevole durata del processo, e’ di recente introduzione e trae il suo fondamento nei principi enunciati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata dalla l. 4 agosto 1955, n. 848.
Appare opportuna qualche riflessione sull´interpretazione dell´art. 111 Cost. e sugli interessi che esso tutela. Occorre, cioe’, chiarire se il principio della ragionevole durata del processo debba essere riferito solo all´interesse di ogni singolo imputato – anche nel caso si tratti diprocesso con piu’ imputati – oppure si riferisca anche a tutte le altre parti processuali, oppure anche agli interessi dello Stato e dei cittadini in generale. E´ ovvio che se la speditezza processuale va intesa con riferimento al singolo imputato il quale, a seconda dei casi, ha interesse ad un processo piu’ lungo nella speranza della prescrizione del reato o piu’ breve, attraverso riti alternativi, prescindendo dagli interessi delle altre parti di quel medesimo processo e anche da interessi superiori della cittadinanza a vedere celebrati tutti i processi con sollecitudine, la richiesta di rito alternativo effettuata anche in corso di un processo in cui l´istruttoria dibattimentale sia gia’ iniziata o addirittura terminata, non incontrera’ ostacoli nell´art. 111 della Cost. Se, invece, l´interpretazione della ragionevole durata va commisurata anche ad altri interessi, e’ necessario svolgere alcune considerazioni.

In primo luogo si osserva che nell´attuale sistema i poteri decisori del giudice sono stati ampiamente ridotti in favore di quelli delle parti. Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del dibattimento, l´istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo, salvo nel caso in cui le parti prestino il consenso alla lettura. Nel caso, percio’, di un processo con piu’ imputati, di cui solo uno chieda la sospensione del processo, ai sensi dell´art. 5 comma 2 della legge 134/2003, e successivamente chieda l´applicazione della pena, il giudice deve, innanzitutto, stabilire se proseguire il processo nei confronti dei coimputati, effettuando uno stralcio della posizione del richiedente, che potrebbe rivelarsi poi inutile, con dispendio di energie e di attivita’ processuali; se, poi, anziche’ sospendere il processo anche nei confronti dei coimputati, lo rinvia in attesa del decorso dei 45 giorni prescritti e all´udienza successiva l`interessato richiede l´applicazione della pena, l´accoglimento dell´istanza renderebbe il giudice incompatibile a giudicare gli altri coimputati; il rigetto della richiesta lo renderebbe ugualmente incompatibile a giudicare l´imputato; in entrambi i casi il processo dovrebbe iniziare ex novo innanzi ad altro giudice, con rinnovazione dell´istruttoria dibattimentale. In tal caso non vi sarebbe speditezza processuale ne’ per l´interessato ne’ per i coimputati, ma, anzi una dilatazione dei tempi della decisione (tra l´altro gia’ maturi perche’ l´istruttoria era esaurita); con la conseguenza che ad una decisione con rito ordinario ormai certa nel tempo, si sostituisce un´attivita’ interlocutoria di sospensione che potrebbe concludersi con il rigetto della richiesta di applicazione della pena e con la necessita’ di celebrare ex novo il processo con rito ordinario.
Questo tribunale non ignora che la Corte, con sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che “l´applicazione della pena concordata con il pubblico ministero da uno solo degli imputati di concorso nel medesimo reato costituisce un procedimento congegnato come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine al quale e’ previsto un controllo giurisdizionale che non include pero’ la valutazione delle posizioni dei coimputati”. La questione, tuttavia, era stata esaminata solo con riferimento all´art. 3 della Costituzione ed inoltre, era afferente ad una disposizione ordinaria e non all´introduzione di una norma transitoria, come quella oggi denunciata, che mira ad applicare l´istituto a tutti i procedimenti in corso, anche se in fase dibattimentale. Sicche’ e’ questione nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata era antecedente alla riforma dell´art. 111 della Costituzione.
4. Si osserva, inoltre che, nel caso di applicazione della pena, la parte civile costituita vedrebbe crollare le proprie legittime aspettative, dovendo ricominciare il processo ex novo sia nei confronti dei coimputati innanzi ad altro giudice sia separatamente – in sede civile – nei confronti di colui che e’ stato ammesso al “patteggiamento”. E´ vero che la Corte ha affrontato il problema relativo all´esclusione della parte civile nel rito de quo (v. sent. N. 443/1990), ma e’ pur vero che si trattava di decisioni che si riferivano al sistema “ordinario” di applicazione della pena e non di norma transitoria, come quella in esame che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui la parte civile sta gia’ esercitando il proprio diritto con una legittima aspettativa di rapida e normale decisione. Sicche’ anche sotto tale aspetto la frustrazione dei diritti della parte civile e della ragionevole durata – anche per lei – del processo finisce con il violare i principi di ragionevolezza e di giusto processo di ragionevole durata stabiliti dagli artt. 3 e 111 della Costituzione.
5. Questo Tribunale ritiene che l´interpretazione estensiva dell´art. 111 Cost. sia maggiormente fondata anche alla luce della produzione legislativa che ha fatto seguito alla modifica della norma costituzionale. E´ noto, infatti, che l´Italia e’ stata piu’ volte condannata dalla Corte europea per l´eccessiva durata dei processi. La condanna prescinde da eventuali responsabilita’ dei giudici, ma si fonda sul principio che ciascun paese deve dotarsi di leggi processuali che consentano una rapida definizione dei processi. Gia’ da molti anni vi sono paesi, come la Danimarca e l´Olanda, che sono in grado di definire la maggior parte dei processi in primo grado nell´arco di tre mesi, esaurendo l´appello nel successivo trimestre. Cio’ e’ dovuto ad una semplificazione soprattutto del sistema delle notificazioni, all´esistenza di maggiori obblighi di diligenza delle parti processuali, ivi compresi gli imputati. E´ chiaro che in sistemi siffatti la sospensione di un processo anche solo per 45 giorni, ossia oltre un terzo del tempo complessivo di definizione, sarebbe inaccettabile. Per ovviare alle condanne in sede europea in Italia e’ stata introdotta la normativa statale (l. 24 marzo 2001, n. 89) che consente alle parti un´equa riparazione allorche’ il processo abbia avuto una durata eccessiva, indipendentemente dalle ragioni che l´abbiano determinata. L´equa riparazione non spetta solo all´imputato, ma anche alla parte civile. Da cio’ si evince che la ragionevole durata del processo non e’ un diritto solo dell´imputato, ma anche delle altre parti processuali, ivi compresa la parte civile, ed assurge, quindi a principio generale.
Assume rilievo, nel sistema, ad esempio, l´art. 477 C.P.P. che impone tempi rapidissimi per la definizione del dibattimento, stabilendo che il rinvio del processo dev´essere effettuato al giorno successivo e che il processo puo’ essere sospeso solo per ragioni “di assoluta necessita’” e “per un termine massimo di dieci giorni”, computate tutte le dilazioni. Si rileva, inoltre, che nel caso di giudizio immediato, e’ previsto il termine di 15 giorni per la richiesta di pena concordata, ossia un tempo che e’ esattamente un terzo di quello oggi previsto dalla novella, pur vertendosi in materia analoga.
Se tale assunto e’ corretto, deve ritenersi che non corrisponde ai parametri costituzionali di ragionevolezza (art.3 Cost). e di ragionevole durata (art. 111 Cost.) la norma che consente di sospendere il processo per 45 giorni e di richiedere l´applicazione della pena anche nei processi in corso.
6. Come s´e’ prima precisato, l´art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce che : “Su richiesta dell´imputato il dibattimento e’ sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni per valutare l´opportunita’ della richiesta e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare”. Premesso che la disposizione s´applica a tutti i processi in corso, percio’ perfino ai processi per in fase di discussione, si rileva che non appare ragionevole la concessione di un termine decorrente dalla prima udienza utile. Sotto tale profilo si osserva che ogni cittadino e’ tenuto a conoscere le leggi pubblicate. Pertanto ogni imputato e’ stato posto in grado, nel
momento in cui la legge in esame e’ stata pubblicata, di valutare l´opportunita’ di avvalersi della pena concordata. A maggior conforto di tale assunto si rileva che ogni imputato e’ assistito da un difensore, sicche’ ha avuto modo di consultarsi con lo stesso per valutare l´opportunita’ di
avvalersi della pena concordata. La concessione di un termine di durata notevole, (ossia ben quarantacinque giorni), in rapporto ai parametri sopra esposti, decorrente dalla prima udienza anziche’ dalla vigenza della legge, appare irragionevole. Tale irragionevolezza appare di tutta evidenza allorche’ la fase istruttoria sia esaurita o il processo sia addirittura in fase di discussione, e, quindi, l´imputato ha potuto valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della convenienza eventuale di concordare la pena.
Una volta accertato che il rapporto esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi di valutare momento per momento le opportunita’ di scelte processuali e che, dunque, non v´e’ lesione del diritto di difesa ammettere che l´imputato, alla prima udienza utile, debba dichiarare se intende “patteggiare” o no, anziche’ chiedere un lungo termine di riflessione, deve ritenersi che la sospensione obbligatoria per 45 giorni incida sulla ragionevole durata del processo. Nel bilanciamento tra l´interesse dell´imputato e l´interesse generale ad una durata ragionevole – posto che nessun danno deriva all´imputato nel dichiarazione alla prima udienza utile se intende concordare la pena – sembra dover prevalere la ragionevole durata del processo.

7. Il Tribunale prospetta il dubbio di legittimita’, per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione, anche dell´art. 1 della legge 12 giugno 2003, n. 134, il quale stabilisce quanto segue:
“Il comma 1 dell’articolo 444 del codice di procedura penale e’ sostituito dai seguenti:
«1. L’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
1-bis. Sono esclusi dall’applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, nonche’ quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
Con la norma in esame si sottrae al giudizio di cognizione piena la maggioranza assoluta dei reati, molti dei quali di notevole gravita’, trasformando di fatto il rito speciale di applicazione della pena in un rito generalizzato, in violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza e di formazione della prova in contraddittorio di cui agli artt. 3 e 111 della Cost., gia’ consacrati nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell´uomo. L’art. 6, primo comma, primo periodo della l. 4 agosto 1955, n. 848, di ratifica della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, stabilisce che: “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che decidera’ sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei”.
Il terzo comma del medesimo articolo, in particolare alla lettera d), sancisce “il diritto di interrogare o fare interrogare i testimoni a carico ed ottenere la citazione e l´interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni dei testimoni a carico”. In sostanza l´articolo citato sancisce il principio del contraddittorio nel processo, poi recepito dall´art. 111, commi 1, 2 e 4 della Cost. come novellato nel 1999. In altri termini il principio che regola l´accertamento della responsabilita’ penale e’ fondato su di un giusto processo che preveda una fase di cognizione piena con un contraddittorio che ponga le parti “in condizioni di parita’”, come espressamente stabilito dal comma 2° della norma costituzionale in esame. Ne’ sembra ragionevole ritenere che il principio generale possa essere derogato dal comma 5 dell´art. 111, laddove afferma che “La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell´imputato” e cio’ per due ragioni.
In primo luogo perche’ la modifica dell´art. 444 CPP consente per un elevatissimo numero di reati, in sostanza la maggioranza, di concordare la pena, cosi’ introducendo di fatto il principio generale che la responsabilita’ penale non va accertata – infatti la sentenza cosiddetta di patteggiamento non e’ sentenza di condanna, ma solo a questa equiparata sotto alcuni aspetti – mentre soltanto per un ristretto numero di reati si perviene ad un accertamento di responsabilita’ con cognizione piena.
In secondo luogo la deroga stabilita dal quinto comma dell´art. 111 non sembra possa riferirsi ad una sentenza di applicazione di pena, ma solo intendersi come rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio, in un regolare processo di cognizione, quando l´imputato vi consenta. Tale interpretazione e’ fondata sulla circostanza che altrimenti il comma quinto dell´art. 111 si porrebbe in contrasto con il comma secondo del medesimo articolo, laddove stabilisce dapprima il principio secondo cui il contraddittorio tra le parti e’ la regola generale a fondamento del processo e poi stabilisce che le parti debbono essere in condizioni di parita’.
A tal riguardo la sentenza di codesta Corte n. 129 del 1993 gia’ affermava che il nostro sistema processuale e’ “imperniato sulla formazione della prova in dibattimento.”
8. A cio’ si aggiunge che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell´uomo, stabilisce che il processo debba essere celebrato “pubblicamente”. La pubblicita’ del processo e’ anche un carattere essenziale di uno stato democratico ed e’ garanzia di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L´applicazione della pena avviene in camera di consiglio. Se, dunque, per un numero ridotto di reati e, in particolare per quelli di minore gravita’ puo’ avere una sua logica il procedimento previsto dall´art. 444 CPP, che non prevede la pubblicita’ dell´udienza e un accertamento pieno di responsabilita’, trasformare quest´ultimo nel procedimento di piu’ vasta applicazione, riducendo il rito ordinario di cognizione piena ad ipotesi minoritaria e relativa solo a reati di massima gravita’, e limitando fortemente i casi in cui il processo e’ pubblico sembra contrastare con il principio di ragionevolezza e con principio che il processo e’ condotto in contraddittorio e con formazione della prova in dibattimento mediante un “giusto processo” e con pari dignita’ di tutte le parti (artt. 3 e 111 Cost.).
Reati con pena edittale molto elevata, come il tentato omicidio, la rapina aggravata o la violenza sessuale aggravata, con il giudizio di comparazione con le attenuanti e la riduzione prevista per il rito prescelto possono essere definiti con una sentenza che non e’ di condanna, ma solo equiparata a questa, con estromissione della parte civile e ponendo la parte offesa ai margini del processo che pur la vede vittima.
9. Le eccezioni oggi proposte sono rilevanti per le seguenti ragioni:
A) E´ stata richiesta dal difensore, munito di procura speciale, di uno solo degli imputati la sospensione del processo ai sensi dell´art. 5, comma 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134; i difensori di altri imputati, pur privi di procura speciale, hanno chiesto ugualmente la sospensione, sicche’ questo giudice non avrebbe alcun potere discrezionale in ordine alla richiesta.
B) Il dibattimento e’ stato chiuso e per l´udienza era prevista solo la discussione delle parti, dopo un´istruttoria dibattimentale molto impegnativa.
C) Vi e’ parte civile gia’ costituita.
D) La norma che prevede la sospensione obbligatoria e’ strettamente correlata alla facolta’ di richiedere la pena concordata disciplinata dalla norma transitoria. Sicche’ appare attualmente rilevante anche l´eccezione che concerne l´estensione ai processi in corso della facolta’ di richiedere l´applicazione della pena. Ne consegue che, ove si ritenesse l´irrazionalita’ dell´impianto normativo almeno con riguardo alla disposizione transitoria di cui all´art. 5. comma, 1, resterebbe addirittura assorbita la questione relativa al termine di sospensione. L’eccezione non e’ manifestamente infondata per le ragioni sopra esposte.


P.Q.M.


V. la legge Cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e l’art. 23 della Legge 11 marzo 1953 n. 87;
ritenuta non manifestamente infondata e rilevante ai fini del presente giudizio la questione di legittimita’ costituzionale dell´art. 1, comma 1, e dell´art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione nei limiti e nei termini di cui in motivazione;
sospende il giudizio in corso;
ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
dispone che la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Roma, 1 luglio 2003

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Giusto Processo Anche Contro Il "Patteggiamento Allargato"

7 Luglio 2003 Commenta

Roma – Nei giorni scorsi il Tribunale di Roma – in composizione collegiale – ha sollevato questione di legittimita’ costituzionale in merito ad alcuni articoli della legge n. 134 del 2003, che ha introdotto nel nostro Paese l’istituto del c.d. “patteggiamento allargato”. Ad avviso del Collegio, questa nuova forma di incentivazione al rito speciale del patteggiamento lede seriamente gli interessi della Giustizia (nonche’ delle parti civili costituitesi nei procedimenti penali) alla speditezza dei processi. Insomma, il Legislatore pone il fianco (per l’ennesima volta) alle sanzioni che la Corte Europea ci infligge – con sempre maggiore frequenza – per la lentezza dei processi italiani. Prima di affrontare la lettura dell’ordinanza della Quinta Sezione Penale del Tribunale di Roma datata 1/7/03 (inserita per esteso nella versione integrale di questo articolo), appare opportuno fare una breve premessa circa la legge n. 134 del 2003. La Legge 12 giugno 2003, n. 134 “Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti” (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 136 del 14 Giugno 2003) con i suoi cinque articoli introduce la possibilita’ per l’imputato di sospendere per 45 giorni il processo, al fine di valutare la possibilita’ di chiedere il c.d. patteggiamento (ovvero il rito speciale dell’applicazione della pena su richiesta delle parti – art. 444 c.p.p.). Nulla di strano, di primo acchito. La particolarita’ di questa nuova disposizione, pero’, riguarda i tempi in cui si puo’ chiedere il patteggiamento. In precedenza, il codice di procedura penale poneva un imponente limite all’imputato per la richiesta del patteggiamento (che, come si sa, offre il beneficio di uno “sconto” di pena fino a un terzo); cioe’ questi (e anche il pubblico ministero) poteva formulare al giudice la richiesta al massimo entro la fine della presentazione delle conclusioni del p. m. e dei difensori (nell’udienza preliminare) ed entro la fine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo (art. 446, comma 1, c.p.p.). Con la nuova legge, invece, tale sbarramento non c’e’ piu’. Infatti, l’art. 5, comma 1, l. 134/03 prevede che le parti possano chiedere il patteggiamento anche dopo il limite massimo di cui si e’ parlato e, inoltre, “anche quando sia gia’ stata presentata tale richiesta, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente” (ecco perche’ si parla di patteggiamento “allargato”). Nell’ordinanza del Collegio (fra cui e’ presente in maniera illustre il giudice Gennaro Francione – passato alla cronaca come il “giudice anti-copyright”) ritiene si debba accertare e dichiarare l’incostituzionalita’ dell’articolo 1 e dell’articolo 5 della legge menzionata, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.. Sarebbe quanto mai opportuno leggere con attenzione le intelligenti motivazioni che il Collegio porta a conforto delle proprie tesi. Se l’art. 1 della predetta legge amplia l’applicazione del patteggiamento alle pene detentive che, tenuto conto delle circostanze e diminuite fino a un terzo, non superino i “cinque” anni (mentre prima era previsto che non superassero i “due” anni), si va inevitabilmente a far rientrare nel circuito premiale del patteggiamento la maggior parte dei processi celebrati in Italia. Basta fare un breve calcolo e si potra’ facilmente osservare, infatti, che la maggior parte degli imputati in Italia sono processati per delitti che comportino la pena detentiva nel massimo di quindici anni. Inoltre, l’art. 5 della legge n. 134/03, con l’annullamento delle barriere temporali di cui si diceva, fa cadere nel nulla proprio l’intera ratio del patteggiamento. Questo rito speciale, infatti, nasce sull’esigenza di venire incontro all’imputato (consentendo lo “sconto” di pena), ma ponendo un limite massimo entro cui formulare la richiesta: cioe’ – in poche parole – vale a dire “sconto di pena, si’, ma il tutto deve svolgersi in tempi brevissimi”. Altrimenti – cosi’ come ideato – l’intero istituto dell’art. 444 c.p.p. non avrebbe senso! Dunque, per cercare di capire il senso della presente ordinanza, si puo’ affermare che il perno del pensiero del Collegio sia proprio quello di non compromettere ancora di piu’ la velocita’ dei processi italiani. Il grido di protesta sembra non essere affatto un coro di voci isolate, poiche’ si assiste a esperienze di altri Paesi europei in cui i processi hanno tempi ridottissimi; ma, soprattutto, perche’ l’Italia e’ continuamente ripresa dalla Corte Europea per la lentezza dei processi e, al fine di generare un’inversione di tendenza, lo stesso Legislatore ha introdotto la legge 89/01 con cui si voleva proprio ridurre i tempi dei procedimenti. Con la presente ordinanza, infine, si solleva anche un importante problema: quello delle esigenze della parte civile in un processo in cui venga applicato il rito del patteggiamento. L’art. 444 c.p.p., comma 2 seconda parte, prevede infatti che (se viene applicato il patteggiamento) la parte civile veda la propria domanda cadere nel vuoto, poiche’ il giudice non decidera’ piu’ sulle sue richieste (e, pertanto, dovra’ agire solamente in sede civilistica). Dunque, come afferma il Collegio, la parte civile “vedrebbe crollare le proprie legittime aspettative, dovendo ricominciare il processo ex novo sia nei confronti dei coimputati innanzi ad altro giudice sia separatamente – in sede civile – nei confronti di colui che e’ stato ammesso al patteggiamento”. Come gia’ la Corte Costituzionale ha precisato nella sentenza n. 443/90, non appare incostituzionale che il giudice (una volta che sia stata concessa l’applicazione del patteggiamento) non possa piu’ decidere sulla domanda della parte civile. La Corte cosi’ motivo’: “Non sussiste disparita’ di trattamento rispetto al danneggiato da reato piu’ grave o da reato identico ma il cui imputato non si avvalga del patteggiamento, ne’ vi e’ una irragionevole e ingiustificata concessione di benefici all’imputato a scapito del danneggiato: le azioni di risarcimento e di restituzione sono subordinate all’azione penale e percio’ ‘subiscono tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale’ (Corte Costituz. n. 171 del 1982), prevale percio’ l’interesse costituzionalmente rilevante ad una rapida definizione dei procedimenti penali. Non sussiste violazione del diritto all’azione posto che l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e le restituzioni nel processo penale non e’ l’unico strumento di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto al quale il reato ha recato danno”. Oggi invece, poiche’ e’ stata modificata proprio la norma di cui all’art. 444 c.p.p., sarebbe opportuno che la Corte Costituzionale rivedesse il proprio orientamento, favorendo in qualche modo le pretese della parte civile. Questa e’ un’altra richiesta fatta in maniera esplicita dal Collegio, dunque, che si fa notare per aver portato subito all’attenzione di tutti gli importanti problemi del “giusto processo” e, quindi, della speditezza dei medesimi procedimenti, in relazione alla legge emanata il 12 giugno scorso.]]>

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