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Alla Camera di Commercio il controllo della clausole vessatorie nei contratti nel commercio elettronico

25 Marzo 2004 Commenta

M. Iaselli – Alla Camera di Commercio spetta l’attivita’ di controllo della presenza di clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto nel commercio elettronico, oltre che nel settore immobiliare, della multiproprieta’, del turismo, del gas ed energia elettrica, della telefonia, dell’assicurazione RC Auto.
La legge di riordino degli Enti camerali – Legge n. 580/93 – ha infatti potenziato ed ampliato notevolmente  i compiti ed il ruolo delle Camere di Commercio: esse, oltre ad essere il punto di riferimento per l’intero sistema imprenditoriale, svolgono la loro attivita’ di promozione e di regolazione anche attraverso la tutela dei consumatori ed utenti tramite un’azione di controllo finalizzata alla eliminazione di situazioni di potenziale conflitto  tra i soggetti del mercato.
Ulteriore riconoscimento di questo nuovo ruolo super-partes alle Camere di Commercio deriva dall’essere state annoverate tra i soggetti legittimati ad esperire l’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie nei contratti con i consumatori.
E’ in tal senso che la Camera di Commercio, Industria, Artigianato ed Agricoltura di Milano organizza il giorno 8 aprile 2004 presso Palazzo Turati – Sala del Consiglio un workshop sulle “clausole vessatorie nel commercio on-line” che vede la partecipazione di professionisti e rappresentanti dei consumatori.

Nell’ambito della negoziazione on-line che oggi con la regolamentazione dell’e-commerce (grazie al d.lgs. n. 70/2003 attuativo della direttiva 2000/31/CE) ha assunto una notevole rilevanza, si ripropongono ed anzi vengono accentuati molti problemi che sono tipici dell’attivita’ contrattuale. In particolare avuto riferimento all’inadempimento di una delle parti ci si trova di fronte al problema generale costituito dalla necessita’ di selezionare le conseguenze dannose risarcibili che tra l’altro si acuisce nei casi in esame, in quanto aumenta la difficolta’ di verificare, sotto il profilo tecnico, le singole voci del danno prodotto dall’inadempimento.
Se da un canto, come sopra evidenziato, si possono verificare seri problemi per l’impresa che debba interrompere, parzialmente o totalmente, la propria attivita’, d’altra parte vi e’ l’esigenza di non sovraesporre il fornitore a conseguenze non ragionevoli in relazione alla condotta a lui addebitabile. Risulta pertanto indispensabile una rigorosa applicazione delle regole fissate dal legislatore in caso di responsabilita’ da inadempimento, secondo le quali il danno e’ risarcibile solo quando sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223 c.c.),  prevedibile (art. 1225 c.c.), evitabile mediante la condotta del danneggiato in grado di far fronte efficacemente all’altrui inadempimento (art. 1227, 2° co., c.c.).

Se il problema in esame puo’ dirsi spesso, in concreto, superato dalla prassi contrattuale secondo la quale le parti inseriscono nell’accordo clausole che disciplinano convenzionalmente responsabilita’ e risarcimento, deve tuttavia constatarsi che esso si ripropone per l’interprete dell’accordo chiamato a verificare la validita’ delle clausole di limitazione o di esonero delle responsabilita’ contenute nei formulari standard del fornitore; e’ ovvio che, in caso di contrasto, se le clausole di esonero risultano invalide l’interprete e’ altresi’ chiamato a quantificare il danno.
La invalidita’ delle clausole puo’ derivare dalla violazione dell’art. 1229 c.c. ovvero dalla violazione delle norme poste a tutela del contraente debole nei contratti stipulati dal consumatore.
Quanto alla prima norma, essa deve essere letta come espressione ulteriore del principio di correttezza dei rapporti giuridici, piu’ volte richiamato, per cui non sono ammessi patti che escludano o limitino la responsabilita’ del debitore per dolo o colpa grave. Nel caso specifico dell’inadempimento contrattuale va sottolineato che, proprio in virtu’ dell’applicazione di tale regola, deve considerarsi affetto da nullita’ un patto che renda in concreto irrisorio il risarcimento del danno preconcordato tra le parti.
La dottrina richiama, come applicazione specifica dell’art. 1229, le norme in materia di vendita, locazione e appalto. Invero ai sensi dell’art. 1490 c.c. il patto con cui si esclude la garanzia per i vizi della cosa venduta non ha effetto se il venditore ha in mala fede taciuto i vizi; ai sensi dell’art. 1579 c.c. la clausola con cui si esclude o si limita la responsabilita’ del locatore per i vizi della cosa e’ priva di effetto non solo nel caso in cui questi abbia in mala fede taciuto i vizi, ma anche quando la rilevanza del vizio sia oggettivamente tale da rendere impossibile il godimento della cosa; ai sensi degli artt. 1667-1668 c.c. le parti possono modificare la disciplina legale della responsabilita’ dell’appaltatore per vizi e difformita’ dell’opera, sia variando i presupposti della responsabilita’, sia regolandone diversamente il contenuto e la durata, salvo il limite di cui all’art. 1229 c.c.

Giova qui sottolineare che una parte della giurisprudenza di merito ha applicato in materia di clausola penale, la clausola cui le parti ricorrono appunto per liquidare in via preventiva ed omnicompresiva il danno da inadempimento, il principio dell’indebito arricchimento, affermando che in sede giudiziaria si puo’ procedere a riduzione della penale nei casi in cui il risarcimento risulti, all’opposto dei casi sopra considerati, esagerato rispetto al danno verificatosi (Tribunale Firenze 17.9.1994).
Non si puo’ escludere che tale principio possa trovare applicazione nei contratti informatici: si pensi ad esempio al caso in cui l’impresa sia dotata di un sistema informatico parallelo che abbia continuato a funzionare sicche’ nessun danno si e’ verificato per inadempimento del fornitore.

Certamente, proprio in relazione ai rapporti di forza normalmente esistenti tra le parti, una questione di notevole portata pratica riguarda l’applicabilita’ ai contratti in esame delle norme relative ai contratti conclusi con i consumatori, vale a dire i cinque articoli (1469 – bis/sexies) inseriti a costituire il capo XIV bis dalla legge n. 52 del 6 febbraio 1996 (attuativa della Direttiva n. 93/13/Cee del 05/05/93).

Molte delle clausole contenute nei formulari standard impiegati dalle imprese del settore ricadono, infatti, in astratto nella previsione della normativa dettata dal legislatore per i c.d. contratti per adesione o per i contratti stipulati dal consumatore. Tuttavia bisogna rilevare che la normativa relativa ai contratti conclusi mediante moduli o formulari si preoccupa di verificare la sussistenza di un accordo su tutti i punti contenuti nel contratto, dettando norme volte a garantire la piena efficacia solo delle clausole conosciute o comunque evidenziate e quindi approvate specificamente dalla parte aderente allo schema predisposto dall’altro contraente (art. 1341, 2° comma c.c.).
La nuova normativa a tutela del consumatore, invece, prescindendo dall’accordo eventualmente formatosi, tende ad una tutela sostanziale del contraente debole per cui esclude del tutto la efficacia delle clausole tendenti ad escludere o limitare la responsabilita’ del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o un’omissione del professionista, nonche’ le clausole tendenti ad escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista (cfr. art. 1469 bis, 2° comma nn. 1 e 2).
D’altra parte, in applicazione del principio di indebito arricchimento, il legislatore qualifica come vessatoria anche la clausola con la quale viene imposto al consumatore, in caso di suo inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di danaro a titolo di risarcimento del danno, clausola penale o altro titolo equivalente, di importo manifestamente eccessivo (cfr. art. 1469 bis, 2° comma n. 6).

E’ agevole constatare che la tutela assicurata all’utente con la normativa da ultimo richiamata risulta particolarmente incisiva perche’ non limita il suo intervento alla tutela del principio del consensualismo, verificando solo se esista un accordo, ma elimina la operativita’ delle clausole vessatorie, senza escludere la validita’ del contratto.
Spesso, infatti, l’utente aderisce a clausole vessatorie perche’ ha necessita’ di avvalersi di un determinato servizio che solo una determinata societa’ puo’ fornire e quindi l’accordo e’ esistente in concreto, ma e’ forzato in alcuni punti che riflettono la posizione di debolezza di uno dei contraenti. Una risposta a tale realta’ e’ proprio la normativa dettata dagli artt. 1469 bis – 1469 sexies c.c. che, tuttavia, pone due considerevoli problemi interpretativi, entrambi attinenti all’ambito di applicazione, ovvero sotto il profilo oggettivo il concetto di clausola vessatoria e sotto il profilo soggettivo i concetti di consumatore e professionista riferiti alle parti.

Quanto al primo profilo, il legislatore ha operato con modalita’ differenti:
– all’art. 1469-bis, 1° comma ha dettato una definizione di carattere generale secondo la quale si considerano vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto;
– all’art. 1469-ter, 1° comma ha precisato gli elementi che devono costituire oggetto di valutazione della vessatorieta’, ovvero la natura del bene o del servizio oggetto del contratto e le circostanze esistenti al momento della sua conclusione nonche’ le altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende;
– all’art. 1469-bis, 3° comma ha previsto un elenco, organizzato in venti punti, di tipi di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria.
Tuttavia occorre tener conto altresi’ dei limiti negativi posti dall’art. 1469 bis che esclude si possa configurare la vessatorieta’: 1) con riguardo alla determinazione dell’oggetto del contratto ovvero con riguardo all’adeguatezza del corrispettivo, 2) nei casi in cui siano riprodotte norme nazionali o contenute in convenzioni internazionali; 3) qualora vi sia stata una trattativa individuale. Mentre sono chiari gli ultimi due punti essendo evidente che non si puo’ attribuire carattere di vessatorieta’ ad accordi che riproducono norme (semmai queste ultime se in contrasto con i principi della Costituzione possono essere impugnate dinanzi alla Corte Costituzionale), ne’ si puo’ contestare una specifica intesa intervenuta con il singolo contraente per esigenze particolari (l’autonomia negoziale costituisce comunque un valore del nostro sistema ex art. 41 Cost.), di difficile interpretazione e’ il primo punto non essendo chiara la distinzione che l’interprete deve operare tra natura del bene oggetto del contratto (rilevante per il 1° comma) e determinazione dell’oggetto del contratto medesimo (non rilevante per il 2° comma). Probabilmente con il riferimento al concetto di determinazione si vuole solo chiarire che la eventuale indeterminatezza attiene ai principi generali in materia di validita’ del contratto e non allo squilibrio tra le parti.
Quanto al profilo soggettivo, il legislatore espressamente prevede che la normativa si applica solo ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista, secondo il chiaro dettato dell’art. 1469-bis, 1° comma. Il medesimo articolo al 2° comma definisce il professionista come la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che utilizza il contratto nel quadro della sua attivita’ imprenditoriale o professionale; ai fini che qui interessano si puo’ affermare quindi che il fornitore di prodotti o servizi informatici deve certamente considerarsi “parte professionale”.

Non altrettanto chiara e’ la figura del consumatore che viene definita, nello stesso articolo 1469 bis, come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attivita’ imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Si tratta di una definizione in negativo che, come e’ ovvio, sara’ suscettibile di interpretazioni estensive o restrittive.
Ai fini che qui interessano certamente non potra’ considerarsi consumatore il professionista che acquisti hardware e/o software inerenti alla propria attivita’ lavorativa, ma resta dubbio se possa considerarsi consumatore oppure no l’imprenditore che richieda un sistema informatico per la creazione di un proprio archivio, professionale e personale insieme.

Inoltre, nel contratto concluso tra un professionista e un consumatore, la clausola che recepisce un uso considerato dalla legge come vessatorio e’ inefficace se non e’ frutto di una trattativa individuale, come si desume implicitamente dall’art. 1469-ter che non esclude dal novero della vessatorieta’ le clausole riproduttive degli usi.
In definitiva, il richiamo agli usi in un contratto telematico deve essere oggetto di una specifica trattativa, che puo’ essere effettuata tramite uno scambio di messaggi elettronici anche non digitalmente firmati, e deve, all’atto dell’approvazione, essere anche digitalmente siglato mediante i meccanismi certi di sottoscrizione per rispettare i parametri di legge sulla necessaria sottoscrizione delle clausole vessatorie.

Le clausole da sottoscrivere possono anche essere esterne al documento contrattuale purche’ immediatamente richiamabili attraverso la tecnica del “linking”, mediante la quale cliccando su un determinato richiamo ipertestuale contenuto in una pagina web e’ possibile aprire una diversa pagina dello stesso sito o addirittura di altro sito.
Tale dissociazione puo’ comportare problemi tecnici che assumono rilevanza giuridica, come nel caso in cui il contratto rinvii ad una pagina web che non sia attiva per motivi indipendenti dalla volonta’ del predisponente.
Inoltre occorre prevedere due meccanismi di sottoscrizione digitale differenti tra loro, uno per quanto riguarda la stipula del contratto e l’altro per l’approvazione delle singole clausole vessatorie. Quest’ultimo aspetto che appariva piuttosto contorto puo’ essere oggi reso piu’ semplice con la recente introduzione nel nostro ordinamento della firma elettronica “leggera”.
E’ fatto poi esplicito divieto di fornitura di beni o di servizi al consumatore se questi non ne abbia fatto previa ordinazione. In caso di violazione di tale divieto il consumatore non e’ tenuto a pagare alcun corrispettivo.

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