Uso illecito dei nomi di dominio: una casistica in espansione
Ormai, con la diffusione dell’e-commerce, l’uso commerciale dei domain names solleva il problema della interferenza con i segni distintivi dell’impresa; infatti i domain names talora coincidono con marchi o altri segni distintivi altrui, o comunque presentano elementi di somiglianza con questi ultimi.
In mancanza di specifiche normative in materia, la giurisprudenza prevalente che si e’ occupata diverse volte della problematica in argomento, ha ritenuto applicabile la disciplina del marchio di cui al R.D. n. 929 del 1942 e quindi le conseguenti norme sulla concorrenza. Tale assunto parte dal presupposto logico-giuridico della funzione del nome a dominio come segno distintivo. Per la verita’ ci sono state anche decisioni divergenti piuttosto isolate come l’ ordinanza del Tribunale di Firenze del 29/06/2000 la quale ha ritenuto che il domain name debba essere considerato un semplice indirizzo elettronico, fondandosi sull’aspetto prevalente tecnico.
Come e’ noto l’attuale normativa italiana sui marchi registrati e cioe’ il novellato R.D. 21 giugno 1942 n. 929, non tutela espressamente il marchio registrato da utilizzazioni di terzi come nome a dominio, affermando il piu’ generale principio del diritto all’uso esclusivo da parte del titolare e del diritto di vietare ai terzi di usare un segno identico o simile (art. 1). Si ritiene, comunque, che l’utilizzo del segno vada tutelato in tutti i contesti sempre che vi sia il pericolo di confusione tale da ledere lo ius excludendi del suo legittimo titolare, ovvero che vi sia un rischio di associazione da parte del pubblico. D’altronde, secondo il principio dell’unitarieta’ dei segni distintivi, il marchio registrato deve essere idoneo a rappresentare e ad identificare il soggetto titolare in ogni sua rappresentazione, essendo slegato da un determinato e specifico ambito di operativita’ (SAMMARCO).
Per tali motivi, pur nell’assenza di uno specifico provvedimento normativo che disciplinasse i nomi di dominio, si e’ sempre ritenuto che l’ambiente di Internet non possa essere escluso dalla tutela accordata dalla legge ai marchi registrati, essendo esso un idoneo veicolo di propaganda commerciale ed ora anche un sistema nel quale possono essere compiute delle transazioni a carattere commerciale di beni o servizi contraddistinti appunto da segni distintivi.
Naturalmente a breve con l’avvento del nuovo Codice dei diritti di proprieta’ industriale, approvato in via preliminare dal Governo, verra’ assicurata una tutela non solo sostanziale dei nomi a dominio ma anche formale, in quanto per la prima volta viene equiparato a livello legislativo il nome a dominio agli altri segni distintivi, prevedendo, all’articolo 122 (Unitarieta’ dei segni distintivi) che:
1. E’ vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio aziendale un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identita’ o dell’affinita’ tra l’attivita’ di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio e’ adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni.
2. Il divieto di cui al comma 1 si estende all’adozione come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio aziendale di un segno uguale o simile ad un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, che goda nello Stato di rinomanza se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.
Una volta, quindi, accertato che il marchio registrato debba essere tutelato anche su Internet, puo’, quindi, presentarsi il caso in cui un soggetto registri presso la autorita’ competente un nome a dominio che corrisponda in tutto o in parte ad un marchio registrato il cui diritto di utilizzo e’ di esclusiva spettanza di un terzo.
In questi casi, gli strumenti adottabili da parte del titolare del marchio registrato che ritiene che l’utilizzo del proprio marchio come nome a dominio altrui possa configurare una attivita’ illecita, sono quelli forniti dalla normativa in tema di marchi e dalla disciplina sulla concorrenza sleale.
La giurisprudenza italiana e straniera chiamata a giudicare sui numerosi casi emersi, ha affermato piu’ volte il principio della equiparazione di Internet al mondo tangibile, sancendo, nel contempo, che l’uso di un domain name sulla rete che riproduca un marchio registrato da un terzo, integri la fattispecie della contraffazione del marchio in quanto comporta l’immediato vantaggio di ricollegare l’attivita’ a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorieta’ del segno e traendone indebito vantaggio.
E, pertanto, gia’ sulla scorta di tale principio sancito a livello giurisprudenziale, solamente il titolare di un marchio registrato ha il diritto esclusivo di servirsene nella comunicazione di impresa e quindi anche in Internet o all’interno di un sito, o, come domain name (SAMMARCO).
Ma ovviamente e’ evidente l’affinita’ del nome di dominio non solo con il marchio, ma anche con il nome della persona: essendo il primo il segno di individuazione di un computer o di un sito, il secondo il segno di individuazione di una persona fisica.
La differenza di maggiore rilevanza risiede nel fatto che, per il nome della persona e non anche per quello di dominio, la tutela non puo’ essere esclusiva, essendo il nome (con tale locuzione dovendosi intendere, a questi fini, il nome comprensivo del prenome e del cognome) insufficiente all’identificazione di un solo soggetto.
La persona fisica, invero, e’ individuata anche dalla data e dal luogo di nascita (oppure da altri elementi stabiliti dai singoli ordinamenti, fra i quali, in passato, sono state frequenti la paternita’ e la maternita’), oltre che dal nome e dal cognome; mentre il dominio e’, nella rete, individuato soltanto dal nome, che si ricollega al numero che gli viene assegnato all’atto della registrazione e che lo contrassegna.
Una differenza ulteriore e’ rappresentata dalla rilevanza sul piano patrimoniale: mentre il diritto al nome in linea di principio non ne ha, trattandosi di diritto “personalissimo” che gode di tutela nell’ambito dei diritti della personalita’, altrettanto non puo’ dirsi per il nome di dominio, il quale si riferisce alla sfera patrimoniale dell’individuo, e’ alienabile ed e’ provvisto di valore commerciale (ANTONINI).
Piuttosto diffusi, purtroppo, sono quei casi di illegittima utilizzazione dei nomi di dominio, avuto specialmente riferimento alla registrazione di un segno distintivo altrui come nome di dominio per fini speculativi.
Si allude principalmente al domain grabbing e al cybersquatting: intendendosi, con il primo, l’accaparramento di marchi e di nomi altrui come proprio nome di dominio, e, con il secondo, la registrazione di marchi o di nomi con la specifica finalita’ di successiva rivendita del nome di dominio registrato al soggetto ad esso effettivamente interessato.
La notevole diffusione di tali pratiche illegittime ed il successivo approfondimento della materia sia in campo giurisprudenziale che dottrinale hanno portato ad una piu’ precisa ridefinizione delle diverse fattispecie connesse all’illegittima utilizzazione dei nomi di dominio.
In particolare il domain grabbing e’ stato considerato attinente ad un segno distintivo e quindi alla sfera patrimoniale, mentre il cybersquatting attinente al nome e quindi alla sfera personale.
Piu’ in particolare in relazione alla prima violazione, vengono in rilievo la legge marchi (r.d. n. 292 del 21 giugno 1942); l’art. 2598 c.c., n. 1, sulla contraffazione del marchio; l’art. 100 della legge sul diritto d’autore (l. n. 633 del 22 aprile 1941), qualora il marchio violato sia anche il titolo di una pubblicazione periodica. Mentre per la seconda violazione assumono rilievo gli art. 6-10 del c.c. o in misura ancora piu’ pertinente l’art. 21 della legge marchi (CASSANO).
Ma accanto alle queste due figure ormai pacificamente riconosciute nel nostro ordinamento e’ nata un’altra fattispecie di violazione in materia di nomi di dominio denominata typosquatting che altro non e’ che una forma evoluta di cybersquatting e consiste nel registrare un nome di dominio molto simile a quello utilizzato da un’altra societa’, con un duplice obiettivo: intercettare una parte del traffico indirizzato al sito ufficiale e intercettare il maggior numero possibile di e-mail inviate a indirizzi della societa’ presa di mira.
Spesso gli utenti commettono un errore digitando l’indirizzo Internet di un sito Web; se il nome di dominio del typosquatter e’ sufficientemente simile, ha buone possibilita’ di intercettare questo tipo di traffico che viene, cosi’, “autodirottatoâ€.
Ovviamente, se il sito e’ poco visitato, il fenomeno interessa una piccola percentuale di utenti; nel caso di siti con un traffico molto elevato, pero’, la percentuale puo’ crescere, fino a raggiungere le migliaia di visitatori al giorno.
Il responsabile, in questo modo, puo’ veicolare messaggi pubblicitari o proporre prodotti e servizi forniti da societa’ concorrenti o complementari alla societa’-vittima. Il segreto di questa tattica risiede nella capacita’ di individuare un indirizzo di typosquatting basato sugli errori di digitazione piu’ frequentemente commessi dagli utenti.
La strategia dei typosquatters e’ fondamentalmente basata su questi punti: concentrarsi su siti con un forte traffico, registrare numerose varianti del nome invertendo le lettere o sostituendone alcune, oppure depositare dei nomi che sono varianti fonetiche di quelli originali.
Il typosquatting e’ stato oggetto di specifici studi nei paesi anglosassoni e nell’ottobre del 2001, Marc Schneider ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta sul campo. Qualche tempo prima, aveva registrato il nome di dominio “jptmail.comâ€, molto vicino al noto “hotmail.comâ€. I due caratteri diversi, “j†e “pâ€, sulla tastiera sono situati immediatamente alla destra della “h†e della “o†dell’indirizzo originale. In realta’, questo indirizzo non era stato ben concepito, essendo necessario che vengano fatti ben due errori di digitazione consecutivi, cosa che avviene piuttosto raramente. Nonostante tutto, pero’, e’ riuscito a dirottare, in un anno, ben 3.000 visitatori. Si calcola che un indirizzo con un solo errore di digitazione potrebbe dirottarne fino a dieci volte di piu’.
Il procedimento seguito per intercettare parte delle e-mail indirizzate alla societa’ vittima consiste nell’attivare i propri server MX e indicare che si vuole ricevere tutte le e-mail spedite a xxx@proprionome.xx, senza far puntare il nome di dominio su un sito. In altre parole, se una libreria on line registra il nome di dominio “amzon.com†e recupera tutte le mail inviate a xxx@amzon.com o sales@amzon.com, potra’ facilmente intercettare una parte della clientela di Amazon, offrendo i propri prodotti agli utenti che hanno richiesto informazioni, commettendo un piccolo errore di digitazione. Nel caso citato da Marc Schneider, xxx@jptmail.com aveva ricevuto circa 300 messaggi in nove giorni, potenzialmente 9.000 al mese.
Il typosquatting nasce se vogliamo da un criterio che rappresenta il fondamento della tutela del nome di dominio almeno avuto riferimento alle caratteristiche tecniche della rete. Sulla base dello stesso, posto che la variazione anche di una sola lettera e’ sufficiente per contraddistinguere un nome di dominio da un altro, la registrazione di un nome viene consentita purche’ tecnicamente realizzabile e, cioe’, a condizione della diversita’ lessicale anche minima da ogni altro nome gia’ registrato, di per se’ idonea ad identificare due siti diversi.
Ma e’ evidente, che questa regola semplice (o, forse, semplicistica, se non banale) puo’ giovare allorquando non vi sono interessi commerciali da tutelare.
Puo’ ricevere applicazione, quindi, allorquando il nome sta ad individuare un puro indirizzo, una semplice casella, destinata all’utilizzazione privata e non allo svolgimento di una attivita’ con il pubblico e per il pubblico, provvista di valenza sul piano commerciale.
Negli altri casi, risulta al contrario evidente che l’utilizzazione di un nome pressoche’ eguale ad un altro precedentemente utilizzato puo’ giovare, al soggetto che l’ha registrato, per accaparrarsi meriti e notorieta’ gia’ conquistati dal titolare del precedente nome; e, parallelamente, puo’ sottrarre potenziale clientela al primo (e legittimo) registrante, in favore del secondo (ANTONINI).
Orbene, non puo’ essere dubbio che il primo registrante ha diritto di beneficiare in via esclusiva della notorieta’ che egli ha conseguito, tramite un’attivita’ di promozione o di sviluppo che puo’ essere stata intensa e puo’ avere comportato consistenti investimenti.
Soccorrono, in tale ipotesi, anche, le regole costituenti la disciplina della concorrenza sleale (art. 2598 cod. civ.), qualora essa sia configurabile.
Ma la configurazione del typosquatting non e’ del tutto pacifica, in quanto parte della dottrina (SAMMARCO) ritiene che sia necessario prioritariamente stabilire se la differenziazione tra nome di dominio e marchio debba essere significativa o possa essere, invece, anche lieve, cioe’ di modestissima entita’ . Difatti, la giurisprudenza formatasi in tema di segni distintivi, prevede che nel giudizio di accertamento della confondibilita’ tra marchi e’ necessario riferirsi al punto di vista ed alla normale intelligenza, diligenza ed avvedutezza delle persone alle quali il prodotto e’ destinato.
In piu’, va osservato che la capacita’ di discernimento media non e’ aprioristicamente definibile in via generale, ma varia a seconda dei prodotti di cui si tratta e delle categorie dei consumatori a cui essi sono destinati.
Secondo l’orientamento dominante, l’utilizzatore della rete che compie ricerche e sa muoversi in questo ambito, e’ un soggetto che si presume fornito di un livello di conoscenza, anche tecnica, superiore alla media, tale che possa metterlo al riparo da possibili errori di associazione e confusione tra segni e denominazioni. In dottrina (MAYR), c’e’ chi ha osservato che l’utilizzatore di Internet si dovrebbe differenziare ulteriormente dal consumatore tradizionale in quanto mentre quest’ultimo percepirebbe il marchio in modo del tutto passivo, la’ ove altri lo hanno collocato, l’”internauta” svolgerebbe invece un ruolo attivo essendo costretto a digitare personalmente i domain names.
Cio’, tuttavia, non e’ del tutto corrispondente a verita’: e’, infatti, sempre piu’ frequente che la ricerca di un sito su Internet venga affidato ai cosiddetti “motori di ricerca” che, tramite un particolare software, sono in grado di fornire una lista con l’elenco dei siti che hanno un determinato riferimento con la richiesta fornita dall’utente ed all’interno di quella lista, potrebbe celarsi un rischio di confusione in ordine alla titolarita’ del sito ed alla provenienza dei prodotti o servizi forniti.
In ogni caso, per molti e’ da ritenersi attendibile la sopra riportata constatazione circa la maggiore avvedutezza dell’utilizzatore di Internet, per cui su questo fattore ci si dovrebbe basare per affermare che lievi differenziazioni tra nomi a dominio (di cui uno sia anche marchio registrato) debbano essere considerate sufficienti per escludere ipotesi di confondibilita’ ai sensi della normativa sui segni distintivi.
Va da se’, comunque, che se i due soggetti che utilizzano un nome a dominio pressoche’ uguale svolgano una attivita’ economica finalizzata alla produzione ed allo scambio di beni o servizi nello stesso settore o in settori affini, troverebbe applicazione la normativa sulla concorrenza sleale, che mira ad evitare possibili fattispecie confusorie.
Questo aspetto critico e’ sicuramente degno di rilevanza in quanto anche l’entrata in vigore del nuovo Codice dei diritti di proprieta’ industriale non risolvera’ il problema legato all’individuazione dei requisiti necessari per ritenere sussistente una confusione tra segni distintivi, specialmente quando non ricorrono fattispecie di concorrenza sleale.
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