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Ancora critiche alla sentenza del Tribunale di Bolzano sulla detenzione di software senza licenza

26 Aprile 2005 Commenta

I commenti di Gerardo Costabile e Gerardo Cavaliere affrontano la sentenza del Tribunale di Bolzano in merito alla detenzione di software non licenziato.


Software senza licenza in azienda: il tribunale di Bolzano sconfessa la Cassazione?


G. COSTABILE – Come spesso accade in questi casi, quando qualche illustre commentatore non affronta con la dovuta serenita’ da giurista argomenti discussi e discutibili, come quelli sul diritto d’autore, ritroviamo sommate, alle affermazioni di una sentenza come quella di Bolzano sui software illeciti in azienda, cose che riguardano poco i fatti ed il diritto ed invece molto una particolare forma di attacco, nascosto dai soliti condizionali, sui metodi asseritamente illegittimi.
Poi, rileggendo con cura gli articoli e piu’ in generale assistendo all’esercizio dello “ius postulandi” nelle aule di tribunale, gli stessi giuristi appaiono reiterare tali atteggiamenti, quasi mai accompagnati dalle norme che giustificherebbero le asserzioni di illegittimita’.

Che la legge sia opinabile in quanto, in alcuni passaggi, eccessivamente “penalistica” non vi e’ dubbio, specialmente per l’uso personale del software. Uno dei problemi principali e’ che si tratta di una delle materie che hanno visto penalizzazioni e depenalizzazioni nel tempo con forse troppa semplicita’.

Sono infatti condivisibili le affermazioni di chi contesta l’eccessiva sanzione penale ai danni di un cittadino per il solo fatto di detenere copie di programmi per elaboratore senza licenza, equiparandolo a chi, di questa attivita’, ne fa commercio ai fini illeciti oppure, piu’ semplicemente, risparmia sui costi per la propria attivita’ imprenditoriale.

Ma l’ormai famosa sentenza di Bolzano (n. 145/05 del 31 marzo 2005) ha dichiarato non luogo a procedere, perche’ il fatto non costituisce reato, in ordine al comportamento di un Architetto il quale utilizzava alcuni software -secondo l’accusa- non originali, a scopo imprenditoriale e per trarne profitto.

Non mi dilungo sulla prova dell’effettiva non titolarita’ della licenza sul diritto d’autore e quindi sulla dimostrazione della provenienza illecita del software, in quanto appare paradossalmente condivisibile, in molti passaggi, quanto affermato in seno alla stessa sentenza di Bolzano.

Il passaggio piu’ “forte”, invece, appare a mio modesto avviso quello relativo alla definizione di “scopo imprenditoriale”.

L’imprenditore, come definito dall’art. 2082 del codice civile, e’ colui che esercita professionalmente una attivita’ economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi. Non e’imprenditore il professionista o, per usare il linguaggio del legislatore, il “prestatore d’opera intellettuale” (artt. 2229 e ss. del codice civile), come il medico, il commercialista, l’avvocato, etc. Puo’ darsi, pero’, che l’esercizio della professione costituisca elemento di una attivita’ economica organizzata, come ad esempio un medico che dirige una clinica o uno studio legale con un dominus ed alcuni collaboratori. In questi casi, invece, si potranno qualificare i soggetti come imprenditori, con tutte le conseguenze civilistiche che ne derivano.   

L’art. 171 bis della legge sul diritto d’autore non chiama in causa esplicitamente il professionista, mentre indica un piu’ generico “scopo imprenditoriale”, al cui soggetto attivo poter ascrivere le fattispecie penale ivi indicate.

Il Giudice di Bolzano, in questa sentenza, ha perso invece l’occasione per far rilevare quanto affermato da qualcuno sulla non riconducibilita’ delle fattispecie previste e sanzionate dalla legge sul diritto d’autore per quanto concerne i professionisti. Infatti, il GIP Dott.ssa Burei non sembra aver indicato alcuna distinzione tra “imprenditore” e “professionista”, che sarebbe stata probabilmente piu’ condivisibile. La sentenza, si contro, ha posto l’accento sullo “scopo imprenditoriale” specificando che “non appare corretta l’interpretazione secondo cui basta che un  programma sia in uso presso un professionista o una ditta per realizzare il
richiesto “scopo imprenditoriale”.
Questa interpretazione e’ senza dubbio superficiale perche’ lo scopo imprenditoriale non e’ costituto dall’uso del programma da parte di un imprenditore”, ma sarebbe tale “l’attivita’ di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore”

La pronuncia di Bolzano, quindi, sembra confondere l’attivita’ imprenditoriale in senso lato con le attivita’ connesse al “commercio” delle opere di ingegno, dichiarandosi di fatto in controtendenza rispetto alla Suprema Corte di Cassazione la quale, con la Sentenza 28 giugno – 19 settembre 2001 n  2408  (33896), si e’ soffermata proprio sulla definizione de qua.

I giudici di Cassazione, con riferimento al 1° comma dell’art. 171 bis della legge 22.4.1941, n. 633, avevano prima posto l’accento sul concetto di “detenzione a scopo commerciale”, per poi commentare la modifica intervenuta con la legge 18.8.2000, n. 248, la quale aveva aggiunto la parola “imprenditoriale”.

Secondo la Suprema Corte, quindi, gia’ il solo “scopo commerciale” sarebbe riconducibile all’imprenditore che utilizza il software senza licenza, in quanto le direttive comunitarie riportavano testualmente la frase “possession for commercial purposes”.  Il sostantivo “purpose”, secondo i giudici di legittimita’, “viene generalmente tradotto nella nostra lingua come “scopo, fine, intenzione, risultato, effetto, funzione” e la traduzione italiana della direttiva comunitaria riporta il lemma in oggetto con l’espressione “detenzione per scopo commerciale””

Come gia’ anticipato, intanto, l’art. 171 bis veniva modificato dall’art. 13 della legge 18.8.2000, n. 248, sia (tra l’atro) con riguardo ad una pena piu’ grave che per la sostituzione della nozione di “detenzione per scopo commerciale” con quella di “detenzione per scopo commerciale o imprenditoriale”.

Secondo la citata Sentenza di Cassazione, quindi, tale innovazione non ampliava la sfera della tutela penale, ma consentiva soltanto un “corretto recepimento della direttiva comunitaria, rivolta ad evitare le questioni di ermeneutica gia’ evidenziate. Il legislatore nazionale, in sostanza, non ha inteso sanzionare ulteriori condotte, ma ha soltanto chiarito la delimitazione dell’ambito della tutela gia’ apprestata dal D.Lgs. n. 518 del 1992.”
La sentenza di Bolzano, quindi, oltre che dichiararsi implicitamente in disaccordo con la Corte di Cassazione, ha interpretato la norma in maniera a mio avviso discutibile, sottovalutando l’evoluzione normativa, anche nell’alveo di una piu’ ampia “economia del diritto d’autore”.  I software, infatti, sono dei costi a fecondita’ ripetuta per molte aziende e molti professionisti e, proprio a causa del loro valore “importante”, riescono addirittura ad influenzare, quando si fa ad esempio la scelta di un software non originale, l’intera economia aziendale e la propria quota di mercato, figlia spesso di prezzi piu’ concorrenziali che non si possono attuare quando i costi sono maggiori.

Non stiamo parlando di privati, di studenti, di casalinghe, ma di professionisti ed aziende che producono reddito e si fanno pagare –giustamente- per i loro servigi a fronte di costi piu’ bassi – in tal caso illeciti -, senza affrontare il fenomeno sotto il profilo della concorrenza sleale, certamente da non sottovalutare.

Gerardo Costabile – Iacis Member


Detenzione Di Software Non Licenziato. Non E’ Reato


G.A. CAVALIERE – Numerosi sono gli spunti che emergono dalla sentenza del Tribunale di Bolzano (n. 145 del 31 marzo 2005) in materia di detenzione di software non licenziato. Cio’ che pero’ e’ degno di grande attenzione (e che rappresenta la svolta nell’orientamento giurisprudenziale attuale) riguarda la nuova interpretazione dell’art. 171-bis della legge sul diritto d’autore.


Il fatto


Con sentenza n. 145 del 31 marzo 2005, il GIP del Tribunale di Bolzano, Dott.ssa Burei, ha dichiarato non luogo a procedere (perche’ il fatto non costituisce reato) nei confronti di un imputato del reato di detenzione abusiva di programmi per elaboratore senza le relative licenze d’uso.

La Guardia di Finanza ha svolto un controllo di routine presso la ditta di cui l’imputato e’ titolare e nei computer di essa ha trovato numerosi programmi (software) in cui mancava il numero di registrazione, o che non erano sul supporto originale, o che erano privi di manuali, o che, pur essendo muniti della prova di acquisto dal produttore, erano installati su piu’ computer di quanti previsti dal contratto.

Ha di conseguenza contestato al titolare della ditta il reato di cui all’art. 171-bis, comma 1, l. 633/41 (l.a.), che punisce «Chiunque abusivamente duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Societa’ italiana degli autori ed editori», ritenendo che gli accertamenti svolti costituissero prova sufficiente di una acquisizione di un uso illecito del software.


La motivazione


Il GIP afferma in maniera chiara e semplice i motivi per cui quelle rilevazioni svolte dalla Guardia di Finanza non sono esaustive per la configurazione del reato in oggetto. «In realta’ cio’ che e’ stato accertato», precisa la sentenza, «non prova affatto che l’imputato abbia detenuto programmi duplicati o programmi duplicati illegalmente o che abbia agito con il dolo richiesto ne’ che abbia agito a scopo imprenditoriale».

Dunque tutto si fonda su una assoluta mancanza di prove che possano condurre inequivocabilmente alla colpevolezza dell’imputato.
La motivazione appena citata, seppur scarna ed essenziale, contiene due importanti principi che vanno analizzati distintamente.


Il commento


Per quanto riguarda lo scopo imprenditoriale, il Giudice non puo’ non sottolineare che questo deve essere individuato volta per volta. Non basta che, come nel caso di specie, l’imputato svolgesse attivita’ imprenditoriale (professione di architetto) per configurare il suddetto scopo.
E’ necessario valutare tutti gli elementi di fatto che possano indirizzare il Giudicante a definire l’attivita’ in esame come attivita’ di detenzione a scopo imprenditoriale. Seguendo una logica diversa, infatti, si arriverebbe alla irragionevole conclusione che solo le attivita’ poste in essere da imprenditori o liberi professionisti in genere determinano l’incriminazione ai sensi dell’art. 171-bis l.a.

Ma se queste premesse sono esatte, il GIP giunge a una conclusione del tutto contraria, non ritenendo quella detenzione fatta con finalita’ imprenditoriali.
Quale motivazione a questa scelta, il Giudice cita la norma di cui all’art. 171-ter, comma 2, che si occupa della condotta di chi commette il fatto «esercitando in forma imprenditoriale attivita’ di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore».
Orbene, la disposizione appena enunciata riguarda una fattispecie diversa da quella in esame. L’art. 171-ter, comma 2, punisce con una pena molto pesante quei soggetti che svolgono attivita’ di duplicazione «in forma imprenditoriale», ovvero coloro che mettono su centri di duplicazione abusiva di centinaia, se non migliaia, di supporti.
Dunque, l’art. 171-ter non fa alcun riferimento allo «scopo» commerciale o imprenditoriale e pertanto non ne da’ alcuna definizione.

Cio’ che invece vuole significare l’art. 171-bis e’ che e’ opportuno valutare volta per volta se la detenzione, la distribuzione, ecc. e’ svolta «non» per uso personale e del tutto privato. Nel caso di un libero professionista che utilizzi in maniera illegale software finalizzato alla propria attivita’ professionale, sembra difficile non rinvenire la finalita’ richiesta dall’appena citato articolo di legge.

Degno di maggiore interesse, poi, e’ il secondo aspetto della motivazione del GIP. Le prove non hanno raggiunto il livello di univocita’ e di consistenza tali da far giungere l’interprete ad affermare: 1) che sia stato proprio l’imputato a duplicare i programmi; 2) che i software non siano copie di back up legittime; 3) che l’imputato abbia agito con il dolo richiesto dalla norma.

Sub 1). Il semplice ritrovamento di software duplicato non puo’ far saltare immediatamente alla conclusione che sia stato l’imputato a duplicare i programmi. Occorre avere delle prove piu’ specifiche che possano «incastrare» l’imputato come l’autore delle duplicazioni abusive. Ma per fare cio’ occorrerebbe una indagine lunga e ben accurata che possa condurre all’acquisizione di prove inequivocabili sul punto. Cosa che nel caso di specie non e’ stata fatta, ma che sarebbe comunque impossibile da richiedere alle autorita’ inquirenti.

Sub 2). La possibilita’ di creare copie di back up dei programmi acquistati e’ l’unica concreta attivita’ che l’utente puo’ compiere senza dover chiedere il previo consenso del titolare (cio’ e’ previsto dall’art. 64-ter, comma 2, l.a.). Sono, infatti, davvero numerosi i diritti che spettano all’autore di un software: vi rientrano tutte le riproduzioni non solo permanenti, ma anche temporanee del programma (ai sensi dell’art. 64-bis, l.a.).

E’ possibile anche «ottenere le informazioni necessarie per conseguire l’interoperabilita’ con altri programmi di un programma per elaboratore creato autonomamente» (il c. d. reverse engineering), ma questa circostanza e’ condizionata dai rigorosi requisiti previsti nell’articolo 64-quater, comma 2, l.a.

Sub 3). Questo ultimo punto e’ quello che suscita maggiori interrogativi nell’interprete e cio’ per una serie di motivi che possono essere spiegati solo dopo una breve disamina dei cambiamenti che l’art. 171-bis l.a. ha subito nel tempo.

Nella originaria formulazione dell’articolo in esame (introdotto dal d.lgs. del 29 dicembre 1992, n. 598, che ha novellato la l.a.) la norma statuiva che «Chiunque abusivamente duplica, a scopo di lucro, programmi per elaboratore…». Dunque si trattava di un reato a dopo specifico, poiche’ bisognava avere la prova che l’autore del fatto l’avesse commesso con quello scopo specifico.

La giurisprudenza che si e’ pronunciata sul punto ha dato due interpretazioni della terminologia «scopo di lucro» utilizzata dal Legislatore. Secondo un orientamento il lucro sarebbe stato rappresentato dall’accrescimento positivo del patrimonio a differenza del profitto, piu’ ampio concetto, che avrebbe incluso tanto l’accrescimento diretto del patrimonio quanto quello indiretto, verificatosi attraverso una mancata perdita patrimoniale (Pretura Cagliari, 26/11/1996); secondo l’altra interpretazione, invece, il fine di lucro avrebbe compreso anche il profitto derivante dai costi (Tribunale di Torino, 20/04/2000).

Queste interpretazioni possono ritenersi ampiamente superate alla luce delle recenti modifiche apportate alla l.a. attraverso la legge 248/2000, che rende penalmente sanzionabile la duplicazione di software quando viene duplicato, venduto, ecc. con conseguente «profitto» da parte dell’autore. Dunque, mentre prima della novella del 2000, la norma richiedeva il dolo di lucro, e pertanto il semplice risparmio di spesa non costituiva reato, oggi la duplicazione di software, se posta in essere con il fine di risparmiare il prezzo da sborsare per l’acquisto del prodotto originale, integra gli estremi dell’illecito penale (SIROTTI GAUDENZI). Questa interpretazione e’ stata finora condivisa anche dalla dottrina, che ha notato questo inasprimento delle sanzioni da parte del Legislatore sempre piu’ pressato dalle spinte delle lobby dei produttori di software.

Ci si rassegnava insomma a prendere atto dell’avvenuto mutamento della fattispecie in esame da reato a dolo specifico in reato al limite della responsabilita’ oggettiva, in base al quale, cioe’, non puo’ non prendersi in esame la colpevolezza di un soggetto se la duplicazione gli ha comportato un risparmio di denaro e, in generale, un qualunque profitto.

Ma finora non si era mai tentato un ridimensionamento della fattispecie come la sentenza 145/2005 ha fatto. Ritenere di dover ancorare a una prova incontrovertibile il dolo richiesto dalla norma sembra ridare spazio a una nuova interpretazione dell’art. 171-bis, ma soprattutto sembra ridare speranza a tutti coloro che detengono programmi in maniera abusiva senza che ne abbiano tratto profitto alcuno.

Da tutte queste considerazioni non puo’ che concludersi nel senso di spostare l’attenzione sul piano delle prove e della attivita’ investigativa, piuttosto che gravare l’imputato di attivita’ difensive al limite dell’impossibile. Dovranno essere gli elementi di accusa a fornire al Giudice un valido sostegno su cui fondare la condanna, lasciando comunque lo spazio alla difesa per portare in giudizio gli elementi contrari.

Di certo, dunque, questa sentenza apre diversi spiragli di luce e si puo’ gia’ parlare di mutamento dell’orientamento giurisprudenziale. Si consideri, infatti, che le altre scarse pronunce sull’art. 171-bis l.a. hanno sempre manifestato estrema rigidita’ interpretativa della norma in esame. Si ricorda la sentenza Corte di Cassazione n. 15509 del 24 aprile 2002 , secondo cui la condotta di chi duplica abusivamente «anche solo alcune stringhe di un codice sorgente di un programma per elaboratore» rientra all’interno della fattispecie di reato di cui all’art. 171-bis della legge 633/41.

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