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Hacker – OpenSource e Ciber-Antropologia

25 Maggio 2005 Commenta

Quando ho immaginato il titolo per queste mie riflessioni, ho voluto racchiudere quello che e’ il pensiero filosofico ed etico legato ai personaggi che “popolano” questo mondo nei tre termini: Hacker – Open Source e Ciber-Antropologia.

L’Hacker come la persona fisica che agisce in questo mondo. L’Open Source rappresentativo del suo pensiero e la ciber-antropologia come la manifestazione tangibile del suo operato.
Dovete idealizzare questi tre termini, pero’, non come concetti tra loro a se’ stanti, ma come tre cerchi legati e collegati tra loro in una confluente osmosi.
Sicuramente, se avessi la possibilita’ di effettuare un piccolo sondaggio in tempo reale, la maggior parte di voi saprebbe dirmi esattamente chi e’ un hacker. Sentiamo costantemente parlare di violazioni di sistemi informatici, di danneggiamenti, di truffe telematiche, ed i giornali e le televisioni non perdono mai l’occasione di legare questa figura a quella della cosiddetta “nuova criminalita’”.
Bene, se questa e’ l’idea che avete degli hacker, mi dispiace dovermi deludere: non conoscete effettivamente chi essi siano e cadete nell’errore, peraltro davvero comune, di confonderli con i cracker, ovvero con coloro i quali materialmente utilizzano strumenti informatici per commettere dei crimini.
Il primo obiettivo da porsi, allora, e’ proprio quello di riassegnare a questi soggetti il loro reale peso tecnico e sociale, strappando via questa idea “spettacolarizzata” del fenomeno, che spesso produce piu’ vittime del fenomeno stesso.
Il punto di partenza della nostra indagine sara’ allora il “Jargon File”, ovvero il file di gergo degli hacker, da loro compilato in maniera aperta e collettiva, che li definisce come persone “che programmano con entusiasmo; che ritengono che la condivisione delle informazioni sia un bene di ineguagliabile efficacia, e che sia un dovere etico condividere e facilitare l’accesso a queste informazioni ed alle risorse di calcolo”. Questo, infatti, e’ il reale fondamento dell’etica hacker sin dai primi anni sessanta quando, l’elite dei programmatori del MIT (il Massachusetts Institute of Technology), cominciarono ad utilizzare questo termine per distinguersi dagli altri programmatori.
Il sistema operativo GNU/Linux, la Rete Internet e persino il personal computer come oggi noi lo conosciamo, sono state tutte creazioni geniali di alcuni appassionati che, privatamente, hanno dato forma reale e tangibile alle loro idee e alle loro esigenze. Ma c’e’ di piu’. Sempre il Jargon File precisa che un hacker e’ sostanzialmente “un esperto entusiasta di qualsiasi forma di conoscenza”. Ipoteticamente, quindi, una persona potrebbe anche essere definita un hacker senza aver nemmeno mai acceso un computer!
Nel prosieguo di queste mie riflessioni, allora, leggerete spesso la parola hacker e vorrei che intendeste questo termine nella sua accezione reale; distinguendo l’hacker, ovvero il ricercatore, l’appassionato, l’instancabile curioso, dal cracker ovvero, come innanzi detto, da colui che utilizza le sue competenze tecniche per commettere illeciti informatici.
Fatte le dovute precisazioni, cerchiamo di approfondire adesso su quali concetti si basa l’etica degli hacker.

Raramente, ad essere sinceri, si sente parlare in maniera critica e soddisfacente di questo argomento, cosi’ inflazionato ed al contempo cosi’ carico di significato.
La nostra ricerca si puo’ basare principalmente su tre prospettive, manifestazioni consequenziali di quei tre cerchi ideali di cui parlavo all’inizio. Analizzeremo allora l’approccio che un hacker ha con il suo lavoro, il rapporto con il denaro ed il rapporto con l’informazione e la conoscenza.

L’approccio verso il lavoro


“Per realizzare appieno la filosofia Unix, si deve perseguire l’eccellenza”, queste sono le parole di Eric Raymond, il maggiore teorizzatore del pensiero filosofico legato al mondo dell’Open Source. Ed e’ proprio questa insaziabile ed appassionata ricerca, questa curiosita’ verso tutto cio’ che non si conosce, ad essere il motore che spinge gli hacker e che porta le loro menti a protendersi verso quella conoscenza, verso quella eccellenza sintetizzata nella frase di Raymond.
Una eccellenza che risultera’, naturalmente, irraggiungibile!
Ancora Raymond, nel suo scritto “How to become an hacker”, ammette che “essere un hacker significa divertirsi molto, ma e’ un divertimento che implica notevoli sforzi”. Sembra quasi di trovarsi di fronte al mito greco dell’avido Sisifo (in questo caso avido di conoscenza!!), utilizzato anche da Dante nella Divina Commedia, condannato nel Tartaro a spingere all’infinito e con sforzi immani un masso in cima ad una collina, dalla quale rotola sempre giu’ a valle.
Ecco allora svelata la prima motivazione che porta un hacker a questo studio “matto e disperatissimo”, tanto per rimanere in tema di citazioni letterarie.
Ma spero che non vi sia sfuggita anche la parola “divertimento”, centrale per comprendere appieno il ragionamento che stiamo conducendo. E’ indubbio, infatti, che la programmazione susciti nell’hacker un interesse intrinseco. Mi spiego meglio: per un hacker e’ il computer in se’ ad essere di intrattenimento; non un videogioco, non le animazioni dei siti web. Il computer per l’hacker, insomma, dall’essere mezzo attraverso il quale arrivare al diletto, si trasforma nel diletto stesso.
Ed e’ questa la seconda motivazione!

Quando dodici anni fa, nell’agosto del 1991, Linus Torvalds, il padre di Linux, pubblico’ un annuncio sul newsgroup comp.os.minix comunicando di stare sviluppando un sistema operativo Libero, apostrofo’ questo messaggio con la frase “just a hobby” – e’ solo per diletto! Steve Wozniak, colui che ha costruito il primo personal computer, piu’ volte ha ammesso che molte delle funzioni dei primi computer Apple erano state create per provare un giochino di nome “Breakout” da mostrare agli amici del suo club!
Attraverso lo spirito etico degli hacker, si potrebbe quindi stravolgere completamente il classico modo di vedere il lavoro. Si passerebbe dall’equazione attuale, tendente ad ottenere il salario abituale con il minimo sforzo, ad una visione del lavoro come fine a se’ stesso, come diletto, come vocazione attitudinale e come realizzazione della propria passione. Soltanto cosi’, scrive ancora Raymond, “il duro lavoro e la costanza diventeranno una sorta di gioco intenso, invece di un lavoro gravoso”.
Questo, a dire il vero, implicherebbe la necessita’ di prendere in considerazione anche un aspetto di non poco conto nella vita di un hacker. Parlo dello strano rapporto che questo soggetto ha con il tempo. I canonici orari di ufficio, storicamente, non sono mai “andati a genio” a questa categoria di soggetti. Gli hacker, come si puo’ immaginare, prediligono un ritmo di vita basato sulla propria individualita’, in una sfera in cui il tempo appartiene solo al programmatore e a nessun altro.

La scorsa estate ho letto un libro molto interessante di Pekka Himanen, forse uno dei pochi sull’argomento che valga davvero la pena leggere, intitolato appunto “L’etica hacker e lo spirito dell’eta’ dell’informazione”. Di questo testo mi ha molto affascinato un paragone, incentrato proprio su questo argomento, in cui si evidenziava come la scelta di gestire in maniera cosi’ libera ed autorganizzata il proprio tempo (oggi si direbbe in maniera “flessibile”), affondi storicamente le proprie radici nei tempi in cui visse Platone. Questo filosofo “definiva la relazione accademica nei confronti del tempo, affermando che una persona libera ha shkole’, ovvero moltissimo tempo […] ed il tempo le appartiene”. L’uomo libero di Platone, quindi, poteva combinare a suo piacimento il tempo lavorativo con quello dedicato allo svago, ed il non avere questa “liberta’” era sinonimo di schiavitu’ o di prigionia.
A naso si capisce subito di trovarsi di fronte ad un’etica del lavoro molto simile a quella rappresentativa del pensiero degli hacker, anch’essa basata sulla effettiva produttivita’ del soggetto e non, come ancora oggi avviene, sulle ore che il soggetto passa nel luogo di lavoro. Solo cosi’ infatti, la creativita’ individuale, che e’ alla base dell’economia dell’informazione, puo’ essere espressa liberamente e nei modi piu’ adatti al soggetto, senza condizionamenti esterni o orari “di erogazione” (della creativita’) prestabiliti.


Il rapporto con il denaro


Ma a questo punto e’ lecito farsi una domanda. Perche’ gli hacker sviluppano software da rilasciare liberamente (e gratuitamente) in Rete? E, conseguentemente, qual e’ il loro rapporto con il denaro?

In un’epoca come quella in cui viviamo, basata sul principio economico della massimizzazione dei profitti, suona certamente strana l’ideologia hacker dello sviluppo di progetti anche mastodontici, come lo e’ sicuramente il sistema operativo GNU/Linux, in cui il denaro non riveste il ruolo di fattore propulsivo del lavoro, anzi lo stesso viene distribuito in Rete, nella maggior parte dei casi, in maniera del tutto gratuita. Ci troviamo, allora, non soltanto di fronte ad un capovolgimento degli schemi legati al lavoro, ma anche a quelli legati al denaro. E, ancora una volta, la passione e’ il motore di questa rivoluzione, laddove le motivazioni sociali rivestono il ruolo di ipotetiche ruote di questo movimento e la GPL, la licenza con cui viene rilasciato il software libero, ne e’ il carburante.
Ancora una volta Eric Raymond ci viene in aiuto, svelandoci, in un suo scritto del 1998 “Homesteading the Noosphere”, che gli hacker sono motivati da una sorta di “riconoscimento tra pari”.
Condividere infatti una stessa passione con altre persone ed essere riconosciuto come un esperto di determinati temi e’ la leva psicologica che solleva e sostiene il mondo di un hacker. Ecco cosa c’e’ di piu’ soddisfacente del denaro!
Per hacker come Linus Torvalds non sono ne’ il lavoro e ne’ il denaro a motivare l’organizzazione dello sviluppo del kernel di Linux (immaginate il kernel come il cuore pulsante di ogni sistema operativo, su cui si “appoggiano” tutti gli altri programmi), ma sono la passione ed il desiderio di creare qualcosa di socialmente utile ed apprezzato.. e di esserne riconosciuto come il creatore nella comunita’ di tecnici. Pekka Himanen, nel suo libro, sottolinea come “e’ proprio questo legame tra il livello sociale e quello passionale che rende cosi’ efficace il modello degli hacker, che realizzano qualcosa di molto importante a partire da profonde motivazioni sociali. In questo senso gli hacker contraddicono lo stereotipo di asocialita’ che e’ stato spesso loro affibbiato”.

Cio’ detto, pero’, non si deve fare l’errore di credere che gli hacker siano dei semplicioni, rinchiusi in una utopica visione della societa’ e del denaro. Per fortuna non si tratta di persone ingenue! E’ pacifica in loro la consapevolezza che, soltanto attraverso ingenti capitali, un hacker puo’ raggiungere quella completa liberta’ mentale e fisica necessaria a far vivere la propria curiosita’ e la propria creativita’.
Steve Wozniak, di cui accennavamo prima, ne e’ un esempio. Creatore dei primi personal computer, gli Apple, ando’ via dalla societa’ soltanto sei anni dopo la sua costituzione, forte di una tranquillita’ economica che tuttora gli permette di vivere, come egli stessi dice, “con le cose che amo di piu’: ovvero i computer, le scuole e i bambini”.
Quello che vorrei fosse chiaro e’ che non e’ eticamente deplorevole per un hacker accumulare ricchezza attraverso le regole del capitalismo tradizionalmente conosciuto. Ed infatti, molti dei business piu’ riusciti nel campo della tecnologia, sono stai realizzati proprio dagli hacker.

Qualche esempio?! SUN Microsystems, fondata nel 1982 da quattro studenti universitari particolarmente creativi e legati dalla semplice passione per la programmazione.
Ancora, la Micorsoft di Bill Gates (non so se la conoscete!!), cofondata nel 1975 con l’amico Paul Allen, con il semplice obiettivo di creare per passione linguaggi di programmazione per personal computer. “Era un punto di vista hacker – sottolinea Ceruzzi nel suo scritto “A History of Modern Computing” – dal momento che solo gli hacker usavano queste macchine per programmare”.
Pensate un po’, c’era un tempo in cui il cosiddetto ‘nemico numero uno degli hacker’ di tutto il mondo, Bill Gates appunto, era lui stesso un hacker, come lo sarebbero stati Torvalds e tanti altri prima e dopo di lui, in conseguenza della realizzazione di un interprete del linguaggio BASIC molto apprezzato dalla comunita’ hacker.
Purtroppo pero’ l’idiosincrasia dei termini ‘hacker’ e ‘capitalismo’, tende nel lungo periodo a risolversi con la predominanza della motivazione del profitto sulla passione. Ed e’ cosi’ che, quando la passione non e’ piu’ il metro di scelta dei propri progetti, questi vengono inevitabilmente scelti a seconda del miglior guadagno ipotizzato e non vengono piu’ dettati dalle proprie esigenze creative o dalle esigenze sentite dalla comunita’. L’inevitabile punto di arrivo e’ quello della produzione di codice e, piu’ in generale, di prodotti software scadenti.


Il rapporto con l’informazione e la conoscenza


Siamo adesso pronti ad affrontare quello che e’ il punto di forza e di svolta nel pensiero degli hacker. Solo adesso abbiamo quelle fondamenta filosofiche ed antropologiche adatte ad analizzare l’atteggiamento che questi soggetti hanno verso l’informazione e la condivisione della conoscenza.

Richard Stallman, il padre spirituale del pensiero libero, da sempre combatte per dare alla parola free il giusto significato. Questo termine, infatti, non si sostanzia nell’immediatezza della parola italiana gratuito, ma implica una liberta’ sensibilmente piu’ ampia.
Sinteticamente Stallman, parlando del software libero, racchiude questo ampio concetto nella frase: “libero come il pensiero, non gratis come una birra offerta da un amico”. Si nota subito come, a detta di Stallman e dei seguaci del Free Software, il software libero abbia come unico limite quello del pensiero e, ancora una volta, quello della creativita’ dell’hacker. E’ solo come conseguenza di questa quasi illimitata liberta’ che questo tipo di software risulta essere anche gratuito!

Nel suo saggio “The  Cathedral and the Bazaar”, Eric Raymond ha realizzato un ampio e puntuale raffronto tra il modello di sviluppo aperto del software per Linux e quello chiuso della maggior parte delle aziende, paragonandoli appunto ad una cattedrale e ad un bazar.
“Credevo che il software piu’ importante – dice Raymond, ricordando i suoi primi passi in questo mondo – dovesse essere realizzato come le cattedrali, attentamente lavorato a mano da singoli geni o piccole bande di maghi che lavoravano in splendido isolamento, senza che alcuna versione beta vedesse la luce prima del momento giusto” e ancora “la comunita’ Linux assomigliava a un grande e confusionario bazar, pullulante di progetti e approcci tra loro diversi. […] lavoravo sodo cercando di capire come mai il mondo Linux non soltanto non cadesse preda della confusione piu’ totale, ma al contrario andasse rafforzandosi a velocita’ quasi inimmaginabili per quanti costruivano cattedrali”.
Quello che sfuggiva a questa sua prima analisi del fenomeno era l’importanza della molteplicita’ dei punti di vista. Quando, infatti, le idee vengono ampiamente diffuse, possono sempre beneficiare e rafforzarsi col tecnicismo critico degli altri utenti, mentre, quando vengono gettate le basi per una cattedrale, questa non potra’ piu’ essere cambiata. Nel bazar, nel momento in cui qualcuno arriva alla soluzione di un problema, il destinatario di quella soluzione avra’ il diritto di sperimentarla, di apprezzarla e nel caso anche di correggerla liberamente. Cio’ e’ possibile, badate bene, solo se il ragionamento che ha portato a quella soluzione (nel nostro caso i sorgenti del software) viene trasferito con essa.
Questo e’ il software libero! E Pekka Himanen, nel suo ragionamento,  ancora una volta ci riporta ai tempi di Platone, riscontrando ancora una volta un collegamento storico con la synusi’a dell’Accademia platonica, “che comprendeva l’idea dell’avvicinamento alla verita’ attraverso il dialogo critico”. Nell’Accademia di Platone, infatti, gli studenti “non venivano considerati come obiettivi per la trasmissione della conoscenza, ma come compagni di apprendimento. Nella concezione accademica, il compito principale dell’insegnamento era quello di rafforzare l’abilita’ dei discepoli nel porre problemi, nello sviluppare linee di pensiero ed avanzare critiche”.
Cosi’, quando un hacker studia il codice sorgente di un programma, spesso tende a modificarlo o a svilupparlo ulteriormente; a loro volta, altre persone impareranno da questo suo lavoro e ricominceranno questo ciclo. Ancora, quando un hacker legge la documentazione divulgata in Rete, spesso aggiunge cio’ che e’ stata la sua esperienza con quel software. 
Cerca soluzioni e si pone continuamente altre domande, in una costante ricerca critica, evolutiva ed appassionata. Questo e’ un hacker! Questi sono gli ideali e l’etica che ci rappresentano. 

Concludendo, allora, il primo ringraziamento voglio farlo io.. e voglio farlo soprattutto a voi, che, investendo il vostro tempo nella lettura di questo testo, mi avete dato proprio quel riconoscimento cosi’ tanto agognato da ogni hacker.. ricompensando il mio lavoro con l’unica moneta che ha piu’ valore del denaro stesso.

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