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EDITORIAL: Il matrimonio tra cattolici e musulmani; Multiculturalismo e religione (aggiornamento)

6 Luglio 2002 Commenta

Il rapporto-dialogo tra musulmani e cittadini europei e, in specie, italiani-cattolici, puo’ essere inteso in un piu’ largo contesto, che attenga alla relazione dialettica tra multiculturalismo e religione. Di tanto si e’ fatto carico un recente numero monografico dei Quaderni di diritto e politica ecclesiastica.  Nell’ambito dei diversi studi, interventi e dibattiti si colgono puntuali riflessioni che inducono, tuttavia, ad una discutibile revisione dei singoli ordinamenti giuridici, attesi i conseguenziali risvolti di <arricchimento-perdita> di valori, propri e specifici di tradizioni storico-valoriali, attinenti alle singole comunita’ che insistono su un territorio.


Cosi’ Matteo Gianni, nelle sue <Riflessioni su multiculturalismo, democrazia e cittadinanza> rileva che “la questione religiosa assume un’importanza particolare quando si tratta di stabilire i diritti e i doveri dei membri di comunita’ religiose che non sono storicamente presenti sul territorio; il caso della comunita’ islamica e’ in questo senso emblematico”, atteso che “il processo di integrazione dei membri della comunita’ islamica e’ significativo perche’ va oltre la questione dei rapporti di potere fra Stato e chiese tradizionali”, giacche’ “le chiese cattoliche e protestanti sono generalmente considerate come degli interlocutori da parte dello Stato. In altri termini, essendo integrate nel sistema politico, le chiese hanno un potere di negoziazione e di influenza nei confronti dello Stato. Questo non e’ il caso della comunita’ islamica che, ad esempio, in Italia, benche’ sia la seconda religione in termini numerici, non e’ ancora riconosciuta come attore a pieno titolo da parte dello Stato. Il caso delle comunita’ islamiche non solleva solo la questione delle relazioni fra Stati laici e le comunita’ religiose; solleva, soprattutto…la questione dell’integrazione delle minoranze religiose nel tessuto sociale e politico di Stati che si sono costituiti sulla base di un universo simbolico fortemente ispirato da una tradizione religiosa diversa ( Bader, 1999). In altri termini, gli Stati liberali non sono neutrali nei confronti delle varie confessioni. Esistono delle istituzioni religiose che, per ragioni storiche e culturali, dispongono di canali politici formali e informali piu’ efficaci per poter difendere la propria concezione del bene in un dato contesto sociale. Come scrive giustamente Galeotti ( 1994, 120 ), <l’aspetto saliente del conflitto nelle questioni autentiche di tolleranza, e in generale nei problemi suscitati dal pluralismo, non riguarda l’inconciliabilita’ fra visioni del mondo, bensi’ l’accettazione o meno di quelle ‘diverse’ nella sfera pubblica, quando quelle ‘normali’ ne fanno gia’ parte>. Questo significa che non e’ tanto la questione della compatibilita’ dell’Islam con i valori e le pratiche democratiche che pone problemi, quanto quella dello spazio politico e culturale che le democrazie sono disposte a offrire a queste comunita’”.  Per M. Gianni, una possibile soluzione sarebbe rintracciabile nella cosidetta <cittadinanza differenziata>, “finalizzata alla promozione di forme piu’ effettive d’integrazione politica”, dal momento che “come tutti i modelli di cittadinanza differenziata, anche quest’ultimo si basa sull’idea che, oltre ai diritti individuali, l’individuo deve beneficiare di un surplus di diritti che gli sono attribuiti in funzione della sua appartenenza a una minoranza culturale..; grazie all’attribuzione di diritti collettivi, i membri di queste minoranze disporrebbero delle risorse politiche suscettibili di permettere, tramite l’azione politica, di cercare di modificare le cause della propria discriminazione”.


Riflettendo su “La geografia religiosa dell’Italia di fine secolo”, Enzo Pace, per suo conto, nota che “non tutti gli immigrati si identificano allo stesso modo nell’Islam: la gamma e’ molto ampia. Si va dall’islam mistico a quello politico-radicale, dal tradizionalismo alla riscoperta di un Islam spirituale che non disdegna di confrontarsi con la cultura europea, fino a forme di abbandono o di rifiuto della fede dei padri. Per cui, quando si dice che in Italia i musulmani sono circa 450.000 ( di cui 440.000 immigrati e circa 10.000 convertiti ), questa cifra va presa con beneficio d’inventario: occorre chiedersi quanti effettivamente si sentono pienamente tali e, di conseguenza, rispettano pienamente i precetti e le prescrizioni etico-religiose della Legge coranica.. La diversita’, inoltre, che caratterizza la presenza di persone socializzate alla fede di  Muhammad dipende anche dal fatto che la provenienza geografica degli immigrati in questione e’ anch’essa diversificata, molto di piu’ rispetto ad altri Paesi europei che hanno conosciuto prima di noi il fenomeno migratorio”. In effetti, “fra l’islam arabo, l’islam dell’Africa nera e l’islam asiatico persistono differenze di stili di vita e financo di credenze religiose notevoli, tali da scoraggiare qualsiasi tentativo di reductio ad unum dei comportamenti socio-religiosi di un tipo astratto di musulmano medio. Cio’ spiega, tra l’altro, come mai in quasi tutti i Paesi europei ( eccetto la Spagna e il Belgio ) sia molto difficile per i Governi individuare interlocutori sufficientemente rappresentativi delle diverse comunita’ musulmane presenti in un territorio nazionale…A complicare il quadro della presenza musulmana in Italia vanno aggiunti i convertiti italiani, o per libera scelta o attraverso i matrimoni misti, che impongono all’uomo che voglia sposare una donna di fede musulmana di convertirsi all’Islam per rendere valido il contratto matrimonaile davanti alla Legge coranica. In questo caso, l’islam degli italiani tende ad assumere caratteristiche proprie di una fede scelta e non ereditata, vista come un’alternativa alla religione di nascita ( cattolica ) e, dunque, con un valore aggiunto diverso a quanti, al contrario, professano la fede in Allah di generazione in generazione”.

Sul rapporto tra “Societa’ multiculturale e diritto italiano” si sofferma Letizia Mancini.  L’autrice osserva che “a prima vista, la necessita’ di elaborare una politica multiculturale nasce nel momento in cui vi e’ una richiesta <pubblica> di riconoscimento della identita’ culturale, da parte di singoli e piu’ spesso di gruppi. Queste richieste nascono evidentemente nel momento in cui all’individuo non viene riconosciuto il diritto di esprimere alcuni caratteri della propria cultura che nel Paese di provenienza trovavano un riconoscimento formale o anche solo sociale. Cultura e diritto, in questo senso, sono due ambiti spesso, anche se non sempre, collegati. L’immigrato marocchino che non vede accogliere in Italia la seconda moglie, non vede riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico tanto una norma – che esprime un diritto soggettivo – riconosciuta nel Paese di provenienza, quanto un aspetto della sua cultura. L’immigrato egiziano, sposato con una cittadina italiana, che viene condannato da un tribunale italiano perche’ ha sottoposto la propria figlia all’infibulazione, non trova nel nostro Paese il riconoscimento di una pratica che, pur non prevista dalle norme del diritto egiziano, e’ di fatto permessa e assai diffusa e ha una forte valenza in termini culturali. Il nostro ordinamento non solo non la prevede, ma evidentemente la condanna. Senza voler esprimere in questa sede considerazioni di merito sui due casi menzionati, essi ci fanno capire immediatamente la difficolta’ a livello giuridico, prima ancora che sociale, insita nella costruzione di una politica multiculturale. Parallelamente all’ambito giudiziario, le richieste <pubbliche> che sollecitano nel nostro Paese la necessita’ di una politica multicultrurale cominciano a intravedersi. Il riferimento puo’ essere fatto ancora una volta guardando alla popolazione musulmana immigrata in Italia, non tanto perche’ essa sia la piu’ significativa da un punto di vista quantitativo, ma per due ragioni di diversa natura. La prima si riferisce al fatto che alcuni diritti riconosciuti in molti ordinamenti giuridici dei Paesi musulmani non possono essere esercitati nel nostro Paese, o in altri casi trovano comunque numerosi ostacoli al loro esercizio, in quanto sconosciuti dal nostro ordinamento o contrari ai principi fondamentali o a norme specifiche del nostro diritto o anche solo difficilmente compatibili. E’ il caso della poligamia e del ripudio, nel diritto di famiglia, di alcune pratiche riconducibili alla fede religiosa, come il ramadan o la preghiera quotidiana, l’osservanza delle quali non e’ immediatamente compatibile con il nostro sistema lavorativo. Il secondo motivo e’ che, di fatto, le comunita’ musulmane cominciano ad avanzare richieste di riconoscimento di istituti e pratiche riconducibili alla cultura e alla cultura giuridica musulmana”; ovviamente, “quando si cominciano ad intravedere sollecitazioni pubbliche, che provengono individualmente o collettivamente, di riconoscimento di comportamenti culturali o di norme che alla propria cultura si richiamano, il diritto nazionale si trova a dover in qualche modo rispondere”, ma cio’ “pone il difficile problema, se il diritto debba intervenire soltanto nel momento in cui la questione dell’identita’ esce dal dominio della vita privata degli individui e diventa pubblica, riservando agli individui una sfera di liberta’ che e’ fondamento della cosiddetta <liberta’ negativa>, ovvero possa interferire nella vita privata. Se e’ vero che certi tratti culturali possono essere mantenuti nella sfera privata, certe pratiche messe in atto, ad esempio, in nome della propria fede religiosa o della propria concezione della famiglia, potrebbero legittimare la tutela e dunque l’intervento del diritto a favore dei soggetti piu’ vulnerabili”.  Di qui la proposta per la quale “la costruzione di una politica migratoria multiculturale credo debba passare innanzitutto attraverso il riconoscimento dei cosiddetti diritti di cittadinanza all’individuo. L’attribuzione di questi ultimi favorisce di per se’, pur non esaurendola, la possibilita’ di esprimere la propria cultura e promuovere l’integrazione dell’individuo, concetto che…non esprime l’appiattimento delle differenze, l’omologazione culturale, non si pone in contrasto con le espressioni e il riconoscimento delle differenze culturali, ma puo’ significare progressiva realizzazione personale dell’individuo nel tessuto sociale, anche nel rispetto della propria identita’. Tuttavia non sempre il riconoscimento dei diritti di liberta’ e di uguaglianza all’individuo e’ sufficiente a rendere effettivo il mantenimento dell’identita’ culturale. Si pone dunque la questione del riconoscimento di diritti culturali ai gruppi. Da un punto di vista strettamente giuridico, il diritto nazionale si e’ concentrato essenzialmente sulle minoranze interne, linguistiche e religiose, attraverso normative di tutela di specifici gruppi. A questo proposito il problema maggiore oggi e’ costituito dalle difficolta’ di concludere un’Intesa con la minoranza musulmana, per la commistione tra dimensione religiosa e normativa che ne caratterizza la cultura e per le difficolta’ di individuare un rappresentante isituzionale che rappresenti l’intera comunita’. Il richiamo all’art. 2 della Costituzione e’ ancora una volta decisivo. L’articolo infatti riconosce e garantisce i diritti inviolabili anche nelle formazioni sociali. Questo riferimento e’ da intendersi sia come configurazione di tutela dei diritti del singolo con diretto riferimento agli uomini in quanto membri di formazioni sociali, aspetto indispensabile per quei diritti che possono essere goduti solo in forma collettiva, ma anche come liberta’ o diritti dalle formazioni sociali, diritti cioe’ garantiti anche all’interno e nei confronti di tali formazioni. Il ricorso ai diritti collettivi per tutelare le differenze pone infatti il problema della protezione del singolo rispetto alle regole del gruppo di appartenenza e al tempo stesso garantirne il diritto di uscita. A maggior ragione questa garanzia non puo’ venir meno nel caso di quei soggetti che, caso per caso, si possono trovare in una condizione di debolezza. Spesso e’ il caso delle donne; lo e’ sempre nel caso dei minori, quando la scelta di appartenenza puo’ essere solo presunta, in base a quella dei genitori. In definitiva, se il diritto di mantenimento di certe espressioni della propria identita’ puo’ trovare effettivo godimento solo mediante il riconoscimento di diritti collettivi, deve essere al contempo garantito il diritto al dissenso, il diritto di uscita e l’accesso al diritto nazionale”.

Al problema che attiene l’ “Unita’ dell’ordinamento giuridico e pluralita’ religiosa nelle societa’ multiculturali” dedica le sue riflessioni Mario Ricca.  Per l’autore, “acquisire consapevolezza delle vicendevoli implicazioni tra diritto e cultura religiosa e’ precondizione indispensabile alla creazione di categorie giuridiche pluralisticamente efficienti e percio’ adeguate ad affrontare i dilemmi del multiculturalismo. Ma la connessa necessita’ di ridefinire le categorie tradizionali dell’esperienza giuridica occidentale e’ inclusiva anche della voce <religione> e del suo statuto normativo. La composizione multiculturale delle societa’ odierne e le metamorfosi della geografia giuridica intrinseche alla crisi della sovranita’ statale accoppiate all’incidenza sistematica e normogenetica delle modalita’ di tutela dei diritti, compreso ovviamente quello alla realizzazione degli interessi religiosi all’interno della sfera civile, inducono una dissociazione nelle assimilazioni idiomatiche del pensiero moderno tra religione/Chiesa Cattolica e diritto/ Stato e una relativizzazione tendente al dissolvimento di molte delle ragioni storiche della loro antitesi dialettica. La pluralita’ religiosa e culturale falsifica in un certo senso queste identificazioni metonimiche obbligando alla riconcettualizzazione giuridica della parola <religione> come nome comune e cioe’ sulla base della sua valenza antropologica e a prescindere dalle specifiche declinazioni confessionali. Uscire dalle secche di certo laicismo per molti versi anacronistico ed ormai di maniera si prospetta percio’ come una condicio per quam al fine di assicurare alla liberta’ religiosa una tutela pluralisticamente orientata all’integrazione delle diverse esperienze confessionali e soprattutto per rispondere adeguatamente attraverso la riconsiderazione delle piu’ generali implicazioni tra religione e dinamica del diritto alle istanze giuridiche e sociali innescate dalla trasformazione in senso multiculturale delle societa’ contemporanee. Il diritto ecclesiastico, e per chi scrive quello italiano in modo particolare, in concomitanza al fenomeno multiculturale trova quindi nuovi compiti e prospettive di sviluppo, che collocano la sua funzione teorica al centro dell’attuale fase di ( generale ) evoluzione del diritto. In questa prospettiva si delineano…due filoni di ricerca. Il primo, di tipo verticale/diacronico, da sviluppare nell’ambito di una riflessione sul diritto interno e diretto a ricostruire i nessi e le linee reciproche di influenza tra istituti del diritto civile e del diritto canonico, tra immaginario giuridico laico e dimensione religiosa della cultura autoctona. Il secondo, di tipo orizzontale/sincronico, diretto a cogliere le implicazioni esistenti tra i modelli di giuridificazione proposti da stranieri o comunque da cittadini portatori di istanze giuridiche riconducibili ad altri contesti culturali e le corrispondenti matrici religiose. Benche’, se calato in un quadro di indagine comparatistico, pure questo secondo aspetto dovrebbe necessariamente confluire in una ricerca di tipo verticale/diacronico di ispirazione e con finalita’ multiculturali. Se venisse accolta una simile impostazione, anche il pluralismo religioso in senso stretto, tra l’altro, potrebbe trovare nuovi e piu’ adeguati canali di valorizzazione e giuridificazione, che non sfocino esclusivamente nei soliti schemi di legislazione speciale e di supporto finanziario ad istanze che invece si candidano ( almeno idealmente ) a penetrare sempre piu’ profondamente nelle maglie dell’ordinamento e nelle sue scansioni categoriali di fondo e che richiedono quindi risposte concettualmente adeguate e culturalmente avvertite. Che anche in cio’ il multiculturalismo abbia una parte determinante e’ indubitabile. Basti pensare, ad esempio, ai problemi posti dal matrimonio islamico e dalle richieste di giuridificazione della poligamia. Comprendere se e quanto quel modello di matrimonio sia compatibile con alcuni assunti fondamentali della cultura giuridica italiana e occidentale in genere e’ operazione complessa, non ancora convenientemente intrapresa e che potrebbe svelare insospettate continuita’ tra le istanze solidaristiche intrinseche alla nostra cultura costituzionale e la cifra assiologica della poligamia. I percorsi di ricerca indicati ritengo che potrebbero offrire molti spunti di riflessione costruttivi sull’argomento e aiutare a risolvere cosi’ un problema che, al pari di molti consimili, negli anni a venire rappresentera’ forse uno dei nodi cruciali del dibattito sul rapporto tra multiculturalismo e diritto occidentale di tradizione giudaico-cristiana”.
Su “appartenenza confessionale e liberta’ individuali” si sofferma a riflettere Raffaele Botta.

Le osservazioni sono perimetrate entro un ambito giuridico-politico e ci sembrano per molti aspetti pienamente condivisibili. L’autore ritiene che “quello della cittadinanza e’ uno dei problemi piu’ ardui del presente, in ragione del realizzarsi anche in Italia del passaggio, come lo definisce Giuseppe De Rita, da un sistema-Paese ad un Paese-contenitore la cui identita’ reale e’ multietnica e multireligiosa, un Paese, quindi, inevitabilmente contraddittorio perche’, per usare la metafora di un grande poeta americano, <contiene moltitudini>. Si tratta di una situazione che trova origine nell’incremento dei movimenti migratori dai Paesi in via di sviluppo e da quelli dell’Est europeo postcomunista ai Paesi dell’Europa occidentale che hanno trasformato la tradizionale composizione monoculturale di queste societa’, avviandone un’incisiva e definitiva frammentazione in una costellazione di minoranze, le quali, pur pretendendo una integrazione sotto il profilo dei <diritti di cittadinanza>, restano gelose della propria specifica identita’ e riluttanti a qualsiasi processo di assimilazione sotto il profilo culturale. E’ con questa nuova realta’ che e’ aperto il confronto ed e’ con questo tipo di realta’ che bisognera’ fare i conti nel XXI secolo; dalla capacita’ con la quale si affrontera’ questa sfida – oltre a quella posta dall’ <ordine economico>, dalla <globalizzazione> e dalla <educazione dei cittadini> – dipendera’, secondo Robert Dahl, la natura e la qualita’ della democrazia nel nostro prossimo futuro”, e comunque, secondo R.Botta, “un corretto processo di integrazione reclama prima di tutto l’elaborazione di un concetto nuovo di cittadinanza, inclusivo delle <differenze>, l’accettazione delle quali – come efficacemente afferma una nota sentenza della Corte Suprema Canadese del 2 febbraio 1989- < e’ l’essenza della vera uguaglianza> “.La strada maestra in questa direzione sembrerebbe essere quella del riconoscimento di diritti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo, che servirebbe, appunto, ad accogliere queste differenze. Infatti, osserva ancora R.Botta, citando W.Kymlicka, < in una societa’ che riconosce i diritti differenziati secondo il gruppo di appartenenza, i membri di determinati gruppi sono integrati nella comunita’ politica non solo in quanto individui ma anche attraverso il loro gruppo, e i loro diritti dipendono, in parte, dall’appartenenza di gruppo>”. E’ da notare, tuttavia, che “i gruppi minoritari – in particolare quelli che sono definiti <minoranze tendenzialmente permanenti> e che sono tradizionalmente individuati nelle <minoranze di razza, di lingua e di religione> – manifestano tanto un’esigenza a <rinchiudersi> nel proprio ambito ( versante interno ), a gelosa difesa della propria specificita’ e sviluppando un progetto di <conservazione> dell’identita’ nei confronti di possibili contaminazioni esterne, quanto l’esigenza di <creare nuove strutture>, piu’ flessibili, attraverso le quali sia possibile rivalutare le proprie specificita’ e al tempo stesso aprirsi verso l’esterno, anche <oltre lo Stato>(versante esterno ), in una prospettiva che puo’ costituire una premessa per la collaborazione piuttosto che per la contrapposizione tra culture diverse. In entrambi i versanti e’ l’appartenenza confessionale ( piuttosto che l’appartenenza etnica o comunque quella ad un gruppo di immigrati ) a giocare un ruolo di rilievo, poiche’ sono soprattutto le diversita’ di pratiche religiose a costituire un ostacolo all’integrazione o ad alimentare situazioni di conflitto con la cultura dominante…Sul primo versante, quello esterno, va considerato soprattutto il riconoscimento di speciali esenzioni dal rispetto di leggi e regolamenti la cui osservanza potrebbe costituire una situazione di disagio per l’appartenente al gruppo religioso minoritario, in ragione del conflitto con le proprie regole di fede..; in questo ambito assumono particolare rilievo le norme concernenti il riposo sabbatico e l’osservanza di alcune festivita’ religiose o quelle che considerano una determinata appartenenza confessionale sufficiente ragione giustificatrice per l’esercizio dell’obiezione di coscienza o ancora quelle che riconoscono la sepoltura rituale. Ma e’ anche la prospettiva nella quale si muove una serie di disposizioni di carattere unilaterale statale, come quelle dirette a consentire, ad es., la macellazione rituale, il rispetto di regole alimentari religiose, l’utilizzo di particolari capi di abbigliamento, la disponibilita’ di edifici di culto o di specifici settori all’interno dei complessi cimiteriali”. Emblematici in tal senso  il D.L.vo 1 settembre 1998, n. 333, la L.R Basilicata 29 marzo 1991, la L.R. Toscana 10 giugno 1983. n. 36, la Circolare n. 4 del 14 marzo 1995 del Ministero dell’Interno, Direzione Generale dell’amministrazione civile, quest’ultima riguardante la possibilita’ di eseguire la foto da apporre sul documento di identita’, indosssando il turbante o il velo islamico. Secondo R.Botta, tuttavia, “potrebbe esserci un rischio nella tessitura di questa trama di <privilegi> ed <esenzioni> nelle quali si sostanzierebbe la <tutela positiva> reclamata dalle minoranze: quello di creare, attraverso la valorizzazione delle differenze radicate nelle diverse appartenenze, una pluralita’ di <leggi personali> che disciplinano la condizione dei soggetti in relazione alla loro appartenenza ad ordinamenti confessionali – quasi una sorta di revival del millet ottomano – mentre siffatta appartenenza non potrebbe <determinare, secondo Mirabelli, nell’ordinamento italiano una diversa attitudine dei cittadini alla titolarita’ di poteri e doveri giuridici>. Il pericolo si fa piu’ manifesto quando si consideri il <versante interno> della rivendicazione dei c.d. <diritti polietnici>, ossia la pretesa da parte delle minoranze che sia loro riconosciuto, secondo W. Kymlicka, <il potere giuridico di imporre pratiche culturali tradizionali nei confronti dei loro membri>, in quanto sotto questo profilo si fa molto reale il rischio che il <multiculturalismo portato alle sue estreme conseguenze> finisca per consentire <ai gruppi etnici di imporre le loro tradizioni giuridiche ai loro membri anche quando queste tradizioni contrastano con i diritti umani fondamentali e i principi costituzionali>”. Lo stesso riferimento alla Stato, sia nella sua visione pluralistica che in quella individualista non puo’ significare “che la diffusione di pratiche oppressive da parte di alcune minoranze nei confronti dei propri membri debba essere ritenuta una <logica> conseguenza delle politiche <multiculturali> in atto nei maggiori Paesi di immigrazione. Si tratta, invece, di politiche che <si prefiggono di permettere agli immigrati che lo vogliono di esprimere la loro identita’ etnica e di alleviare la pressione esterna che li spinge ad assimilarsi>, pur rifiutando, ad es., < in maniera decisa che gli immigrati provenienti da Paesi arabi o asiatici possano continuare pratiche tradizionali che comportano la limitazione dei diritti fondamentali dei loro simili, fra cui il matrimonio combinato forzato e la discriminazione sessuale nell’ambito dell’istruzione e del diritto di famiglia> o pratiche lesive del diritto alla salute e del diritto al consenso informato, come ad es., la clitoridectomia o la infibulazione. Quest’ultima, in particolare, e’ una questione” – del resto, gia’ affrontata con parere decisamente negativo sia da una Nota del 30 settembre 1999 del Ministero della Sanita’, sia dal Comitato Nazionale per la Bioetica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il parere del 25 settembre 1998 – “che si inserisce, con tutta la sua vibrante drammaticita’, in un quadro piu’ ampio di <conflitti culturali> tra le comunita’ democratiche occidentali e le minoranze di immigrazione islamica circa il rispetto del principio della pari dignita’ dei sessi che giungono fino alla contestazione del <chador>, ritenuto un simbolo di discriminazione della donna, che questa, anche se musulmana, avrebbe il diritto di non subire: uno Stato laico e democratico, si afferma, avrebbe il preciso dovere di non permettere l’esibizione di tale simbolo, soprattutto in locali pubblici, quali le aule scolastiche dove si svolge l’attivita’ educativa e formativa delle giovani generazioni, perche’, come osserva S.Castignone, <troppe volte, in nome della tolleranza, si finisce per legittimare delle pratiche, come l’uso del ‘chador’, che sono lesive della dignita’ umana>. La cronaca, poi, ci offre assai spesso casi difficili di matrimoni misti finiti con un divorzio, nel quale la donna occidentale, che abbia sposato un immigrato extracomunitario, appare perdente in una drammatica lotta,  fatta anche di fughe e rapimenti, per l’affidamento dei figli, che la <regola religiosa> del marito impone siano affidati al padre. Occorre, tuttavia, prosegue Botta, una buona dose di prudenza: sarebbe, infatti, assai arduo giudicare legittima l’eventuale intrapresa di iniziative finalizzate a risolvere questi conflitti con la <pretesa> di ottenere un cambiamento della cultura e dell’atteggiamento di una comunita’ di immigrati ( o di altre minoranze ) in ordine ad una pratica rituale(o comunque religiosamente giustificata).

Si tratta di un tipo di iniziative che potrebbe non solo porre in pericolo l’esercizio del diritto di liberta’ religiosa da parte di queste comunita’ ( o minoranze ) e dei loro appartenenti, ma anche mettere in discussione il principio, altrettanto fondamentale nel nostro ordinamento giuridico, dell’incompetenza dello Stato in materia religiosa. Anche se non si deve comunque dimenticare che la liberta’ individuale non puo’ essere ridotta, a dire di Kymlicka, < alla liberta’ di realizzare la propria concezione del bene>. Una societa’ liberale si caratterizza perche’ consente <la formazione e la revisione delle concezioni del bene>, perche’ <concede ai suoi membri non solo la liberta’ di praticare la loro fede ma anche di cercare nuovi adepti ( il proselitismo e’ permesso ), di mettere in discussione la dottrina della loro chiesa ( l’eresia e’ permessa ), di respingere completamente la loro fede e abbracciarne un’altra o l’ateismo ( l’apostasia e’ permessa )>; in buona sostanza, < una societa’ liberale non costringe i suoi membri a diffidare dei propri obiettivi di vita ne’ a rivederli ma rende possibile farlo>”. E’ necessario che allo Stato sia data la possibilita’ “di sviluppare una tutela dell’individuo all’interno dei rapporti di appartenenza alle diverse minoranze – quelli di appartenenza confessionale, in specie – che giunga fino al punto di contrapporsi alla <giurisdizione domestica> del gruppo o della formazione sociale di cui l’individuo e’ membro. Se sono i <diritti umani>, anche per il carattere di <universalita’> che li connota, il terreno sul quale si gioca la <trasformazione> del concetto di cittadinanza in un senso capace di <includere le differenze>, senza mortificare le identita’ con la pretesa di assimilazione alla cultura dominante quale condizione per il riconoscimento di diritti ( primi, tra gli altri, dei c.d. <diritti sociali> ), e’ difficile pensare poi che i <confini> delle formazioni sociali costituiscano un ostacolo invalicabile per la giurisdizione dello Stato che sia chiamata a difendere quegli stessi diritti all’interno del <gruppo>”. Ne consegue, secondo l’autore, che “in ossequio al principio fondamentale espresso dall’art. 2 Cost., il rapporto tra la tutela del <valore sociale> dell’appartenenza ascrittiva ad una formazione sociale e le garanzie costituzionali dei diritti e delle liberta’ fondamentali dell’individuo si deve risolvere a vantaggio della seconda ogni qualvolta quella appartenenza venga a perdere ( o entri in conflitto con ) la sua funzione strumentale al pieno sviluppo della persona umana. Se e’ vero che nel nostro sistema costituzionale di tutela della liberta’ individuale appartenere ad una formazione sociale – e quindi anche ad una minoranza culturale, etnica o religiosa – costituisce un diritto fondamentale della persona, cio’ e’ vero solo se tale appartenenza sia volontaria, frutto cioe’ di una scelta dell’individuo <libera> tanto rispetto all’ingresso quanto rispetto alla permanenza all’interno della formazione sociale considerata. Le formazioni sociali, pertanto, possono avere un <valore costituzionale> come luoghi nei quali si sviluppa la personalita’ dell’uomo in quanto <sistemi aperti> ove all’individuo sia consentito entrare ed uscire con la stessa misura di liberta’, senza cioe’ che alcuno sia obbligato ad una <conversione forzata>, ma anche senza che ad alcuno sia impedita una <conversione volontaria>. E lo Stato, lo Stato laico in particolare, potra’ assolvere al proprio compito istituzionale se in quanto sara’ capace di garantire le condizioni per le quali l’appartenenza ad una formazione sociale, e l’appartenenza confessionale in specie, resti per l’individuo un <percorso libero> in tutte le direzioni, allo stesso tempo assicurando al gruppo – o alle <minoranze culturali>, se si vuole – quella misura di <liberta’> che risulti compatibile con l’irrinunciabile tutela dei diritti fondamentali della persona”.

Del rapporto tra “Appartenenza confessionale e diritti dei minori” tratta Pierangela Floris.  “Complessivamente, secondo la Floris, risultano ancora contenute e/o carenti le occasioni di confronto tra <nuove> condotte religiose che coinvolgono i diritti dei minori e le regole presenti nell’ordinamento”, mentre “stanno diventando sempre piu’ frequenti le occasioni di confronto tra le nostre tradizioni giuridiche e quelle di matrice islamica, importate dai fenomeni migratori in atto. Ne’ mancano al riguardo esperienze giudiziarie che testimoniano di un orientamento ermeneutico in via di consolidamento, e soprattutto di una continuita’ nelle modalita’ di approccio ai contenuti religiosi delle relazioni familiari di cui e’ capace l’ordinamento. Nelle esperienze sinora maturate si trova anzitutto ribadita l’irrilevanza della fede religiosa, in se’ considerata, per la conformazione della disciplina dei rapporti genitori-figli. Questa <regola> e’ stata ripetuta, ad esempio, in tema di riconoscimento del figlio naturale, quando si e’ trattato di respingere l’opposizione della madre, cittadina italiana di religione cattolica, al riconoscimento del minore da parte del padre, cittadino tunisino di religione islamica. L’opposizione faceva leva sugli effetti pregiudizievoli che sarebbero potuti derivare al minore – nella specie una bambina – se attratto nell’ordinamento giuridico-religioso paterno, non garante della parita’ della donna rispetto all’uomo.  I giudici hanno presto risolto le questioni internazional-privatistiche a favore della lex fori, poiche’ la minore era cittadina italiana. Ma, altrettanto presto, essi hanno respinto le opposizioni di carattere religioso al riconoscimento paterno del minore: e cio’ hanno fatto, affermando in termini netti che <la mera diversita’ culturale, di origini, di etnia e di religione non puo’ di per se’ costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione dell’interesse di un minore all’acquisizione della doppia genitorialita’>. Quei giudici hanno cosi’ ribadito che l’adesione ad un determinato credo non puo’ di per se’ produrre effetti ostativi e discriminanti nell’instaurazione e nello svolgimento delle relazioni familiari. Al tempo stesso, essi hanno confermato che possono costituire oggetto di correzione/controllo da parte dell’ordinamento solo le condotte assunte dai genitori, quando risultino <prevaricatorie o pregiudizievoli per la tutela del minore>, e cio’ secondo il canone normativo che presiede alla regolamentazione dei rapporti genitori-figli nell’ordinamento italiano. Lo stesso percorso logico-giuridico ha fatto da guida alla scelta della legge applicabile a tutela del minore nel caso di concorso tra norme nazionali e straniere..; in particolare e’ stato ritenuto inapplicabile il diritto nazionale paterno, ad impronta islamica, che riservava al padre l’autorita’ e la custodia parentale del minore. La scelta del genitore affidatario e’ stata invece operata assumendo ad <esclusivo riferimento> l’interesse del minore, ossia sulla base di quanto previsto al riguardo dall’art. 155 del nostro Codice civile. …In fondo non e’ diverso il percorso di valutazione ipotizzabile rispetto ai casi di pregiudizio dei diritti dei minori, anche quelli piu’ gravi che tocchino la salute e l’integrita’ fisica di questi soggetti e che abbiano alla loro base ragioni di appartenenza culturale e/o confessionale. Vengono in mente, in particolare, le mutilazioni genitali praticate sulle bambine presso popolazioni di differenti religioni, oggi prevalentemente musulmane e soprattutto dell’Africa. Si tratta di pratiche che hanno un’origine ed una connotazione essenzialmente sociale, di regola consuetudinaria, ma che spesso e’ avvertita anche come regola religiosa dalle genti di fede islamica che la osservano. Tali pratiche hanno ricevuto una specifica sanzione legislativa di carattere penale in diversi Paesi occidentali con forti flussi migratori ( ad esempio, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ), mentre altri Paesi dell’area occidentale hanno privilegiato la via giudiziaria per la repressione delle pratiche escissorie, riconducendo le medesime a piu’ generali forme di reato contemplate dall’ordinamento a tutela della persona. E’ quanto e’ avvenuto di recente anche nel nostro contesto giuridico, con la condanna, per <lesioni gravi volontarie> di un genitore egiziano che aveva fatto praticare l’infibulazione alla figlia minore.  Si tratta della prima <occasione> giudiziaria di valutazione di una condotta <nuova> ed estranea alle nostre tradizioni socio-culturali e che e’ destinata ad assumere rilevanza crescente in corrispondenza della crescita dei flussi migratori. La risposta giudiziaria che essa ha ricevuto e’ quella imposta dai principi ordinamentali: da quelli che presiedono, in generale, alla tutela della persona nella sua integrita’ fisica, e da quelli che disciplinano, in particolare, le relazioni familiari, quali che siano le ragioni religioso-culturali all’origine delle scelte genitoriali. Anche nel caso in esame…le ragioni di appartenenza culturale restano sullo sfondo di quello che – agli occhi dell’ordinamento – appare un conflitto diretto tra doveri <certi> dei genitori e diritti del minore: rispettivamente i doveri parentali di cura del minore e il diritto di quest’ultimo alla propria salute ed integrita’ fisica. In questi casi, la risposta dell’ordinamento non puo’ che essere <intransigente> in rapporto alle motivazioni culturali delle condotte lesive dell’integrita’ fisica del minore. In ragione del diritto leso, tali condotte sono inevitabilmente destinate a scontrarsi con le norme penali poste dall’ordinamento a presidio dei diritti fondamentali della persona, e che segnano confini ineludibili ai comportamenti individuali lesivi di quei diritti. Potra’ variare la qualificazione oggettiva del fatto, ovvero la fattispecie di reato concretamente utilizzabile,a seconda della gravita’ della mutilazione effettuata sul minore e delle conseguenze immediate o prevedibili della medesima. Come potra’ variare la soluzione sanzionatoria concretamente adottabile, in base ai modelli e strumenti previsti dall’ordinamento ed alla valutazione della situazione concreta nella sua globalita’. In questo senso, si puo’ spiegare e comprendere l’epilogo del caso giudiziario prima richiamato, il quale si e’ presto concluso con il patteggiamento della pena ( due anni di reclusione con la sospensione della condizionale ), anche per evitare ulteriori effetti traumatici nei confronti dei minori coinvolti. Anche queste esperienze…bene esplicitano il modello di intervento di cui risulta attualmente dotato il nostro ordinamento per rispondere ai problemi del multiculturalismo che possono prospettarsi nella disciplina delle relazioni familiari”.

Nella prospettiva di una possibile coniugazione tra multiculturalismo e religione meritano infine un’attenta considerazione le riflessioni di Edoardo Dieni, per quanto attiene al rapporto tra “Appartenenza religiosa e diritti della donna”.  Nel diritto interno, sostiene E.Dieni, “le peculiari garanzie offerte all’autonomia confessionale rafforzano formalmente il diritto del gruppo religioso di consevare la propria identita’ attraverso trattamenti discriminatori, salvo il limite opposto dal principio personalistico ex art. 2 Cost. ( o da altri articoli della Carta per chi non riconosca all’art. 2 una valenza poziore nell’economia del sistema ) alla compressione dei diritti inviolabili del soggetto discriminato all’interno del gruppo. La <riserva di statuto> di cui all’art. 8 cpv Cost., infatti, pur garantendo alle confessioni la piu’ ampia liberta’ nel determinare i contenuti del proprio credo, e dunque anche la liberta’ di custodire e trasmettere l’idea di inferiorita’ della donna, non rimuove ma differisce soltanto il conflitto tra il principio religioso di disuguaglianza della donna e il principio statuale ( costituzionale ) di uguaglianza della donna; conflitto che risorge ogni qualvolta provvedimenti della confessione pretendono di ottenere efficacia nell’ordinamento civile. E, poiche’ nella ponderazione tra il valore dell’autonomia confessionale ed altre istanze le estrinsecazioni dei poteri di supremazia statali potranno prevalere sull’autonomia delle confessioni solo se concorrano a specificare o concretizzare altri valori costituzionali, tra i quali in primo luogo i diritti inviolabili ex art. 2 Cost. e tra essi il diritto all’eguale trattamento senza distinzione di sesso, il risultato della ponderazione sara’ determinato non soltanto  ( e non tanto ) dal peso specifico attribuito alla dignita’ della persona, ma anche dal modo di intendere questa dignita’, in cui e’ compreso il rispetto per una identita’ che il soggetto puo’ trarre in modo totale da una appartenenza. Questa ponderazione, per come e’ effettuata dalla giurisprudenza e dalla dottrina dominante, nonche’ dai primi interventi legislativi sulle organizzazioni di tendenza, fa prevalere in generale la liberta’ del gruppo sulla liberta’ del singolo, creando nel sistema una riserva interdetta al principio di non-discriminazione, cosi’ neutralizzato anche in rapporto al sesso. Nel diritto privato il divieto di discriminazione in base al sesso trova un ostacolo ulteriore e non specifico nel principio – pur passibile di eccezioni legali – per cui i privati hanno facolta’ di determinare liberamente i criteri per costituire rapporti con altri soggetti. Una confessione religiosa puo’ pertanto giovarsi, usando degli strumenti privatistici, di questa riserva generale, indirettamente riconosciuta dal diritto comune, per attuare la propria ideologia discriminante nei confronti delle donne. I problemi che possono presentarsi in rapporto alla discriminazione sessuale per motivi religiosi sembrano insomma assorbiti, in buona misura, nel piu’ generale problema rappresentato dalla tutela dell’individuo all’interno delle organizzazioni di tendenza. Essi dunque si direbbero destinati a ricevere lo stesso tipo di soluzione che per solito si riserva al problema generale, nella misura in cui, e fintanto che non si riconosca una qualche specialita’ alla discriminazione sessuale, tale da sottrarla al regime di immunita’ all’interno del gruppo..; nella prospettiva dell’ordinamento italiano…le problematiche di maggior rilievo paiono essere quelle della stipula del matrimonio, del suo scioglimento unilaterale da parte del marito in forma di ripudio, della polgamia, del governo della famiglia, dei <diritti riproduttivi>, dell’affidamento e dell’educazione religiosa dei figli, delle pratiche di mutilazione genitale cui sono sottoposte le bambine;  tutte ipotesi in cui si tratta di distinguere quanto, pur prodotto da una cultura patriarcale, sia <neutralizzabile> attraverso una conversione nelle categorie del diritto nazionale costruite sul presupposto della libera autodeterminazione del soggetto, quanto, pur non <neutralizzabile>, non assume rilevanza in rapporto a una determinata fattispecie, e quanto invece va assolutamente respinto. Gli orientamenti della giurisprudenza italiana ( emersi piuttosto di recente soprattutto in rapporto alla religione islamica, la cui estraneita’ alla tradizione ebraico-cristiana potrebbe suggerire scelte diverse da quelle compiute in rapporto alle confessioni appartenenti a tale filone ) non sembrano del tutto consolidati. Dal canto loro, anche le regole religiose sulla famiglia, nelle comunita’ minoritarie, sembrano in evoluzione verso forme meno incompatibili con i tradizionali principi dell’ordine pubblico italiano. In questo quadro pare comunque profilarsi, sia nella giurisprudenza che nelle propensioni del Legislatore, una tendenza a costruire un diritto speciale: tendenza partecipe, ancora con riguardo alla religione che maggiormente fa <specie> rispetto alla tradizione europea, di un processo piu’ generale, che ha fatto addirittura parlare del diritto musulmano come di un <nouveau droit europe’en>”. Del resto, conclude Dieni, non puo’ essere disattesa la “circostanza per cui una confessione religiosa fondata sul maschilismo sara’ rappresentata da esponenti maschilisti, presumibilmente i meno adatti a interpretare le ragioni delle donne”, con la conseguenza che un “diverso modo di concepire lo strumento delle intese puo’ ripercuotersi sulla ( o denotare la ) propensione a migliorare la condizione femminile all’interno dei gruppi religiosi attraverso un rapporto dialogico con questi”, atteso che “altro e’ guardare all’intesa…come a una tecnica la cui ragion d’essere risiede nella possibilita’ di predisporre una normativa speciale, calibrata sulla peculiarita’ dei problemi posti da un determinato credo religioso; altro e’ guardare ad essa come la sede di compromessi puramente politici, il cui oggetto sono privilegi di posizione. L’alternativa…sembra oggi il principale spartiacque della dottrina ecclesiasticistica e della politica ecclesiastica italiana ( e non solo ). Nel primo caso le intese possono rivelarsi un mezzo particolarmente efficace per la costruzione di un diritto multiculturale, in cui lo Stato rinuncia a conservare, in determinati settori, una disciplina indifferenziata per tutti, ma guadagna l’inclusione dei dissimili sulla base di una capacita’ comunicativa che presuppone qualcosa di universale gia’ intercorrente tra culture pur molto diverse – per esempio, la dignita’ della persona, uomo e donna -; nel secondo caso le intese saranno utili ad altri scopi, come quello – se vengano negate – di escludere dalla piazza della citta’ determinate culture ( salvo favorirne i ripiegamenti integralisti dentro le case, in quella sfera interna ignorata dalla giustizia liberale classica ), oppure per convenire – se vengano concesse – spartizioni di giurisdizione, con la creazione di quartieri-ghetto sottomessi, ciascuno, alla legge di una tribu’. Si tratta di una scelta, cioe’, pericolosamente allusiva ad un’altra e piu’ radicale scelta – al traverso di ogni classificazione convenzionale, antica o moderna – relativa al rapporto se’/diverso ( che il diverso sia tale per religione, per sesso o per qualsiasi altra cosa ): la scelta tra coltivare il proprio hortus conclusus oppure coltivare l’umanita’”.

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