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EDITORIAL: Proposte di legge che intervengono sulla compatibilita’ tra esercizio della professione forense e impiego pubblico o funzioni pubbliche

2 Settembre 2002 Commenta

– ATTO CAMERA 543-B “Incompatibilita’ dell’esercizio della professione di avvocato” (On. Bonito e altri);
– ATTO CAMERA 1866 “Modifica dell’art. 3 del Regio Decreto Legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, recante ordinamento della professione di avvocato, in materia di incompatibilita’ con l’esercizio della professione forense” (On. Bonito e altri);
– ATTO CAMERA 1707-B “Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi”.


LE PROPOSTE DI LEGGE AC 543-B e AC 1866  E LA PROPOSTA AC 1707-B ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE, DELLA GIURISPRUDENZA  DELLA CORTE DI GIUSTIZIA, DELLE SEGNALAZIONI DELL’ANTITRUST, DELLE BROAD ECONOMIC POLICY GUIDELINES E DEI DOCUMENTI DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICA E FINANZIARIA. 
Questo lo stato dell’iter parlamentare dei tre progetti di legge di cui all’oggetto:
– La Camera dei Deputati sta per approvare definitivamente la proposta di legge AC 543-B “Norme in materia di incompatibilita’ dell’esercizio della professione di avvocato”, primo firmatario e relatore l’On. Bonito. La Commissione Giustizia della Camera ha infatti dato mandato al relatore di relazionare all’assemblea in senso favorevole all’approvazione del testo di legge come emendato dal Senato.
– Giace, invece, in Commissione Giustizia della Camera, non essendosene neppure iniziato l’esame, un’altra proposta di legge di cui l’On. Bonito risulta primo firmatario (Atto Camera 1866), volta a introdurre l’incompatibilita’, questa certamente necessaria, tra l’esercizio della professione di avvocato e le cariche di ministro, sottosegretario, e, in genere, titolare di uffici di vertice della pubblica amministrazione senza rapporto di dipendenza;
– e’ stato approvato dal Senato, e sara’ esaminato dalla Camera, il progetto di legge 1707-B “Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi”.


La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia.
Con l’eventuale definitiva approvazione della “proposta Bonito” AC 543-B, si reintrodurrebbe (art. 1) l’incompatibilita’ tra la professione di avvocato e il pubblico impiego a tempo parziale ridotto, abolita dall’art. 1, comma 56, della legge 662/96, disposizione di legge, quest’ultima, che e’ stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale. Si consentirebbe, inoltre, in via d’eccezione (art. 2, comma 1), ai soli dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto che, iscrittisi all’albo degli avvocati usufruendo dell’art. 1, commi 56 e seguenti della l. 662/96, risultino ancora iscritti- di esercitare la professione di avvocato in costanza di rapporto di impiego pubblico, ma soltanto per i tre anni successivi all’entrata in vigore della legge.
La predetta sentenza n.189/2001 della Corte Costituzionale e’ si una sentenza di rigetto (a fronte dell’ordinanza di remissione del Consiglio Nazionale Forense che aveva ritenuto incostituzionale il regime di compatibilita’) ma, cio’ nondimeno, indica principi ai quali il legislatore non puo’ sottrarsi, pena l’incostituzionalita’ della legge modificativa del “sistema delle compatibilita’” che volesse approvare. Tra l’altro tale sentenza indica due fondamentali principi che dovranno anche costituire parametro per la valutazione di costituzionalita’, preliminare alla promulgazione della eventuale “legge Bonito” (AC 543-B):

– 1) il principio per cui la libera professione di avvocato e’ ambito del mercato del lavoro “naturalmente concorrenziale” in relazione al quale la discrezionalita’ del legislatore nell’approvare una normativa che disciplini accesso e incompatibilita’ (con esiti “di apertura” o, al contrario, con esiti “di chiusura”) non puo’ essere esercitata in modo irragionevole.
Al punto 10 della sent. 189/2001 si legge infatti: “Infondata e’, infine, anche la prospettata censura di contrasto con l’art. 4 della Costituzione, precetto che, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimette l’attuazione, quanto a tempi e modi, alla discrezionalita’ del legislatore. Tale discrezionalita’, contrariamente a quanto assume il rimettente, risulta, infatti, esercitata, nel caso in esame, in modo tutt’altro che irragionevole (E ALLORA –aggiungo io- COME PUO’ ESSERE RAGIONEVOLE LA DISCIPLINA OPPOSTA CHE SI VUOL INTRODURRE CON LA LEGGE BONITO?), ove si consideri che le disposizioni denunciate sono intese a favorire l’accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioe’ ad un ambito del mercato del lavoro che e’ naturalmente concorrenziale. E cio’ tanto piu’ se si tiene conto, proprio in relazione all’attivita’ forense, dei piu’ recenti interventi del legislatore (decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96), volti a facilitare l’esercizio permanente della stessa attivita’ da parte degli avvocati cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea”.
– 2) il principio per cui il legislatore potra’ rideterminarsi, (rispetto al “sistema per la compatibilita’” tra avvocatura e impiego pubblico, costruito dall’art. 1, commi 56 e ss, della l. 662/96) solo qualora muti la disciplina della professione forense nel suo complesso.
Si legge, infatti, al punto 7 della sent. 189/2001: “Va da se’ che, in tale quadro di riferimento, potranno eventualmente, rinvenire la loro risposta, attraverso la opportuna valutazione da parte del legislatore, anche diverse ed ulteriori esigenze che dovessero derivare dall’evoluzione normativa, quando questa, come nel caso qui considerato, risulti incidente sulla stessa professione”.
Voglio sottolineare, al riguardo, che il quadro normativo che disciplina la professione forense non e’ mutato affatto, dopo la sentenza n. 189/2001, neppure per quanto attiene al regime delle incompatibilita’. Non e’ mutato rispetto all’analisi che ne ha fatto la Cassazione a S.U. nella sentenza 12/3/99, n. 129, allorche’ affermo’ addirittura la compatibilita’ tra l’esercizio della professione forense e l’esercizio di funzioni giudiziarie nei seguenti termini: “E’ avviso della corte che: a) il vigente diritto positivo non esibisce alcun principio generale di assoluta incompatibilita’ fra l’esercizio di funzioni giudiziarie e lo svolgimento della professione forense; b) la disciplina specificamente dettata per i vice pretori onorari e la sua evoluzione contengono, all’opposto, una espressa previsione di compatibilita’, non circoscrivibile al caso in cui le funzioni giurisdizionali vengano svolte in via meramente vicaria ed occasionale; c) l’ordinamento professionale (della professione di avvocato) non consente di fondare autonomamente una regola di incompatibilita’, ne’ di rilievo generale, ne’ di portata limitata…”.
Con riguardo alla totale carenza di quella “evoluzione normativa” che, sola, per la Corte Costituzionale n. 189/2001, potrebbe rendere non incostituzionale una reintroduzione dell’incompatibilita’ tra impiego pubblico in part time ridotto e avvocatura, si evidenzia che:
a) neppure si e’ avviato l’esame parlamentare delle proposte di legge sulla riforma complessiva delle professioni;
b) giace in Commissione Giustizia della Camera, non essendosene neppure iniziato l’esame, un’altra proposta di legge di cui l’On. Bonito risulta primo firmatario (Atto Camera 1866), volta a introdurre l’incompatibilita’, questa certamente necessaria, tra l’esercizio della professione di avvocato e le cariche di ministro, sottosegretario, e, in genere, titolare di uffici di vertice della pubblica amministrazione senza rapporto di dipendenza;
c) e’ stato approvato dal Senato il progetto di legge 1707-B “Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi”, che all’art. 2, co 1, prevede (il neretto evidenzia le modifiche rispetto al testo approvato dalla Camera) “Il titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non puo’:…d) esercitare attivita’ professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati; in ragione di tale attivita’ il titolare di cariche di governo puo’ percepire unicamente i proventi per le prestazioni svolte prima dell’assunzione della carica; inoltre, non puo’ ricoprire cariche o uffici, o svolgere altre funzioni comunque denominate, ne’ compiere atti di gestione in associazioni o societa’ tra professionisti”. Il testo precedentemente approvato dalla Camera, prevedeva invece “Il titolare di cariche di governo, nel corso del proprio mandato, non puo’:… e) esercitare attivita’ professionali, anche in forma associata, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati, in Italia o all’estero; in ragione di tali attivita’ il titolare di cariche di governo puo’ percepire unicamente i proventi per le prestazioni svolte prima dell’assunzione della carica”. Il Senato ha dunque sostituito la giusta previsione di una incompatibilita’ “di stato” con la previsione di una incompatibilita’ “di attivita’” dai contorni evanescenti (si vieta lo svolgimento di attivita’ professionali “nello svolgimento del proprio incarico”, e non piu’ “nel corso del proprio mandato”, e per di piu’ il divieto e’ stato limitato attraverso l’introduzione della frase “in materie connesse con la carica di governo”), sostanzialmente riproduttivi di un privilegio a favore proprio dei soggetti che piu’ dovrebbero essere tenuti a rigide incompatibilita’ professionali, i quali potranno agevolmente sostenere che, ad es., un ministro della difesa (o, perche’ no, anche un sottosegretario alla giustizia, se non addirittura il ministro della giustizia) puo’ esercitare la professione di avvocato, purche’ non in materie connesse con le attribuzioni ministeriali. Comunque il testo approvato dal Senato non ha certo prospettato quell’“evoluzione normativa” richiesta dalla sentenza 189/2001 perche’ sia costituzionalmente legittima la reintroduzione dell’incompatibilita’ tra impiego pubblico in part time ridotto e avvocatura. Non ha prospettato una modifica del regime delle incompatibilita’, nella professione di avvocato, capace di imporre, quale logica necessita’, la reintroduzione dell’incompatibilita’ “di stato” per i dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto. Anzi l’incompatibilita’ “di stato” prevista dalla proposta Bonito AC 543-B risulterebbe un’odiosa, e incostituzionale, discriminazione a fronte della eventuale incompatibilita’ “di attivita’” che fosse istituita per i titolari di cariche di governo, dalla c.d. legge sul conflitto di interessi.  
La Corte Costituzionale ha cioe’ affermato nella sent. 189/01, implicitamente ma chiaramente, che, per usare le parole della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee, resa il 19/2/2002 nella causa C-309/99, Wouters, le cui indicazioni non possono non valere anche per le norme di diretta derivazione statale (come conferma il punto 34 della sentenza della Corte di Giustizia, anch’essa del 19/2/2002, resa nella causa C-35/99, Arduino, che, definito l’esercizio dell’avvocatura come attivita’ di impresa, recita: “Anche se e’ vero che, di per se, l’art. 85 del Trattato riguarda esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli stati membri, cio’ non toglie che tale articolo, in combinato disposto con l’art. 5 del Trattato, obbliga gli stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei a eliminare l’effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese”), la specificita’ della professione forense, in relazione alla attuale e complessiva disciplina positiva delle incompatibilita’ previste per tale professione, non puo’ ragionevolmente far  ritenere che la reintroduzione dell’incompatibilita’ con l’impiego pubblico in part time, malgrado gli effetti restrittivi della concorrenza ad essa inerenti, risulti necessaria al buon esercizio della professione di avvocato, come oggi organizzata  in Italia.

Piu’ in particolare: le sentenze Arduino e Wouters della Corte di Giustizia e l’esercizio della professione di avvocato come oggi organizzata in Italia.
Dalle recenti sentenze Arduino e Wouters della Corte di Giustizia risulta  confermato quanto affermato gia’ nella sentenza della Corte Costituzionale n. 189/2001 e cioe’ che lo Stato non puo’ legittimamente introdurre nel suo ordinamento interno una legge che elimina l’effetto utile della previgente regola piu’ ampia sulla concorrenza tra gli avvocati, senza che cio’ sia ragionevolmente giustificabile in base al livello di garanzia (nel diritto positivo dello Stato membro) del bene che si asserisce giustificatore della limitazione alla concorrenza.
Nel nostro caso il diritto positivo italiano non tutela affatto in maniera seria e coerente il bene della indipendenza dell’avvocato, che i fautori della “proposta Bonito”AC 543-B prospettano quale bene giustificatore del limite alla concorrenza che con la reintroduzione dell’incompatibilita’ sarebbe posto; pertanto non e’ ragionevolmente giustificabile l’eliminazione, per legge, della previgente regola legislativa piu’ ampia sulla concorrenza tra avvocati (l’art. 1, co 56, l. 662/96).
Che il diritto positivo italiano non tuteli il bene dell’indipendenza dell’avvocato in maniera seria, coerente, e scevra da non piu’ accettabili finalita’ di tutela anticoncorrenziale della corporazione degli avvocati, non e’ dubbio.  Infatti, a fronte delle rigidissime incompatibilita’ previste dall’art. 3 della legge professionale per l’avvocatura, il nostro ordinamento, contraddittoriamente, prevede tutta una serie di compatibilita’ che impediscono di ricostruire un sistema coerente e, comunque, impediscono di ragionevolmente ritenere che la reintroduzione dell’incompatibilita’ di cui all’AC 543-B sia, come richiede la sentenza Wouters, “necessaria al buon esercizio della professione di avvocato, come oggi organizzata  in Italia”. Tra queste compatibilita’ ricordiamo: quella avvocato-giudice di pace, quella avvocato-pm, quella avvocato-goa, quella avvocato-got, quella avvocato-giudice tributario, quella avvocato insegnante, quella avvocato-arbitro, quella avvocato-ministro (magari alla giustizia), quella avvocato-sottosegretario di Stato (magari alla giustizia, come nel caso dei tre attuali sottosegretari, tutti avvocati), quella avvocato-capo ufficio legislativo di un ministero, quella avvocato-titolare di uffici di vertice delle piu’ diverse amministrazioni pubbliche, uffici nei quali si e’ incardinati non in base a rapporto di lavoro dipendente ma in virtu’ di nomina o rapporto di collaborazione continuativa; tutti casi gravissimi di “immunita’” dalla reintroducenda incompatibilita’ per gli impiegati pubblici in part time ridotto. E non si vede come la proposta reintroduzione dell’incompatibilita’ di cui all’AC 543-B possa essere ragionevolmente giustificabile e (mi si passi il gioco di parole) compatibile con un ordinamento che riconosce tutte le appena elencate compatibilita’ tra la professione (di necessita’ “part time”) di avvocato e le piu’ diverse funzioni pubbliche.
L’approvazione definitiva della proposta Bonito, AC 543-B, comporterebbe l’esclusione dall’ambito di operativita’ della ipotizzata incompatibilita’, di gravissimi casi di ben piu’ probabile conflitto di interessi e accaparramento di clientela fuori da una corretta concorrenza, di modo che appaiono anche evidenti le disparita’ di trattamento, nonche’ quella palese arbitrarieta’ e quella manifesta irragionevolezza della legge che legittimano, secondo la giurisprudenza costituzionale, il sindacato di costituzionalita’ anche sull’ampia discrezionalita’ di cui gode il legislatore.
La tutela avanzata di quel mitizzato bene dell’indipendenza dell’avvocato che la “proposta Bonito” vuol realizzare, e cioe’ la tutela preventiva a fronte di pericoli gia’, peraltro, adeguatamente contrastati attraverso un sistema di cautele e preclusioni che opera da ormai quasi cinque anni e ha dato ottima prova di se, e’, per quanto detto, ingiustificabile e censurabile sotto vari profili, in base a principi chiaramente espressi dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia. D’altro canto la peculiarita’ della professione forense, intesa come fonte di una tale tutela avanzata, non e’ riscontrabile in alcun precetto costituzionale, come inequivocabilmente afferma la sentenza 189/2001 della Corte Costituzionale.
E’ da ritenersi sicuro, percio’, che non solo la Corte Costituzionale ma anche la Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee confermerebbero la loro chiara giurisprudenza rilevando che l’incompatibilita’ non e’ giustificata da ragioni obiettive e non e’ proporzionata allo scopo perseguito.
Non solo la Corte Costituzionale ma anche la Corte di Giustizia, quest’ultima sulla scorta delle sentenze Wouters e Arduino, accoglierebbero i ricorsi che l’eventuale “legge Bonito” immediatamente genererebbe.

Addirittura il pubblico ministero puo’ fare l’assessore comunale.
Per altro verso, e a definitiva riprova che la proposta AC 543-B e’ solo liberticida e palesemente incoerente col nostro ordinamento, rilevo che quest’ultimo, addirittura, non si preoccupa granche’ nemmeno della commistione tra attivita’ giurisdizionale e ruolo di amministratore di ente locale: si accontenta che le due attivita’ si svolgano in ambiti territoriali diversi. Figuriamoci se e’ possibile sostenere che e’ ragionevole la limitazione dei diritti di libera iniziativa economica, al lavoro, alla realizzazione personale, ecc…. dell’impiegato part time, che voglia esercitare la professione forense, in ossequio a un inventato mito dell’indipendenza dell’avvocato quale partecipe all’erogazione del servizio giustizia!
E’ recentemente assurto agli onori della cronaca il caso del magistrato Giuseppe Adornato, pubblico ministero a Palmi e, contemporaneamente, assessore all’urbanistica al Comune di Reggio Calabria: la Giunta Distrettuale dell’ANM ha dovuto riconoscere che le due attivita’ di assessore e PM, normativamente non sono incompatibili, avuto riguardo agli ambiti territoriali differenziati in cui esse sono esercitate. Al riguardo il T.U. sugli enti locali, d. lgs. 18/8/00, n. 267, all’art. 47, co 3, prevede che “gli assessori sono nominati…tra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilita’, eleggibilita’ e compatibilita’ alla carica di consigliere” e l’art. 6 del detto decreto esclude che siano eleggibili a consigliere comunale (e percio’ designabili quali assessori) tra gli altri ( punto 6 del comma 1) “nel territorio nel quale esercitano le loro funzioni, i magistrati addetti alle Corti d’appello, ai Tribunali amministrativi regionali, nonche’ i Giudici di pace”. 
Ma se addirittura la funzione di magistrato, requirente o giudicante, non e’ incompatibile con l’attivita’ (di politica attiva e di gestione diretta della cosa pubblica) dell’assessore comunale, come puo’ introdursi un’incompatibilita’ tra due attivita’ (quella di avvocato e quella di impiegato pubblico in part time -per giunta a ridottissima presenza al lavoro e a ridottissimo stipendio-) che, in relazione all’amministrazione della giustizia e all’amministrazione di un Comune, non sono certo tanto importanti quanto le attivita’ del giudice (almeno perche’ questo e’ precostituito per legge e non sostituibile o sceglibile da chi e’ sottoposto al suo giudizio, salve legittime ragioni di sospetto!) o quelle dell’assessore comunale? Perche’ l’impiegato addetto all’assessorato all’urbanistica del Comune di Reggio Calabria, in part time ridotto al 30%, non potra’ fare l’avvocato (con tutte le limitazioni previste dall’art. 1, co 56 e ss, della l. 662/96), mentre il suo assessore, non certo a tempo parziale e con stipendio non dimezzato, potra’ fare addirittura il giudice?
MI PARE CHE LA DECENZA IMPONGA, IN PRIMO LUOGO, DI NON TACERE E DI INTERVENIRE IMMEDIATAMENTE (DAL C.S.M. CI SI POTREBBE ASPETTARE UN PARERE AI SENSI DELL’ART. 10, CO 2, L.195/58, PER PROMUOVERE CORRETTEZZA ED EFFICIENZA DELL’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA) AL FINE DI IMPEDIRE L’INTRODUZIONE NELL’ORDINAMENTO DELLA SCANDALOSA INCOMPATIBILITA’ PREVISTA DALLA PROPOSTA DI LEGGE AC 543-B.
A MIO MODESTO PARERE LA MAGISTRATURA STESSA, SUL TEMA DEI LEGITTIMI SOSPETTI CHE POSSONO INQUINARE IL SERVIZIO GIUSTIZIA, DOVREBBE:
1) PROPORRE MODIFICHE NORMATIVE CHE SALVAGUARDINO MAGGIORMENTE “A MONTE” (ANCHE PER LIMITARE I SOSPETTI CHE POSSONO RALLENTARE IL PROCESSO), IL GIUDICE DAL SOSPETTO DI ESSERE CONDIZIONABILE DA APPARTENENZE POLITICHE PALESATE CON UN IMPEGNO POLITICO PORTATO AL LIVELLO DI GESTIONE DELLA COSA PUBBLICA.
SAGGIA SAREBBE L’ESCLUSIONE (CON NORMA  COGENTE CHE NON LASCI SPAZIO A VALUTAZIONI DI OPPORTUNITA’) DELLA POSSIBILITA’ DI IMPEGNI QUALI QUELLO DI AMMINISTRATORE DI ENTI LOCALI;
2) PROPORRE, IN TEMA DI INCOMPATIBILITA’ DEGLI ALTRI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA, MODIFICHE NORMATIVE SERIE, CHE EVITINO, SOPRATTUTTO PER L’ESERCIZIO DELL’AVVOCATURA, DA UN LATO LE INCOMPATIBILITA’ ANNACQUATE PER I TITOLARI DI CARICHE DI GOVERNO (vedi art. 2, co 1, e in particolare lettera d del progetto di legge1707-B) E, DALL’ALTRO, LE INGIUSTIFICABILI CHIUSURE CORPORATIVE CONTRO CHI HA TUTTE LE CARTE IN REGOLA PER PATROCINARE IN GIUDIZIO E NON DEVE DIVENTARE VITTIMA DI CONFLITTI DI INTERESSI INVENTATI.

Le segnalazioni dell’Antitrust quale autorevolissima denuncia di incostituzionalita’.
Confermando la valenza anche economica delle valutazioni operate dalla sentenza della Corte Cost. 189/2001, l’Antitrust, il 12 dicembre del 2001, ha inviato al Presidente del Consiglio e al Parlamento una segnalazione contraria alla approvazione della proposta di legge AC 543 e alla reintroduzione della incompatibilita’ tra impiego pubblico in part time ridotto ed esercizio della professione di avvocato, stigmatizzando il tentativo di tutela corporativa ed attribuendogli l’effetto di una turbativa delle regole della concorrenza. Il parere dell’Antitrust e’ stato poi ribadito dalle linee guida evidenziate nella successiva segnalazione, del 14 gennaio 2002, su “Riforma della regolazione e promozione della concorrenza”. Gia’, peraltro, l’Antitrust ebbe ad indicare, nel corso della XIII legislatura, su richiesta del Presidente del Consiglio, ex art. 22, l. 287/1990, quali dovrebbero essere i limiti delle incompatibilita’ nell’accesso alle professioni e nel loro esercizio (con riguardo anche alla professione forense). Nel suo parere, del 5/2/99, sul disegno di legge 5092, recante “delega al Governo per il riordino delle professioni intellettuali” (c.d. “progetto Mirone”) affermo’ infatti: “Da ultimo, va rilevata la mancanza nel disegno di legge di previsioni atte a mitigare l’attuale regime delle incompatibilita’ professionali. Una attenta riforma delle modalita’ di esercizio della professione coerente con i principi della concorrenza richiede invece l’eliminazione di tutte quelle incompatibilita’ non necessarie e non proporzionate rispetto agli obiettivi che esse intendono perseguire o le cui finalita’ siano perseguibili attraverso strumenti meno restrittivi della concorrenza. Tale eliminazione riguarda sia l’incompatibilita’ dell’esercizio di una attivita’ professionale in forma dipendente sia il contemporaneo esercizio di piu’ attivita’ professionali libere, sia il contemporaneo esercizio di una attivita’ professionale libera e di una attivita’ in qualita’ di dipendente”. 
Ora che il nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione eleva il principio di concorrenza al rango di principio costituzionale, da regolare ma non certo da violentare con legge ordinaria dello Stato, le ripetute segnalazioni dell’Antitrust dovrebbero assurgere –anche in relazione alla previa verifica di costituzionalita’ delle leggi, spettante al Presidente della Repubblica- a proposta di parametro di controllo e, nel caso particolare che ci occupa, assurgono ad autorevolissima denuncia di incostituzionalita’.
La verifica di costituzionalita’ che il capo dello Stato fosse chiamato a compiere non potra’ che riconoscere fondata tale denuncia autorevolissima.
RISULTA INFATTI L’IMMEDIATA EVIDENZA DI NUMEROSI PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’ CHE DOVREBBERO RILEVARSI SENZA NECESSITA’ DI ATTENDERE IL SUCCESSIVO ESAME DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
RISULTA LA MANIFESTA IRRAGIONEVOLEZZA E LA PALESE ARBITRARIETA’ CHE FONDANO (COME RIBADISCE L’ORDINANZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE 24 APRILE – 7 MAGGIO 2002, N. 163), LA CENSURA DI INCOSTITUZIONALITA’ PER VIOLAZIONE DELL’ART. 3 DELLA COSTITUZIONE SOTTO IL PROFILO DELLA VIOLAZIONE DELLA CONSENTITA DISCREZIONALITA’ DEL LEGISLATORE.


Le Broad Economic Policy Guidelines e i documenti di programmazione economica e finanziaria.
I principi affermati dalla sentenza della Corte Costituzionale 189/2001 e dall’Antitrust, peraltro, corrispondono alla sollecitazione che la Commissione Europea, nell’aprile del 2001, ha rivolto all’Italia ad “aumentare la concorrenza e liberalizzare l’accesso ai servizi professionali” (la raccomandazione si trova nelle Broad Economic Policy Guidelines –BEPGs, citate anche nel testo del D.p.e.f. dello scorso anno, e mira a rafforzare la competitivita’ del nostro sistema economico, in particolare nei settori in cui la conoscenza ha un ruolo chiave) e si coniuga benissimo con l’impegno programmatico contenuto nel paragrafo III.6 dell’ “Analisi” al D.p.e.f. 2002-2006, intitolato “La liberalizzazione degli ordini professionali”, ove si afferma “… In linea generale, e’ essenziale che la regolazione tenga conto dei criteri di necessita’ e proporzionalita’, come la stessa Autorita’ Antitrust ha piu’ volte affermato, in modo tale da sottoporre a regolazione solo cio’ che necessita di un controllo esterno da parte dello Stato… Un’ulteriore spinta alla riforma del settore puo’ scaturire dalla considerazione dell’urgenza di adeguare la regolazione delle professioni alla evoluzione del mercato e al contesto economico, verificando che i vincoli all’accesso alle professioni rispondano effettivamente all’esigenza di tutela dell’utente e di massimizzazione della qualita’ della prestazione professionale”.     
LO SCORSO 22 APRILE 2002, POI, LA COMMISSIONE UE HA RIVOLTO UNA RACCOMANDAZIONE ALL’ITALIA, NELL’AMBITO DEI “GRANDI ORIENTAMENTI DI POLITICA ECONOMICA” PER IL 2002, E CIOE’ NELL’AMBITO DEL DOCUMENTO IN CUI SI ENUNCIANO GLI INDIRIZZI DI MASSIMA SIA DELLE POLITICHE MACROECONOMICHE CHE DI QUELLE STRUTTURALI: IL PERNO DEL PROCESSO DI COORDINAMENTO DELLE POLITICHE ECONOMICHE DELL’UE.
IN TALE RACCOMANDAZIONE SI LEGGE: “TENUTO CONTO DI QUANTO PRECEDE, L’ITALIA DOVREBBE PRIVILEGIARE I SEGUENTI OBIETTIVI:…RAFFORZARE LA CONCORRENZA EFFETTIVA NEL SETTORE DEI SERVIZI , IN PARTICOLARE DEI SERVIZI PROFESSIONALI E DARE ATTUAZIONE A TUTTE LE RIFORME NECESSARIE PER ESTENDERE L’APERTURA DEI MERCATI…………..”. E, infine, il capitolo dell’ultimo DPEF dedicato agli ordini professionali esordisce affermando che “ Come ribadito nelle Bepg del 2002 recentemente approvate dal Consiglio Europeo, si impone per l’Italia l’esigenza di ridefinire gli assetti normativi e concorrenziali nel settore degli ordini professionali”. 

L’ ASSURDO TRIENNIO DI TOLLERANZA PER GLI ISCRITTI.
Ai fini del vaglio di costituzionalita’ dell’eventuale “legge Bonito”che per primo il Presidente della Repubblica sarebbe chiamato a fare, non solo i sopra svolti rilievi “esterni” di incostituzionalita’ appaiono evidenti e decisivi, ma soprattutto evidente e decisivo appare un altro rilievo, “interno” alle disposizioni di legge che giungessero per la promulgazione (e cio’ conferma che la discrezionalita’ del legislatore e’ stata esercitata in modo palesemente irragionevole): l’evidente contraddizione logica tra l’art. 1 e l’art. 2, comma 1, della proposta di legge  A C 543-B.
Delle due l’una: o l’incompatibilita’ (sancita nell’art.1) e’ una necessita’, e allora non bisogna consentire ai dipendenti pubblici iscritti all’albo degli avvocati di svolgere nel triennio prossimo anche la professione forense (come permesso dall’art.2, comma 1) ma bisogna cancellarli immediatamente dall’albo ove risultano iscritti; oppure nessun danno potra’ derivare a nessuno (sotto il profilo della violazione del diritto di difesa e sotto ogni altro profilo) dal fatto che si consenta anche l’esercizio dell’avvocatura, nel prossimo triennio, agli impiegati pubblici in part time gia’ iscritti all’albo, e allora nulla giustifica la reintroduzione dell’incompatibilita’ come regola e, tantomeno, nulla giustifica una limitazione ai soli prossimi tre anni della possibilita’ di esercitare la professione in costanza del rapporto di impiego pubblico per chi e’ gia’ iscritto all’albo ex l. 662/96.
Mi sia consentita una provocazione (ma non e’ detto che restera’ tale tra tre anni): quante malefatte possono esser realizzate nei prossimi tre anni dagli avvocati dipendenti pubblici in part time ridotto?
I cittadini che subiranno danno, o che semplicemente assumeranno di averlo subito, a causa di imperizia professionale, per essersi affidati a questi “avvocati a mezzo servizio” come taluno ha osato definirli (e che dire della faccia tosta di chi oso’ definirli professionisti dalla competenza e moralita’ dimezzate, sottacendo che, mentre vi sono stati esempi di ministri-avvocati accusati di gravi reati, nessun procedimento, nemmeno di natura soltanto disciplinare a carico di “avvocato part time”, e’ stato prospettato a prova della necessita’ di reintrodurre l’incompatibilita’!), potranno esser risarciti dallo Stato per aver esso consapevolmente introdotto nell’ordinamento una “legge trappola” per chi nei prossimi tre anni, avendo bisogno di un avvocato, si sara’ rivolto ad un avvocato che sia anche dipendente pubblico a tempo parziale ridotto?
E’ evidente una ILLOGICITA’ GIURIDICA quantomeno di gravita’ pari a quella rilevata dal Presidente della Repubblica nell’esercitare il potere di rinvio alle Camere, in data  29 marzo 2002, nei confronti della legge di conversione, con modificazioni, del decreto legge 25 gennaio 2002, n. 4, recante “Disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l’agricoltura”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 23 del 28 gennaio 2002.


IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA E’ ORAMAI COSTITUZIONALIZZATO, AL PARI DEL DIRITTO AL LAVORO, ALLA REALIZZAZIONE DELLA PERSONALITA’, ALL’EGUAGLIANZA, ALLA DIFESA IN GIUDIZIO, ALL’IMPRESA, ALL’ESERCIZIO DI UNA ATTIVITA’ PROFESSIONALE A SEGUITO DEL SUPERAMENTO (OVE RICHIESTO) DI UN ESAME DI STATO, ECC…..
La naturale concorrenzialita’ del “mercato del servizio professionale di avvocato”, per usare la terminologia della Corte di Giustizia, non rileva solo in relazione all’evidentemente irragionevole uso della discrezionalita’ legislativa, con conseguente disparita’ di trattamento ex art. 3 della Costituzione; rileva anche in relazione all’art. 117 della Costituzione.
Il nuovo testo di tale articolo ha ormai “costituzionalizzato” il principio di concorrenza, che, come sopra accennato, puo’ esser solo regolamentato, ma non anche violentato, da una legge ordinaria. Percio’ sarebbe incostituzionale l’eventuale “legge Bonito” che, in totale, e direi provocatoria, incoerenza con la complessiva disciplina delle incompatibilita’ per l’esercizio della professione di avvocato, abolisce senza motivo alcuno il diritto dei dipendenti pubblici in part time ridotto, costituzionalmente garantito, di accedere ad un settore del mercato del lavoro che e’ naturalmente concorrenziale.
La “legge Bonito” sarebbe inoltre incostituzionale perche’ limita temporalmente il diritto a svolgere la professione ad un triennio, senza che cio’ sia strettamente necessario per la tutela di un bene giuridico che, pur se legittimamente perseguibile, puo’ ben essere perseguito con norme meglio proporzionate allo scopo. Non si possono infatti perseguitare cittadini che hanno riorganizzato la loro vita nel rispetto pieno della legge e che sono ormai titolari di diritti quesiti che devono essere tutelati adeguatamente (almeno prevedendo un “ruolo ad esaurimento” di avvocati): non si puo’ loro imporre una ipocrita opzione tra il cancellarsi dall’albo degli avvocati o l’esserne cacciati, dopo aver svolto la professione in maniera irreprensibile per 8 anni! La violazione dell’art. 2 della Costituzione e dei diritti dell’uomo e’ palese!
Sulla mancanza di ogni necessita’ di introdurre un regime di incompatibilita’ che fa eccezione, per la sola professione forense, alla regola generale della compatibilita’ tra libera professione e impiego pubblico in part time ridotto, e’ condivisibile quanto affermo’ la Commissione Affari Costituzionali della Camera nell’esaminare la c.d. “proposta Parrelli”, atto Camera 3274 –di cui la “proposta Bonito”, nella sua originaria formulazione, e’ stata riproduzione letterale-, presentata nel corso della precedente legislatura. La Commissione Affari Costituzionali della Camera rilevo’ che la condizione di dipendenza del difensore dovrebbe valere non come preclusione dell’iscrizione all’albo degli avvocati ma come causa di incompatibilita’ in relazione a singoli affari che si presentino all’avvocato, per motivi di deontologia professionale o per conflitto di interessi.
Che non sia necessario il sacrificio del diritto al lavoro (nella specie del lavoro professionale di avvocato da svolgere unitamente a quello di dipendente pubblico) e’ poi evidente per il fatto che, come sopra chiarito, e’ la stessa legge che vorrebbe reintrodurre -quale regola generale- l’incompatibilita’ ad ammettere che la compatibilita’ sia possibile per tre anni, per i dipendenti pubblici iscritti all’albo degli avvocati ai sensi della legge n. 662/96, art. 1, commi 56 e seguenti.

LA CARENZA DI COPERTURA FINANZIARIA DELLA PROPOSTA DI LEGGE AC 543-B.
Ulteriore evidente vizio della “proposta Bonito” e’ la totale carenza di copertura finanziaria. Infatti, che dall’approvazione di tale legge deriverebbe una sicura maggiore spesa e un sicuro minor risparmio di denaro pubblico risulta gia’ da quanto ebbe a dire il primo firmatario e relatore nella seduta del 13 settembre 2001 della Commissione Giustizia della Camera, allorche’ dopo aver dichiarato di non ravvisare elementi di interesse corporativo nella proposta di legge, ricordo’: “essa riguarda diverse migliaia di pubblici dipendenti. L’opzione da parte di questi ultimi e’ destinata a creare problemi per la pubblica amministrazione, in quanto prevedibilmente la maggior parte di essi tornera’ al rapporto di lavoro a tempo pieno. Occorrera’ dunque valutare gli effetti di questo passaggio anche sotto il profilo del trattamento previdenziale e pensionistico, considerando nella disciplina transitoria anche i contributi versati volontariamente all’ordine degli avvocati. Conformemente a quanto emerso dal dibattito, appare dunque opportuno un passaggio graduale alla nuova normativa attraverso l’entrata in vigore di una disciplina transitoria” (vedi, nel sito della Camera, il resoconto della seduta della Commissione Giustizia della Camera del 13/9/2001). 
E’ evidente che il Parlamento non ha valutato i rilevantissimi effetti economici della “proposta Bonito” sulle finanze pubbliche, sia mancati risparmi che aumenti di spesa. Ma si consideri:
a) E’ lo stesso relatore ad affermare che la proposta riguarda diverse migliaia di pubblici dipendenti. E’ sicuro che dall’approvazione del “progetto Bonito” deriverebbero maggiori spese, e inoltre mancati risparmi di assoluta rilevanza a causa della preclusione legislativa della prevista (nei documenti programmatici di finanza pubblica) diffusione del part time tra i pubblici dipendenti, i quali in gran numero sarebbero invece intenzionati ad accedere finalmente, dopo la sent. 189/2001 della Corte Costituzionale, all’albo degli avvocati;
b) Le vere dimensioni del fenomeno degli impiegati pubblici in part time ridotto che, essendo stati regolarmente iscritti all’albo degli avvocati, esercitano, gia’ oggi, la professione di avvocato, sono state sottostimate dal Parlamento. SECONDO QUANTO SI LEGGE NEI RESOCONTI DELLE SEDUTE DELLE COMMISSIONI CHE, NEI DUE RAMI DEL PARLAMENTO, HANNO ESAMINATO LA PROPOSTA AC 543 -al Senato numerata 762- (E CIOE’ GIUSTIZIA, AFFARI COSTITUZIONALI, LAVORO E BILANCIO), PRIMA DI PERVENIRE ALLA DECISIONE ASSUNTA DALLE COMMISSIONI  NEPPURE SI SONO ACQUISITI DATI CERTI, CHE IL MINISTERO DELLA FUNZIONE PUBBLICA AVREBBE POTUTO FORNIRE, CIRCA IL NUMERO DEI DIPENDENTI PUBBLICI CHE HANNO DICHIARATO, ALL’ATTO DELLA TRASFORMAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO DA TEMPO PIENO A TEMPO PARZIALE (E, SI BADI, TUTTI HANNO DOVUTO FARE UNA TALE DICHIARAZIONE PER POTER ISCRIVERSI LEGITTIMAMENTE ALL’ALBO DEGLI AVVOCATI) CHE AVREBBERO SVOLTO LA PROFESSIONE LEGALE.
SI E’ PERCIO’ GIUNTI ALLA APPROVAZIONE NELLE COMMISSIONI SENZA CONOSCERE UN DATO FONDAMENTALE RIGUARDANTE IL NUMERO PRECISO DEI SOGGETTI INTERESSATI DALLA DISCIPLINA TRANSITORIA CHE SI ANDAVA AD APPROVARE E, ANCOR PEGGIO, SENZA CONOSCERE UN DATO FONDAMENTALE PER QUANTIFICARE LA NECESSARIA COPERTURA FINANZIARIA.
Le Commissioni parlamentari hanno errato nel ritenere verosimile la quantificazione prospettata dal Consiglio Nazionale Forense (soggetto non certo super partes nella vicenda, almeno per aver suscitato l’esame della Corte costituzionale sull’art. 1, co 56 e ss, l. 662/96, quale giudice speciale dei ricorsi avverso le denegate iscrizioni da parte dei Consigli dell’Ordine “territoriali”) il quale ha indicato in 150 il numero dei dipendenti pubblici in part time ridotto che hanno chiesto l’iscrizione all’albo. Il Consiglio Nazionale Forense non puo’ essere in grado di indicare il numero dei dipendenti pubblici in part time che hanno chiesto e/o ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati usufruendo dell’art. 1, commi 56 e ss della l. 662/96; e cio’  per la semplice ragione che l’art. 35, comma 2, del R.D. 22/1/37 fissa il contenuto della domanda di iscrizione al detto albo senza richiedere, all’istante, quanto alle cause di incompatibilita’, null’altro che una dichiarazione, sul proprio onore, di assenza di dette cause di incompatibilita’. Difatti dopo l’entrata in vigore della l. 662/96 (la quale, abrogando, per il dipendente pubblico a tempo parziale ridotto, l’incompatibilita’ previgente, ha modificato l’oggetto stesso della predetta dichiarazione sul proprio onore) l’art. 35, comma 2, del R.D. 22/1/37 ha consentito a moltissimi dipendenti pubblici in part time di iscriversi legittimamente all’albo senza palesare il proprio rapporto di impiego pubblico (non piu’, appunto, causa di incompatibilita’). Quindi, dalla eventuale approvazione della “proposta Bonito” deriverebbero aumenti di spesa, per gli enti pubblici datori di lavoro, molto superiori a quelli previsti, a causa della sicura opzione per il ritorno al tempo pieno di un numero di impiegati molto piu’ alto di quello dichiarato dal Consiglio Nazionale Forense. Ne deriverebbero anche mancati (e gia’ previsti) risparmi, perche’ sicuramente si interromperebbe la “virtuosa” diffusione del part time nel pubblico impiego.
Si rammenta che l’art. 1, comma 59, della l. 662/96 prevede: “I risparmi di spesa derivanti dalla trasformazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni da tempo pieno a tempo parziale costituiscono per il 30 per cento economie di bilancio. Una quota pari al 50 per cento dei predetti risparmi puo’ essere utilizzata per incentivare la mobilita’ del personale delle pubbliche amministrazioni, ovvero, esperite inutilmente le procedure per la mobilita’, per nuove assunzioni, anche in deroga alle disposizioni dei commi da 45 a 55. L’ulteriore quota del 20 per cento e’ destinata, secondo le modalita’ ed i criteri stabiliti dalla contrattazione decentrata, al miglioramento della produttivita’ individuale e collettiva. I risparmi eventualmente non utilizzati per le predette finalita’ costituiscono ulteriori economie di bilancio”. Quindi dalla eventuale promulgazione della “legge Bonito” deriverebbero: 1) aumenti di spesa, per i ritorni al tempo pieno, e mancati risparmi, per il blocco delle trasformazioni dei rapporti da tempo pieno a tempo parziale ridotto; 2) mancata incentivazione della mobilita’ del personale delle pubbliche amministrazioni; 3) mancate nuove assunzioni di personale; 4) mancato miglioramento della produttivita’ individuale e collettiva; 5) mancate ulteriori economie di bilancio. In nessuna considerazione il Parlamento ha tenuto tutto cio’! E’ evidente la violazione dell’art. 81 della Costituzione.

IL PART TIME: RISORSA DISINCENTIVATA.
Si legge nel “libro bianco” sul lavoro del prof. Marco Biagi, II.3.2 Part-time: “E’ bene ricordare come questa tipologia contrattuale, largamente valorizzata negli ordinamenti comunitari, pure conoscendo negli ultimi tempi un netto incremento, viene ancora utilizzata in una misura ridotta rispetto agli altri paesi comunitari. In Europa usano il part time meno di noi solo Spagna e Grecia…….L’esperienza comparata e’ assai significativa quanto soprattutto alle tecniche incentivanti utilizzate per incoraggiare la stipulazione di contratti a tempo parziale. La Francia, al pari dell’Italia rappresenta un caso dove gli incentivi di natura contributiva sono vanificati nella loro finalita’ promozionale a causa di una disciplina legislativa e regolamentare del tutto disincentivante.……In Italia l’attuazione della direttiva europea 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale ad opera dei decreti legislativi 61/2000 e 100/2001 costituisce ad avviso del Governo un esempio di trasposizione non rispettosa della volonta’ delle parti sociali a livello comunitario, confermata dalla suddetta direttiva. Mentre, infatti, la direttiva stessa invita gli Stati membri a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla piena utilizzazione di questa tipologia contrattuale in una logica di promozione dell’occupazione, i decreti emanati nel corso della passata legislatura introducono nuovi vincoli e pertanto tradiscono l’intento promozionale del legislatore comunitario.”
La privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico ha comportato l’applicazione del d.lgs. 61/2000 anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche (“Ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29,…” dispone l’art. 10 del d. lgs. 61/2000). Con cio’ si e’ operato un chiaro riconoscimento della vincolativita’ della direttiva 97/81/CE anche nei confronti dei rapporti di impiego pubblico. La “legge Bonito” sarebbe un chiaro vulnus alla direttiva 97/81/CE; sarebbe, per usare le parole del libro bianco sul lavoro, un tradimento dell’intento promozionale del legislatore comunitario; un tradimento ben piu’ grave di quello evidenziato dal prof. Biagi ad opera del d. lgs. 61/2000, e, pertanto, sicuramente censurabile dai giudici italiani e comunitari. 
Da una ricerca realizzata dall’ARAN sulla diffusione di forme contrattuali non standard nel pubblico impiego risulta che il numero dei dipendenti part time e’ in progressiva crescita: pur essendo stati nel 1997 poco piu’ di 35 mila, sono risultati pero’ triplicati l’anno dopo e con un trend analogo per il 2000. La “legge Bonito” bloccherebbe tale positiva tendenza.
E’ pertanto auspicabile che anche i sindacati e l’ARAN, impegnati ormai nel rinnovo del contratto dei pubblici dipendenti, intervengano a suggerire la via al legislatore, scongiurando l’approvazione di una leggina che va sicuramente contro la “flessibilita’” nel pubblico impiego che tanto sembra cara al Ministro Frattini e che dovrebbe esser cara anche ai sindacati, quando, come nel caso del part time, e’ flessibilita’ domandata dal lavoratore.
Su “il sole 24 ore”del 9/8/02 si legge che il Ministro della Funzione Pubblica, in una direttiva inviata all’ARAN, avrebbe dato indicazione di inserire nel nuovo contratto l’avviso comune sui contratti a termine raggiunto nel 2001da Governo e parti sociali –ad esclusione della CGIL- e poi recepito nel decreto 368/2001. Si legge inoltre della contrarieta’ della CGIL, “non disponibile a nessun fenomeno di precarizzazione”. E allora, dico io, si batta, anche nel pubblico impiego, la strada della flessibilita’ condivisa e del part time! Il Ministro Frattini sembra proprio d’accordo, visto che in un’intervista pubblicata su “il sole 24 ore” dell’11/7/02, al giornalista che chiedeva “Il Dpef prevede anche un maggiore ricorso al part time e a forme interinali per gli statali. Dopo la sigla del “Patto”, la flessibilita’ sta per approdare anche nel pubblico impiego?”,  risponde: “Nel Dpef la flessibilita’ e’ un obiettivo importante. Occorre innanzitutto evitare che il pubblico impiego resti paradossalmente indietro rispetto a quello che si sta facendo nel mercato del lavoro privato. Nel “Patto” non abbiamo esplicitamente richiamato le regole per il lavoro pubblico ma un accenno c’e’”. 

L’ART. 24 DELLA COSTITUZIONE: ARGOMENTO SBANDIERATO A SPROPOSITO.
Il principale, ancorche’ singolare, argomento dei fautori dell’incompatibilita’ e’ la pretesa che il divieto di iscrizione all’albo degli avvocati avrebbe dignita’ costituzionale perche’, a differenza che per ogni altra professione, l’oggetto dell’attivita’ forense, e cioe’ il diritto di difesa, godrebbe dell’esplicita previsione dell’art. 24 della Costituzione.
E’ importante in proposito il rilievo che altro e’ parlare di diritto di difesa ed altro di diritto dei difensori professionali. Non si puo’ confondere la garanzia di un diritto con quella dell’esercizio di attivita’ professionali nel settore, quasi che il diritto appartenesse agli avvocati, che ne sono invece strumento, ancorche’, forse, il piu’ importante. Quando il costituente ha voluto garantire uno strumento per l’esercizio di un’attivita’, come quella giurisdizionale, ha reso oggetto del suo impegno proprio lo strumento, come ha fatto con le norme sulla magistratura (art. 101-113 Cost.) –peraltro consistenti anche in una serie di garanzie di apertura all’esterno per assicurarne il legame ed impedirne il distacco dalle altre istituzioni- o sulla Corte costituzionale (art. 134-137 Cost.). Voglio sottolineare che l’eventuale “legge Bonito” limiterebbe la concorrenza nell’offerta del “servizio professionale di avvocato”, per una eccessiva attenzione ad una inesistente minaccia al mitizzato bene dell’autonomia e indipendenza del difensore, senza peraltro realizzare alcuna pubblica utilita’ e mantenendo la classe forense “al riparo” da un salutare incremento di concorrenzialita’, con vera e grave limitazione del diritto di difesa. Percio’, ad essere censurabile per violazione del diritto di difesa –sotto il profilo della ingiustificata riduzione delle opportunita’ di scelta del professionista cui rivolgersi per la propria difesa tecnica- sarebbe l’eventuale “legge Bonito”.
Inoltre, che l’avvocato non sia l’unico libero professionista di cui e’ necessario garantire l’indipendenza al fine della realizzazione del diritto di difesa, e che pertanto non si possa, comunque, pensare di limitare alla sola professione di avvocato la reintroduzione dell’incompatibilita’ col pubblico impiego in part time ridotto, era gia’ apparso chiaro, nella precedente legislatura, alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, la quale, sulla “proposta Parrelli” (atto Camera 3274, presentato il 25/2/97 e di contenuto identico alla originaria formulazione della “proposta Bonito”) affermo’: “si rilevano serie perplessita’ circa la costituzionalita’ della disposizione in esame con riguardo al principio di eguaglianza, perche’ anche nell’ambito della difesa giudiziale possono interferire altre categorie di professionisti (ingegneri, architetti, geometri, periti agrari, ecc…per i quali invece, nella medesima condizione di dipendenza pubblica a tempo parziale, non sarebbe preclusa l’iscrizione all’albo professionale”.
Nessuno puo’ negare, infatti, che i consulenti tecnici nel processo sono soggetti importanti quanto l’avvocato per le sorti della causa e dunque dovrebbero essere sottoposti al medesimo livello di tutela dell’indipendenza, pena la violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Che poi l’art. 24 della Costituzione possa giustificare una tutela del “bene” dell’indipendenza dell’avvocato, spinta fino al punto di escludere dalla professione un soggetto perche’ astrattamente, per mera ipotizzabilita’ logica, portatore di interessi confliggenti con quello del suo cliente, e’ idea ben strana, vecchia, pericolosa e, ormai, pure in insanabile contrasto con le decisioni della Corte Costituzionale.
Gia’ la sent. 189/2001 aveva ritenuto che l’astratta minaccia all’indipendenza dell’ “avvocato part time” fosse adeguatamente contrastata dalle norme deontologiche, dalle norme penali e da limitazioni a settori professionali o a territori ove esercitare il patrocinio; aveva inoltre ritenuto che non fosse dunque proporzionata al perseguimento del pur legittimo scopo di tutelare il cliente tramite la tutela della detta indipendenza, l’incompatibilita’ “di stato” per i dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto.
Piu’ recentemente l’ordinanza 10/23 luglio 2002, n. 381, con cui la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 82, secondo e terzo comma, del c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, ha rigettato la richiesta di dichiarare incostituzionale la norma che non consente alla parte laureata in giurisprudenza di difendersi personalmente in giudizio nei casi in cui il suo interesse sia confliggente con quello di tutta la categoria degli avvocati. La Corte ha affermato che “…comunque, qualora la parte che ha bisogno dell’assistenza tecnica di un difensore ritenga di non potersi affidare al patrocinio di un iscritto all’albo territoriale dove il giudizio e’ in corso, ha la facolta’ di scegliere un difensore che proviene da un altro ordine professionale, con cio’ eliminando la possibilita’ di ogni conflitto di interessi e di sudditanza psicologica, non configurabile, quindi, rispetto all’intera categoria degli avvocati”. La Corte mostra di ritenere, e non si vede come possa sostenersi il contrario, inevitabile una manifestazione di conflitti di interessi tra singoli avvocati e singoli clienti, ma anche di ritenere necessari e sufficienti i rimedi della deontologia e, al limite, delle sanzioni penali verso l’avvocato infedele. Cio’ che deve evitarsi, secondo la Corte, e’ che i conflitti di interessi e la sudditanza psicologica siano configurabili rispetto all’intera categoria degli avvocati. Non si devono quindi far leggi liberticide per evitare pericoli immaginari per la clientela dell’avvocato: l’avvocatura e’ un servizio professionale prestato nell’ambito di un mercato naturalmente concorrenziale; non e’ una pubblica funzione!
E non ci si deve scandalizzare di questo: non si puo’ desiderare, illudendosi, di creare una avvocatura fatta di indipendentissimi avvocati (cosi’ come non si puo’ desiderare, illudendosi, di creare una avvocatura fatta di professionisti tutti in grado di tutelare il non abbiente con tale sicurezza di professionalita’ da meritare un patrocinio a spese dello Stato: vedi la ordinanza 299/2002 della Corte Costituzionale sulla legittimita’ dell’art. 17 bis della legge 217/1990 “Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti”, nella parte in cui prevede che l’imputato, istante per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, possa nominare il proprio difensore solo nell’ambito di uno speciale elenco) al servizio di tutti i potenziali clienti. Devono essere, anzi, limitatissime e proporzionate, le “barriere per incompatibilita’” all’accesso alla professione forense derivanti dall’esercizio di diritti di liberta’ del cittadino aspirante avvocato. D’altronde, come l’ordinanza 381 espressamente ricorda, “al legislatore e’ consentito subordinare l’esercizio di determinate professioni all’inserimento in un apposito albo, da compiersi dopo il superamento di un esame di abilitazione che costituisce garanzia del conseguimento di un’adeguata capacita’ tecnica”: l’art. 33, co5, della costituzione, non costituzionalizza altri limiti e percio’ sono le leggi professionali e le incompatibilita’ in esse poste (spesso a tutela delle corporazioni e non dei clienti) a dover essere sottoposte al vaglio di costituzionalita’ in riferimento all’art. 33, co 5, e agli artt. 3 e 117 della Costituzione (sotto il profilo della ragionevolezza e proporzione dei limiti ai diritti di liberta’ e al diritto, anche del cliente, alla libera concorrenza).
Si dovra’ aprire una nuova stagione di liberalizzazione attraverso la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, o il legislatore sapra’ seguire la storia?
Non e’, comunque, condivisibile la proposta del comitato unitario delle professioni di devolvere agli ordini poteri normativi, nei settori di loro interesse, tanto ampi da comprendere anche la materia dei requisiti e delle condizioni per l’iscrizione all’albo: bisogna invece sottoporre a vaglio di costituzionalita’ le leggi professionali esistenti, o farne di nuove piu’ aperte alla concorrenza.

L’ASSURDA DISCRIMINAZIONE DEI CITTADINI ITALIANI.
Si e’ sopra riportato il punto 10 della sentenza n. 189/2001 della Corte Costituzionale. Rammento che, al punto 10, in fine, la Corte precisa che i piu’ recenti interventi del legislatore, e soprattutto il d. lgs. 2/2/2001 n. 96, sono volti a facilitare l’esercizio permanente dell’attivita’ forense da parte degli avvocati cittadini di uno Stato membro dell’Unione Europea. Cio’ fa per evidenziare la necessita’ di non porre in essere norme di legge irrispettose della naturale concorrenzialita’ del “mercato del servizio professionale di avvocato”. Ne deriva che la eventuale “legge Bonito” sarebbe incostituzionale ed inoltre violerebbe l’art. 6 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 12 CE) che, quale espressione del principio generale di uguaglianza, vieta ogni discriminazione basata sulla cittadinanza. La “legge Bonito” discriminerebbe i cittadini italiani rispetto agli altri cittadini comunitari i cui Stati di appartenenza prevedono nell’ordinamento giuridico interno quanto la stessa Corte Costituzionale asserisce esser naturale: consentire l’accesso alla professione a soggetti abilitati, in un settore concorrenziale.
Preciso, con riguardo al rilievo della Corte Costituzionale circa il decreto legislativo 2 febbraio 2001, che e’ possibile, per i cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, che non incontrino nella loro legislazione nazionale il limite della incompatibilita’ tra avvocatura e impiego pubblico, o privato, esercitare la professione di avvocato in Italia. A fronte di tale prospettiva la “proposta Bonito” appare ancor piu’ ingiustificatamente penalizzante nei confronti dei dipendenti pubblici italiani in part time ridotto, in quanto limitativa, solo nei loro confronti, delle possibilita’ di accesso alla professione di avvocato nel loro stesso paese.


L’ECCESSO DI POTERE LEGISLATIVO.
Quanto ai sopra prospettati vizi di legittimita’ costituzionale, merita un qualche approfondimento l’eccesso di potere legislativo. E’ evidente che la eventuale legge Bonito sarebbe viziata da eccesso di potere legislativo, vizio di incostituzionalita’ riconosciuto per lo “sviamento strumentale della funzione legislativa” (sentenza Corte Costituzionale 10/12/1981, n. 187) che la Consulta riconosce sussistente allorquando “l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, appalesandosi in concreto come frutto di un uso distorto della discrezionalita’ che attinga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi come figura sintomatica di eccesso di potere, e dunque di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa” (sentenza Corte Costituzionale 12/7/1995, n. 313). Il vizio ricorre quando “gli organi legislativi si siano serviti della legge per realizzare una finalita’ diversa da quella additata dalla norma costituzionale” (sentenze Corte costituzionale 14/1964; 53/1974. In dottrina, per tutti: Martines; Zagrebelsky). Oltre che per i motivi prospettati nelle pagine precedenti, che dimostrano l’assenza di ogni possibile giustificazione sistematica e costituzionale della “proposta Bonito”, la legge dello Stato che ne derivasse sarebbe caso esemplare di sviamento strumentale della funzione legislativa anche perche’ oggettivamente funzionale ad un obiettivo del tutto diverso dalla asserita necessita’ di dare adeguata attuazione all’art. 24 della Costituzione. Infatti l’eventuale “legge Bonito” sarebbe oggettivamente funzionale ad un crudele, quanto inefficace, tentativo di “risoluzione” del “problema” che deriva alla corporazione degli avvocati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 189/2001, e cioe’ di “quell’anomalia tutta italiana del numero spropositato di avvocati” (per usare le parole adoperate dal Procuratore generale della Cassazione Francesco Favara –non certo per stimolare chiusure corporative- in occasione di un convegno organizzato dal centro per la riforma dello Stato, coordinato da Carlo Taormina -vedi il sole 24 ore del 15/6/2002-, avvocato gia’ noto ma divenuto famosissimo quale “sottosegretario di Stato all’interno che, in costanza della funzione di governo, ha svolto la difesa professionale di pericolosi e noti esponenti della criminalita’ organizzata, di imputati di corruzione ai danni dello Stato, nell’ambito di processi nei quali lo Stato risulta costituito parte civile” -le parole in corsivo si leggono nella premessa alla proposta di legge AC 1866, anch’essa, stranamente, a firma dell’On. Bonito, ma, altrettanto stranamente, mai messa all’ordine del giorno della Commissione Giustizia-).
Sono dati oggettivi che testimoniano dell’eccesso di potere legislativo anche:
1) la coincidenza temporale tra la presentazione della proposta di legge AC 543 e la decisione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 189/2001;

2) la totale mancanza di esame, nel corso dell’iter parlamentare del “progetto Bonito” AC 543, delle argomentazioni della detta sentenza n. 189/2001;
3) la totale mancanza di esame, nel corso dell’iter parlamentare del progetto Bonito AC 543, della segnalazione dell’Antitrust del 12 dicembre 2001, istituzionalmente diretta proprio al Parlamento, oltre che al Governo;
4) la previsione dell’entrata in vigore della “legge Bonito” il giorno successivo a quello della sua pubblicazione, senza lasciare che operi, come normalmente accade, la vacatio legis.     
“In Parlamento esiste una lobby degli avvocati che spesso tende a bloccare le riforme”, e ancora, “Purtroppo il problema della lobby degli avvocati in Parlamento esiste”, una lobby “forte e trasversale” che agisce per bloccare le riforme sulla giustizia  “perche’ porterebbero a una diminuzione dei loro interessi. Ve ne sono alcuni che vogliono difendere il loro status”. Cosi’ avrebbe parlato il ministro della giustizia  -vedi il sole 24 ore del 27/6/02- . Che abbia ragione?

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