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Spam: Legittimità delle blacklist ed intromissione nella corrispondenza privata.

21 Maggio 2003 Commenta

Il fenomeno dello spamming e il conseguente uso “schizofrenico” delle c.d. blacklists rende la vita difficile a tutti i navigatori. Sembra paradossale, ma oggi non e’ cosi’ facile scambiarsi tranquillamente lettere di posta elettronica.

Il paradosso sta nella circostanza che, alle soglie dell’uso generalizzato di strumenti di connettivita’ senza fili come il Wi-Fi e, piu’ in generale, di un utilizzo quotidiano di Internet, non sia possibile scambiarsi qualche semplice e-mail.
Il motivo fondamentale di tutto cio’ risiede nel fenomeno di malcostume chiamato spamming. E’ proprio per combattere questo “invisibile” nemico che si fa ricorso alle c.d. blacklists ovvero le liste di quegli indirizzi di posta da cui si genera lo spam. Queste liste sono aggiornate da diversi utenti della rete e sono utilizzate da molti mail server, che cosi’ filtrano “a monte” le e-mail spazzatura.
Pur essendo (in teoria) molto valido come strumento antispam, l’uso delle blacklists ha un temibilissimo risvolto negativo: le liste sono create da soggetti a cio’ non autorizzati ne’ per qualita’ istituzionali ne’ per altri requisiti. Puo’ dunque capitare (ed e’ successo) che vengano inserite in quelle blacklists indirizzi di posta appartenenti a grandi ISP e che si generi di conseguenza il blocco delle comunicazioni fra svariati utenti della rete.
E’ pertanto un fenomeno di natura prettamente commerciale, mediante il quale alcuni soggetti muovono nascostamente le fila dell’economia internettiana, ovviamente senza alcun tipo di controllo istituzionale. Ma il fatto che indispettisce ancor di piu’ i navigatori e’ che molto spesso sono inclusi in queste liste anche soggetti del tutto estranei agli spammers.
Dunque, anche solo per qualche casualita’, si rischia di rendere impossibile la lecita fruizione della propria posta elettronica, pur non essendo spammers! Insomma tutti gli utenti legittimi utilizzatori di Internet non solo devono fronteggiare irritanti problemi con lo spam, ma devono anche subire forti limitazioni al proprio “diritto alla e-mail” a causa di onnivore blacklists (ingestibili neppure dai grandi esperti della rete).
Purtroppo sia gli appassionati sostenitori delle liste nere sia gli invisibili spammers non trovano ancora a livello internazionale una adeguata disciplina. Mentre (una volta tanto!) in Italia ci siamo dotati molto tempo fa di norme applicabili anche al fenomeno virtuale dello spamming (si veda la l. 675/96), nelle altre parti del mondo questa disciplina non e’ stata seguita.
La resistenza piu’ forte e’ quella americana.

Li’ vige il principio (sancito dal primo emendamento) del free speech, ovvero liberta’ di parola.
Anche se questo principio e’ codificato in molte Costituzioni mondiali (come d’altronde in Italia), la forza di questo diritto e’ talmente penetrante negli USA da far considerare ai commentatori lo spam come una sua esemplificazione (e piu’ avanti si analizzera’ in concreto un episodio a tema).



L’episodio cui si fa riferimento e’ relativo a un articolo (di Patti Waldmeir) apparso sul Financial Times di alcuni giorni fa in cui viene posto il seguente quesito: puo’ un utente della rete essere costretto a non esprimere il proprio parere su Internet? No, per il primo emendamento alla Costituzione americana.
Se questo utente e’ uno spammer gli si puo’ impedire di utilizzare la posta elettronica per dirci quale sia il miglior prezzo per un toner della stampante? No, perche’ esiste il right to freee speech! Quindi – ritiene l’autrice dell’articolo – anche se si redigesse una legge antispam, questa sarebbe fortemente anticostituzionale.
Di fronte a questo sconfortante paradosso, l’autrice reputa piu’ opportuno potersi affidare, in ultima istanza, a un mix fra tecnologia (che possa limitare al massimo l’intrusione di spam nelle nostre caselle di posta) e una legislazione (pur se imperfetta).
La critica fondamentale che si puo’ muovere a questo genere di considerazioni sta nel considerare – quello degli spammers – esercizio del free speech. Bisogna distinguere, infatti, (per porre fine al fenomeno) fra libera manifestazione del proprio pensiero, la quale e’ libera, e mera attivita’ promozionale, la quale deve essere sottoposta ad adeguati vincoli legislativi.
L’esigenza primaria e’ dunque quella di distinguere fra spam e tutto quello che non lo e’: lettere fra privati, lettere di informazione pubblicitaria a cui si e’ consentito l’invio per e-mail, etc.


Seguendo questo discrimine (che e’ poi quello individuato dalla nostra l. 675/96) si puo’ differenziare quindi anche fra mero assalto pubblicitario non richiesto e informazioni promozionali cui abbiamo acconsentito, cioe’ fra messaggi dal contenuto simile se non uguale, ma che pervengono al destinatario secondo un differente schema (illegittimo il primo, legittimo il secondo).

Se questi sono i presupposti e’ giocoforza necessario ritenere la assoluta infondatezza di qualunque attivita’ non autorizzata di blacklisting. Essa porta, infatti, a oscurare anche quelle e-mail con cui si esercita legittimamente il free speech e cio’ costituisce violazione di un principio sancito nella maggior parte delle Costituzioni del mondo (come anticipato supra).

Come si vede, risulta ancora difficile trovare un equilibrio fra il diritto a manifestare il proprio (pensiero tramite posta elettronica) e la diffusione di e-mail commerciali.
Ben vengano, dunque, nuovi progetti legislativi che, come in Italia, basano la propria disciplina sul consenso dell’utente finale.
Proprio a questo proposito si segnala che in Australia e’ al vaglio del Governo un progetto di legge antispam, che proibisce l’invio di messaggi senza il preventivo consenso del destinatario.

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