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Marchi, nomi a dominio e concorrenza sleale

28 Settembre 2004 Commenta

I tribunali italiani si occupano sempre piu’ frequentemente di controversie in tema di nomi a dominio. La maggior parte delle dispute si svolge tra titolari di marchi registrati , spesso di grande notorieta’, e persone o ditte meno note che piu’ tempestivamente provvedono alla registrazione del nome a dominio corrispondente al celebre marchio.
Da qui la disputa e le ovvie accuse che le major di turno indirizzano ai celebri sconosciuti, rei di cyber squatting, domain grabbing etc. 
I legali delle major contestano, in attesa di espresse disposizioni di legge che disciplinino sistematicamente e definitivamente la natura giuridica dei nomi a dominio, la violazione delle norme poste a tutela dei marchi registrati o comunque dei segni distintivi dell’impresa, oltre che la violazione delle norme in tema di concorrenza sleale.
Non e’ intenzione dello scrivente soffermarsi in questa sede sulla oramai storica querelle sulla natura giuridica del nome a dominio (semplice indirizzo o segno distintivo dell’impresa nel cyberspazio?[1]), quanto piuttosto sulla sussistenza degli estremi della concorrenza sleale nell’opera di chi provvede alla registrazione di un nome a dominio corrispondente all’altrui marchio.


Alcune recenti pronunzie su concorrenza sleale ed internet

La registrazione su Internet come nome a dominio di un marchio protetto e l’uso di quest’ultimo all’interno di “meta tags” o di pagine “web” da parte del non titolare per uno scopo commerciale e promozionale integrano una condotta illecita che rientra nella concorrenza sleale, di cui il “provider” deve rispondere come corresponsabile, qualora esista gia’ la conoscenza dell’abuso ed il “provider” stesso non intervenga per eliminarlo[2].
L’utilizzazione di un sito Internet con una denominazione uguale a quella di un imprenditore concorrente e’ un atto di concorrenza sleale per confusione[3].
Sussiste ipotesi di concorrenza sleale tra un produttore ed un distributore del medesimo tipo di prodotto, ove l’uno registri e utilizzi su Internet il “dominio” corrispondente al nome dell’altro, ingenerando nei consumatori l’impressione dell’esistenza di uno stretto collegamento, in realta’ insussistente[4].
Configura un atto di concorrenza sleale, ai sensi della legge a tutela dei marchi, l’appropriazione di un sito internet con un nome di dominio uguale a quello di un’altra ditta concorrente che svolge la propria attivita’ in un medesimo  settore  merceologico contiguo ma distinto. Inoltre, il fatto di chiedere all’autorita’ statunitense competente la registrazione del sito  internet e il relativo collegamento, attraverso la rete telematica, non vale a far devolvere la giurisdizione su un illecito di  concorrenza sleale al giudice americano, se le imprese interessate hanno sede in Italia e i presunti comportamenti sono  stati posti in essere nel territorio italiano[5].


Il concetto di concorrenza sleale come enucleato dalla giurisprudenza e dalla dottrina

Come rilevato dalla Suprema Corte[6], la “nozione di concorrenza sleale, contenuta nella norma di cui all’art. 2598 c.c., deve essere desunta dalla ratio della norma stessa che impone alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealta’, in modo che nessuna si possa avvantaggiare nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali. Ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operano quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinata a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni”.
Secondo un orientamento giurisprudenziale[7] e dottrinale[8]  consolidati l’applicabilita’ della disciplina della concorrenza sleale richiede, poi, la sussistenza di due fondamentali presupposti soggettivi, quali:
– la qualita’ di imprenditore del soggetto attivo e passivo dell’atto;
– l’esistenza tra essi di un rapporto di concorrenza economica.
A fronte, dunque, della consapevolezza che si puo’ configurare la fattispecie della concorrenza sleale solamente quando l’atto denunciato sia soggettivamente qualificato, occorre, altresi’, focalizzare l’attenzione sul secondo dei presupposti soggettivi enunciati, ovvero sulla necessita’ che i due soggetti del rapporto di concorrenza sleale svolgano attivita’ qualificabili come “affini”, tali da poter ravvisare la sussistenza di un rapporto di concorrenza economica tra gli stessi.
Quest’ultimo presupposto viene solitamente posto in relazione con il diffuso convincimento secondo il quale il danno concorrenziale si concreterebbe, di regola, in uno sviamento della clientela, configurabile esclusivamente in presenza di una comunanza, effettiva o quantomeno potenziale, di clientela e, pertanto, di un’effettiva o potenziale relazione concorrenziale fra i soggetti interessati e coinvolti.


Conclusioni

Alcune delle citate pronunzie giurisprudenziali in tema di nomi a dominio e concorrenza sleale hanno riconosciuto la sussistenza dell’illecito concorrenziale per la semplice appropriazione dell’altrui marchio, indipendentemente poi dalla sussistenza dei requisiti che, per elaborazione giurisprudenziale e dottrinale consolidate, debbono sussistere per il riconoscimento di un’effettiva concorrenza sleale.
E’ mia opinione, invece, che la registrazione di un nome a dominio identico ad altrui segno distintivo non integri di per se’ solo gli estremi della concorrenza sleale.


[1] Nomi a dominio e patronimici (pubblicato su Ciberspazio e Diritto 2004, vol. 5, n. 2, pp. 107 – 114);
[2] Tribunale Napoli, 28 dicembre 2001, in Dir. informatica 2002, 94 nota (SAMMARCO);
[3] Tribunale Roma, 23 agosto 2000, in Gius 2000, 2646, Giur. romana 2000,  348);
[4] Tribunale Crema, 28 luglio 2000, in Giur. merito  2002, 47
[5] (Tribunale Lecco, 31 maggio 2000, in Giust. civ. 2001, I,1101 nota (SEBASTIO), Gius 2001, 247)
[6] (Cass. Civ., sez. I, 4 luglio 1985, n. 4029, in Giur. it., 1986, I, 1, 1702)
[7] (Cass. Civ., 14 dicembre 1973, in Mass. Foro It., 1973, n. 3400; Cass. Civ. ,17 maggio 1966, in Giur. It., 1966, I, I, 1086; Cass. Civ., 21 febbraio 1958, in Foro It., 1958, I, I, 1284; Cass. Civ., sez. I, 21 ottobre 1988, n. 5716, in Foro It., 1989, I, 764; Cass. Civ., sez. I, 21 ottobre 1988, n. 5716, in Foro. It., 1989, I, 764; Trib. Udine, 23 febbraio 1998, in Resp. Civ. e prev., 1998, 1500; Corte d’Appello di Bologna, 20 aprile 1996, in Giur. It., 1997, I, 2,27; Pretura di Verona, 13 novembre 1991, in Foro It., 1992, I, 2863; Tribunale di Macerata, 25 maggio 1985, in Informazione previd., 1986, 738; Tribunale di Agrigento, 27 dicembre 2000, in Riv. Dir. ind., 2001, II, 480; Tribunale di Napoli, 10 febbraio 2000, in Dir. industriale, 2000, 348; Tribunale di Udine, 23 febbraio 1998, in Resp. Civ. e prev., 1998, 1500; Corte d’Appello di Milano, 16 gennaio 1998, in Giur. annotata dir. ind., 1999, 287; Tribunale di Torino, 15 maggio 1995, in Dir. industriale, 1996, 379; Tribunale di Livorno, 27 settembre 1993, in Riv. Dir. ind., 1996, II, 341; Tribunale di Bari, 15 luglio 1993, in Riv. dir. comm., 1994, II, 87)
[8] (AULETTA, MANGINI, Della disciplina della concorrenza, in Commentario del codice civile, (a cura di) SCIALOJA, BRANCA, Zanichelli, 1987, 216; SGROI, Nuova rassegna di giurisprudenza sul codice civile, Giuffre’, 1998, 991; G. GHIDINI, Della concorrenza sleale (artt. 2598-2601), in Il codice civile, Commentario, (a cura di) SCHLESINGER, Giuffre’, 1991, 53 e ss.)

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