La sanzione penale per il peer to peer: un errore
Con una lettera inviata al Presidente della Commissione Interministeriale sui Contenuti Digitali presso il Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie, a seguito dell’audizione tenutasi presso lo stesso Ministero il 28 Ottobre scorso, il Presidente di Assoprovider, Matteo Fici, esprime le considerazioni che seguono relative alla tutela dei contenuti nell’era di Internet.
La sanzione penale per il peer to peer: un errore.
L’Associazione ASSOPROVIDER intende fare alcune considerazioni sul disposto normativo della cd Legge Urbani e su alcune prospettive di miglioramento.
La previsione di una sanzione penale, scaturita dalla versione definitiva dell’originario decreto, induce alcune riflessioni di politica criminale: le recenti norme a tutela della proprieta’ intellettuale hanno indiscriminatamente sostituito il dolo di lucro al dolo di profitto, introducendo sanzioni gravi, come la reclusione, e generando una montante preoccupazione per quelle condotte non dirette a ritrarre un vantaggio economico-patrimoniale e che siano tuttavia idonee a procurare un beneficio indiretto in grado di far scattare la sanzione penale.
Quale sia la ratio legis di fondo della normativa lo si comprende dalla stessa collocazione del nuovo divieto a carico di coloro che esercitano l’attivita’ di peer to peer illecitamente.
Analizzando il punto a bis) del nuovo comma 2 dell’ art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, ci si accorge che la condotta illecita di chi “comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa†e’ stata inserita espressamente in un articolo dedicato all’ attivita’ illecita pensata per chi fa commercio ( ….vende o pone altrimenti in commercio…) o, comunque, esercita l’attivita’ illecita con un fine lucrativo, come dimostrato dai punti a) e b) del medesimo articolo , precedenti rispetto alla legge Urbani.
Entrambe le norme si riferiscono a soggetti che compiono attivita’ lucrative caratterizzate o dall’organizzazione imprenditoriale o dal numero di opere poste in commercio e mal si conciliano con la responsabilita’ di chi condivide files protetti dal diritto d’autore, attivita’ che non si caratterizza, nella maggior parte di casi, da alcun fine lucrativo.
Questa collocazione e’ in grado di rivelare una verita’ nascosta, e cioe’ che, contrariamente a quanto piu’ volte pubblicamente affermato in merito alla non volonta’ di perseguire i fenomeni occasionali e “amatoriali†legati al peer to peer, il fenomeno del file sharing e’ stato trattato alla stessa stregua dell’attivita’ criminale di pirateria, in grado di rendere ad organizzazioni criminali ingenti guadagni.
E’ opportuno, a questo punto, analizzare complessivamente il risultato di questo “puzzle†normativo: il nuovo comma 2 dell’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 63, gia’ citato, afferma in proposito che: “2. E’ punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da cinque a trenta milioni di lire chiunque:a) riproduce, duplica, trasmette o diffonde abusivamente, vende o pone altrimenti in commercio, cede a qualsiasi titolo o importa abusivamente oltre cinquanta copie o esemplari di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi;
a-bis) in violazione dell’art. 16, per trarne profitto, comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa;
b) esercitando in forma imprenditoriale attivita’ di riproduzione, distribuzione, vendita o commercializzazione, importazione di opere tutelate dal diritto d’autore e da diritti connessi, si rende colpevole dei fatti previsti dal comma 1;
c) promuove o organizza le attivita’ illecite di cui al comma 1.
Dalle considerazioni che precedono, e dalla generale constatazione che la sanzione penale non sia lo strumento piu’ adeguato per risolvere i problemi relativi alla violazione dei diritti di proprieta’ intellettuale, scaturiscono le osservazioni che seguono.
ASSOPROVIDER intende rilevare come le recenti tendenze del diritto penale in Italia, diversamente da quelle di altri Stati – quali ad esempio gli Stati Uniti, ove si ritiene che lo strumento della sanzione criminale sia in grado di dissuadere i cittadini dal compiere attivita’ criminali anche di modesta entita’ e di limitato allarme sociale – vadano nella direzione di una sostituzione delle sanzioni afflittive con sanzioni accessorie, residuando le prime solo per le condotte in grado di destare un autentico allarme sociale per i reati piu’ gravi, e cio’ anche al fine , da un lato, di liberare i nostri penitenziari gia’ allo stremo e ,dall’altro,di alleggerire i nostri tribunali di centinaia di processi ( e ne e’ una testimonianza diretta l’ipotesi di riforma del Codice penale attualmente allo studio del Ministero della Giustizia).
Come e’ facilmente dimostrabile analizzando i recenti sviluppi delle operazioni antipirateria nei paesi anglosassoni – e, recentemente, sull’onda emozionale delle vicende statunitensi anche in Italia – si rischia, adottando l’opzione penale, di ingolfare le nostre forze dell’ordine e i nostri processi di centinaia e centinaia di indagini e di processi con un numero spropositato di parti.
Immaginiamo quale sia il risultato di portare a giudizio centinaia di giovani con l’imputazione di aver scambiato files protetti dal diritto d’autore.
Questa tendenza a “sparare nel mucchioâ€, nel tentativo di trovare i responsabili di fenomeni che nascono e si sviluppano nel terreno delle organizzazioni criminali, puo’ avere un senso di fronte a fenomeni di criminalita’ conclamata o di devianza sessuale tipici dei reati contro i minori a sfondo sessuale.
L’impegno delle forze dell’ordine e della magistratura si giustifica in pieno, in questi casi, con l’allarme sociale che generano questi tipi di reato e con i particolari beni oggetto della tutela penale, ma altrettanto non puo’ dirsi per la violazione della proprieta’ intellettuale che si realizzerebbe con il peer to peer, perche’, al dispendio di energie da parte dello Stato per la ricerca e repressione di tale reato, non si accompagna alcun beneficio per la collettivita’ che non sia riconducibile alla soddisfazione dei titolari dei diritti di proprieta’ intellettuale ed alla necessita’ di placare i timori di una perdita di potere di mercato.
Dunque l’uso massivo dello strumento penale, e le conseguenze in termini di pena utilizzata in funzione di deterrente, producono, nel caso di condotte sociali non caratterizzantesi per la conclamata gravita’ per la collettivita’, un appesantimento per l’intero sistema.
Queste conseguenze si possono sintetizzare in:
– maggiore impegno per le forze dell’ordine nella ricerca e repressione di reati di limitata entita’, tralasciando compiti di maggior rilevanza e allarme sociale, come i fenomeni di criminalita’ organizzata in preoccupante aumento nel nostro paese;
– conseguente maggiore carico di lavoro per la magistratura che, come vedremo in seguito, assume un ruolo determinante nella scoperta e repressione dei reati legati al peer to peer.
La diversita’ del nostro ordinamento rispetto all’ordinamento statunitense.
Giova ricordare la tradizione giuridica del nostro paese rispetto a forme di tutela adottate in paesi con sistemi giuridici diversi dal nostro.
Con il che si vuole affermare che l’introduzione, in funzione preventiva, di strumenti di “intimidazione†psicologica estranei al nostro ordinamento – come estranei sono alcuni principi della criminal law rispetto al diritto penale di matrice romanistica – risulti in alcuni casi deleterio, se non palesemente errato. Alcuni esempi varranno a chiarire meglio quanto affermato.
L’adozione nel nostro ordinamento di forme di tutela basate sugli avvertimenti al presunto reo, come ad esempio nel caso del notice ad take down ovvero in quello della costituzione di organismi misti costituiti presso le Autorita’ Amministrative (ad es. la polizia delle comunicazioni), contrasta palesemente, da un lato, con la particolare struttura dell’illecito prevista dal nostro ordinamento e, dall’altro, con il meccanismo di separazione dei poteri che fa si’ che siano diversi i ruoli, le funzioni e i poteri del cittadino, dell’organo di polizia e dell’Autorita’ giudiziaria.
Cosi’ come in virtu’ del principio di legalita’, se si introduce una norma che stabilisce una sanzione penale, non e’ possibile ignorare paternalisticamente l’illecito, da chiunque esso sia commesso, sia esso un giovane amante della musica o un incallito criminale che ritrae vantaggi economici dalla comunicazione al pubblico, poiche’ la condotta illecita fa comunque scattare, per le forze dell’ordine e per gli organi requirenti, l’obbligo di perseguire l’illecito
Cosi’ come non e’ pensabile che il Provider, o chi per lui in cio’ autorizzato da una norma evidentemente anticostituzionale, avverta, in base al principio notice and take down, lo “scambista†chiedendogli di “smettereâ€, poiche’ tale condotta configurerebbe un’ ipotesi di favoreggiamento; o, ancora, che le forze di polizie o la magistratura abdichino “temporaneamente†al loro ruolo, in attesa di un segnale di ravvedimento da parte del reo.
La stessa logica di deflazione della giustizia penale ed un uso “pacato†degli strumenti di prevenzione e repressione di tali tipi di illecito devono consigliarci un miglioramento delle previsioni relative agli strumenti di segnalazione delle condotte illecite alle Autorita’ Competenti e al ruolo che le forze dell’ordine devono avere nella repressione delle attivita’ illecite legate al peer to peer.
La legge Urbani ha introdotto una norma specifica per la segnalazione all’Autorita’ di Pubblica Sicurezza: il comma 4 dell’art 1 del decreto Urbani stabilisce infatti che†. Il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno raccoglie le segnalazioni di interesse in materia di prevenzione e repressione delle violazioni di cui alla lettera a-bis) del comma 2 dell’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, assicurando il raccordo con le Amministrazioni interessateâ€.
Occorre innanzitutto evidenziare l’atecnicita’ del linguaggio normativo utilizzato all’interno dell’articolato normativo : difatti non si comprende a chi spetti la funzione segnalatoria e che cosa debba intendersi per attivita’ segnalatoria ( possibilita’ di proporre denuncia-querela? obbligo di comunicare alle forze dell’ordine attivita’ sospette?) o, cosa ancor piu’ grave, chi sia obbligato a effettuarla (i providers o i titolari di diritti o tutti e due?).
Da un punto di vista amministrativo residuano poi dubbi sulla funzione assegnata al Dipartimento di Pubblica Sicurezza: la norma stabilisce una riserva di competenza francamente incomprensibile. Non si vede perche’ debba essere il Dipartimento di Pubblica Sicurezza a raccogliere le denunce degli operatori e non, ad esempio, la Guardia di finanza o gli altri organi di polizia.
E’ forse opportuno ricordare, da un punto di vista strettamente pratico, i successi ottenuti dai comandi provinciali della Guardia di finanza nella repressione della pirateria audiovisiva, ovvero la forte specializzazione Gruppo di Anticrimine tecnologico (GAT) della Guardia di finanza.
La specializzazione di un organo di polizia nella prevenzione e repressione di particolari tipi di reato dovrebbe conseguire , a parere della scrivente Associazione, a un miglioramento del livello di preparazione normativa e tecnica che le forze di polizia, come tutti i pubblici funzionari, devono essere in grado di porre in essere ( e non con l’assegnazione di incarichi esclusivi, i quali, per la estrema genericita’, possono mettere in difficolta’ le stesse forze di polizia e male si addicono a fenomeni criminali marginali dal punto di vista dell’allarme sociale, come quelli del file sharing illegale).
Inoltre va ricordato che la principale specializzazione della polizia delle comunicazioni nel settore telematico, e’ quella della prevenzione e repressione della criminalita’ pedopornografica, una fattispecie che espone il reo a sanzioni molto gravi e che e’ in grado di destare un impatto enorme sulla coscienza sociale).
Cosi’ come e’ opportuno ricordare che le limitazioni dei diritti individuali nel settore delle telecomunicazioni e l’introduzione di norme tendenti ad ampliare i poteri delle forze di pubblica sicurezza, negli Stati Uniti come in Italia, sono state pensate per proteggere la collettivita’ dai rischi del terrorismo globale, che si serve sempre piu’ degli strumenti telematici.
Tutto il contrario invece delle condotte, al limite tra legalita’ e illegalita’ del peer-to-peer, che pur corrono il rischio di vedersi applicate, dal punto di vista delle indagini, le stesse regole della pedopornografia o delle intercettazioni “amministrative†nella prevenzione del terrorismo on line.
La Comunicazione al pubblico e il ruolo dei providers.
Per quanto attiene ai providers, premessa la necessita’ anche in questo caso di non veder trasformati questi ultimi in una sorta di surrogato delle prerogative dell’Autorita’ di pubblica sicurezza e della magistratura, occorre analizzare quale sia la loro responsabilita’ in casi di immissione in rete da parte di terzi di opere protette dal diritto d’autore.
Al riguardo la prima imprecisione riscontrata concerne la previsione della “comunicazione al pubblicoâ€: difatti, la norma, cosi’ come e’ formulata, appare in grado di punire tutte le condotte possibili ed immaginabili, ivi comprese le condotte esenti da colpa del provider che non si limiti a fornire la mera connettivita’, come emerge dall l’art. 1, n. 2 e 3 della legge Urbani: Al comma 1 dell’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni, le parole: â€a fini di lucro†sono sostituite dalle seguenti: â€per trarne profittoâ€.
3. Al comma 2 dell’articolo 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, dopo la lettera a) e’ inserita la seguente:
“a-bis) in violazione dell’articolo 16, per trarne profitto, comunica al pubblico immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore, o parte di essa;“.
La norma rivela, ad una piu’ attenta analisi, un’altra verita’ nascosta della legge in questione: ovvero la tendenza, in assenza di precise indicazioni sul compimento di un illecito nel caso di un’ indagine telematica, a considerare responsabile l’unico anello della catena che sia sicuramente rintracciabile: il provider, il quel sicuramente per professione comunica al pubblico “qualcosa†nel momento in cui fornisce connettivita’ o spazio web ad un terzo, senza che cio’ si possa considerare a priori una vera e propria compartecipazione criminosa.
Il ruolo dell’Autorita’ Giudiziaria.
Occorre tuttavia precisare che la legge Urbani, in sede di conversione, ha generato, a parere dell’Associazione, un indiretto miglioramento delle condizioni dei providers, perche’ ha specificato quale sia, in linea con il nostro dettato costituzionale, l’unica autorita’ in grado di imporre un comportamento attivo al provider: l’Autorita’ giudiziaria.
Contrariamente alle previsioni catastrofiche apparse anche di recente sugli organi di stampa, secondo le quali ad esempio “Piu’ preoccupati dovrebbero essere (e lo sono) i prestatori di servizi della societa’ dell’informazione, gravati da sanzioni sproporzionate e a cui sono attribuiti compiti di vigilanza e delazione alquanto dubbiâ€, occorre ribadire che nella legge Urbani, in sede di conversione, e’ stato aggiunto un inciso che, a parere dell’Associazione, si concilia perfettamente con le peculiarita’ del nostro sistema penale: in presenza di una attivita’ illecita e’ solo l’autorita’ giudiziaria e non il titolare del diritto che si assume violato ( gli autori, per intendersi, ovvero coloro che sfruttano i diritti connessi) o l’autorita’ di polizia a poter imporre un comportamento attivo al provider.
Se si va ad analizzare la disciplina dettata dalla Legge di conversione, ed in particolare l’art 1 commi 5 e 6 secondo i quali: “ 5. A seguito di provvedimento dell’autorita’ giudiziaria, i prestatori di servizi della societa’ dell’informazione, di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, comunicano alle autorita’ di polizia le informazioni in proprio possesso utili all’individuazione dei gestori dei siti e degli autori delle condotte segnalate. 6. A seguito di provvedimento dell’autorita’ giudiziaria, per le violazioni commesse per via telematica di cui al presente decreto, i prestatori di servizi della societa’ dell’informazione, ad eccezione dei fornitori di connettivita’ alle reti, fatto salvo quanto previsto agli articoli 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, pongono in essere tutte le misure dirette ad impedire l’accesso ai contenuti dei siti o a rimuovere i contenuti medesimiâ€, balza subito agli occhi che i providers – che effettivamente nel decreto originario erano soggetti ad una disciplina quasi-persecutoria con il dichiarato intento di porli ad avanguardia della possibile scoperta e repressione dei reati – sono oggi piu’ tutelati che in passato da un’ indiscriminata attivita’ di segnalazione di illeciti o da attivita’ non riconducibili al potere-dovere della magistratura di imporre comportamenti positivi a chicchessia.
Rispetto al plesso normativo di riferimento precedente all’entrata in vigore della Legge Urbani, risulta piu’ chiaro che i provvedimenti relativi alla tutela dei diritti di proprieta’ intellettuale che si ritengono violati non possono provenire piu’ solamente dalle Autorita’ Competenti ( e quindi ad esempio da un organo amministrativo), come previsto dalla disciplina peraltro richiamata del decreto di attuazione della direttiva sul commercio elettronico, bensi’ dall’Autorita’ Giudiziaria con tutte le garanzie, in primo luogo costituzionali, che tale richiesta comporta.
Questo inciso, pone al riparo i providers, ad avviso dell’ASSOPROVIDER, sia dalle pressanti richieste provenienti dalle Associazioni di tutela dei diritti di proprieta’ intellettuale (che hanno cominciato ad inondare letteralmente i providers di richieste di disattivazione accompagnate da riferimenti a volte molto imprecisi alle leggi a tutela della proprieta’ intellettuale) sia da richieste dell’Autorita’ di pubblica sicurezza che, in assenza dei requisiti specifici richiesti dalla legge, non vengano suffragate dal controllo dell’Autorita’ Giudiziaria e garantisce dunque a tutti i soggetti coinvolti nell’indagine il diritto di avvalersi della tutela ordinamentale del controllo della magistratura.
Conclusioni.
In ultimo appare opportuno concludere questi brevi osservazioni considerando che il mantenimento di un sistema di proprieta’ intellettuale fondato sul terrore e sulla pressione esercitata sugli utenti e sugli operatori telematici appare in grado di produrre due conseguenze:
– da un lato la possibile chiusura del mercato dei contenuti multimediali in un recinto impermeabile al cambiamento epocale portato dalla rete telematica in omaggio a principi nati in epoche ed in contesti del tutto differenti da quello attuale ( in proposito e’ utile ricordare che vi sono stati gia’ precedenti giurisprudenziali nei quali i titolari dei diritti di esclusiva sulle immagini delle partite di calcio, impedivano agli operatori di telecomunicazione di esercitare il legittimo diritto di cronaca, sul presupposto del mancato acquisto dei diritti di riproduzione delle immagini relative alle partite di calcio. E’ opportuno invece ricordare che la convergenza tra tecnologie di comunicazione e di trasmissione di immagini costituisce il futuro “prossimo†della comunicazione multimediale);
– dall’altro la limitazione della diffusione delle nuove tecnologie a banda larga, poiche’ i providers, interessati da nuove forme di limitazione e di controllo obbligatorio sulle attivita’ degli utenti, sarebbero di fatto occupati, anche economicamente, in attivita’ non direttamente legate all’oggetto del loro business, tralasciando lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione in ambito pubblico e privato.
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