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Il vecchio vizio del capitalismo italiano rispunta sulla nuova tecnologia digitale

5 Aprile 2005 Commenta

Basta pronunciare le parole, «libera concorrenza e competitivita’ del mercato» per sollevare polemiche e dissensi in una materia che negli ultimi tempi ha costituito aspro terreno di scontro politico per le tante asimmetrie e distorsioni  che affliggono il nostro sistema di regole sulla concorrenza.

In questo campo, l’Italia ha conosciuto un’evoluzione che non puo’ affatto dirsi conclusa. Il vecchio vizio del capitalismo italiano di trovare intese con lo scopo inequivocabile di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza, e’ evidentemente duro a morire, e ancora oggi la libera concorrenza in Italia e’ minata da interessi e lacune legislative che privilegiano i piu’ forti a danno dei piu’ deboli. Facciamo solo un passo indietro.

Fino a pochi anni fa, le intese sui prezzi di un prodotto, sul controllo della produzione, sulla ripartizione dei mercati e delle fonti di approvvigionamento erano prassi consolidata in una cultura economica, pubblica e privata, dominata dall’avversione ai principi del liberalismo.
Ebbene, oggi le cose non sono migliorate di molto.

Nonostante il processo di privatizzazione di ampi spazi dell’economia nazionale, infatti, i nuovi criptomonopolisti che hanno rimpiazzato le vecchie oligarchie statali fanno fatica, cosi’ come i loro danti causa, a reggere l’impatto della rivoluzione delle regole.

Guardiamo, per esempio, a quanto sta succedendo nel mercato televisivo. Un mercato aperto, sulla carta, ma in realta’ controllato da pochi competitor in grado di imporre le regole del gioco.

Quello che era accaduto con la televisione analogica sta accadendo con il nuovo mercato del digitale terrestre, terreno di conquista per i broadcaster principali, Rai Mediaset e La7/Telecom. Lo Stato italiano, unico caso in Europa, sovvenziona il passaggio alla nuova tecnologia digitale terrestre con un contributo pubblico per l’acquisto dei decoder, mentre in tutti gli altri paesi l’intervento statale si e’ limitato ad investimenti per le infrastrutture. Senza contare poi le recenti campagne pubblicitarie promosse dal ministero delle Comunicazioni, con volantini e mongolfiere negli stadi italiani, che inevitabilmente si trasformano in promozioni gratuite per le tre aziende a spese dei contribuenti. E’ chiaro che in un quadro di questo tipo la libera concorrenza tra operatori, cosi’ come quella tra diverse piattaforme digitali (terrestre, satellite, Adsl/cavo, Umts), risulta falsata in partenza.

P
eraltro, in materia di digitale terrestre la situazione italiana e’ giudicata anomala anche in sede europea. Nel rapporto finale sul Dtt dell’Epra, il coordinamento europeo di tutte le Authority per le comunicazioni, rispetto alle politiche adottate dai diversi governi nazionali per la diffusione del digitale terrestre, l’Italia e’ dipinta come un’eccezione nell’eccezione. In primo luogo, perche’ solo in alcuni tra i paesi in cui si sta introducendo il Dtt, i broadcaster non sono soltanto fornitori di contenuti, ma anche proprietari di piattaforme (oltre all’Italia anche Olanda, Norvegia e Slovacchia). In secondo luogo, perche’ soltanto nel nostro paese lo switchover, cioe’ il passaggio dall’analogico al digitale, «non e’ perseguito tramite procedure pubbliche, ma attraverso il cosiddetto frequency trading» cioe’ la compravendita di frequenze. Ed e’ evidente come questa metodologia garantisca un ruolo di primattori ai grandi broadcaster/carrier nazionali, che potendo acquistare frequenze da operatori piccoli o locali invitabilmente piu’ deboli, possono stabilire un “quasi monopolio” nel digitale terrestre.

Dall’apertura ai principi del libero mercato fino ad oggi, i governi europei hanno potuto comprendere che l’economia di mercato non assicura di per se’, automaticamente, la competizione ad armi pari tra i vari soggetti economici, perche’ la tentazione di  agire in contrasto o in dissonanza con le regole della concorrenza e’ tanto piu’ forte quanto e’ piu’ forte l’appetito del competitor.

Per fare questo servono regole. E non e’ difficile capire che la concorrenza, se ben regolata ed applicata, costituisce un formidabile fattore di sviluppo dell’economia  perche’ incoraggia la nascita e la crescita di nuove imprese, ridistribuendo ricchezza al paese oggi ferma nelle mani dei soliti noti.


Le presenti considerazioni gia’ apparse con taglio giornalistico su  “il Riformista” di venerdi’ 25 marzo 2005 prendono spunto dall’istruttoria che l’Antitrust ha avviato nei confronti di Rti, Mediaset e Fininvest, «per presunte restrizioni della concorrenza»  relativamente all’acquisizione di diritti di trasmissione televisiva delle partite del campionato di calcio di serie A e B di alcune squadre, per le stagioni sportive 2004/2005, 2005/2006, 2006/2007.

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